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Salonicco – La silenziosa sistematicità della violenza

Pratiche di respingimento dei migranti nella zona Balcanica e nel nord della Grecia

Foto di archivio, 3 marzo (AP Photo/Giannis Papanikos)

“He said I was trying 7 times from the border of Greece and Albania. And all these 7 times he like walking 20 kilometres, 7 kilometres, and they pushed him back 7 times”

Siamo a Salonicco, antica capitale della Macedonia. È una città di passaggio per le persone che arrivano dalla Turchia: qualche giorno per riposarsi, trovare acqua e cibo, recuperare le energie, e poi il viaggio riprende verso l’Albania, o la Macedonia del Nord. Ma ultimamente la situazione sta cambiando; l’atmosfera della città si è incupita. Le autorità greche hanno adottato nuove pratiche di respingimento dei migranti e le violenze, indiscriminatamente perseguite, sono sempre più frequenti.

Anche la tensione tra la popolazione locale aumenta di giorno in giorno, tanto da sfociare in veri e propri attacchi di razzismo organizzati, come è successo la notte del 22 agosto ad un ragazzo di ventidue anni, rincorso e accoltellato diverse volte da un gruppo di circa sedici persone.

Ma andiamo con ordine. Di che deportazione stiamo parlando? Si chiama pushback, ed è una pratica illegale che prevede il respingimento di uno o più soggetti che vengono forzatamente portati da un Paese all’altro senza subire alcun tipo di processo giuridico. Nonostante l’illegittimità di queste operazioni, il pushback è col tempo diventato una consuetudine, tanto che, tra Aprile e Luglio, sono state raccolte più di quattrocento testimonianze al mese solo nella zona balcanica.

Per quanto riguarda il territorio ellenico, i respingimenti avvengono soprattutto dall’Albania e dalla Macedonia del Nord verso la Grecia e dalla Grecia verso la Turchia. Durante il lockdown degli ultimi mesi, questa pratica si è consolidata e sistematizzata, ma ha anche subito un mutamento preoccupante.

Dall’essere fenomeno di confine, ha iniziato a riguardare anche i luoghi più sicuri nel continente, come Salonicco; città e piccoli centri urbani lontani dall’instabilità delle zone periferiche del Paese hanno iniziato a diventare focolai di pratiche violente, nascoste dal giudizio della legge e dell’opinione popolare.

Il 5 giugno, la polizia ha arrestato circa trentacinque persone presso un centro di distribuzione di cibo nella periferia di Salonicco. Con la scusa che sarebbero stati portati alla stazione di polizia per ottenere la “khartia” – il permesso di soggiorno per un mese -, sono stati fatti salire sull’autobus della polizia e, in circa cinque ore, portati al confine greco-turco. Lì, sono stati picchiati, derubati dei loro averi, obbligati a spogliarsi ed infine respinti al di fuori dell’Unione Europea.

Ma l’informale ed assiduo protocollo delle deportazioni si è spinto oltre agli arresti cittadini; tra i mesi di Marzo e Aprile vi sono stati respingimenti dai centri di detenzione provvisoria di Drama, Xanthi e Paranasi.

Deportazioni di massa con quaranta, cinquanta persone per volta. Spesso con la presenza di minori, famiglie, persino neonati. Abbandonati lungo il fiume Evros, violati nel corpo e nella psiche, indotti a dimenticare di poter trovare nella Grecia un rifugio.

Le violenze che accompagnano i pushbacks – già di per sé illegali – sono ripetitive, sistematiche, strutturate; dalle testimonianze raccolte, coloro che vengono respinti dalla Grecia alla Turchia sono solitamente soggetti a violenza fisica, obbligati a spogliarsi e derubati di oggetti personali. Al confine greco-macedone, rimane frequente il furto di alcuni oggetti, tra cui telefoni e scarpe – talvolta una, talvolta solo i lacci, per impedire la fuga -; le autorità presenti in Nord Macedonia sono inoltre regolarmente violente: calci, pugni, insulti, attacchi con cani, tasers, spray al peperoncino.

So they was naked from everything, they took everything from them. Money, clothes, phones, everything. So, they first…firstly they took off them clothes and they start beating them, and they was laughing and they was so happy to do that.

“So sometimes they say they took off just one shoe, just one. And they give you just one. They give you the left one and they took the right one.”

E la situazione risulta ancora più preoccupante dal momento in cui, dalle testimonianze, emerge frequentemente il coinvolgimento di autorità internazionali quali Frontex. Ufficiali con uniformi italiane, ceche, slovacche, tedesche; la fascia dell’Unione Europea sul braccio. Spesso hanno il volto coperto. Parlano lingue straniere e, fra loro, l’inglese. Ma riuscire a notare i dettagli delle uniformi è una fortuna; quasi sempre le deportazioni avvengono di notte, ed i migranti sono obbligati a guardare per terra, costantemente minacciati sia verbalmente, sia con l’uso intimidatorio di armi. E così, l’azione delle autorità risulta difficilmente condannabile, nascosta dal buio della notte e della soppressione.

“So when you want to focus on them, he just come and hit you. Like he said you have to be like, you have to look on the floor.”

Il 20 agosto, un piccolo gruppo di quattro ragazzi tra i sedici e ventiquattro anni provenienti dall’Algeria e dal Marocco, sono stati intercettati in Macedonia del Nord, in una stazione ferroviaria vicino alla cittadina di Zelenikovo.

Le autorità coinvolte – in totale quattro – erano un poliziotto macedone e tre agenti sulle cui uniformi erano presenti sia la bandiera dell’Unione Europea sia, rispettivamente, la bandiera croata, slovacca e ceca. Al gruppo di migranti sono stati legati i polsi con delle fascette e solo successivamente sono stati picchiati duramente con il bastone di comando. Dopodiché, sono giunti al confine con la Grecia, dove sono stati consegnati alle autorità macedoni le quali, dopo ulteriori percosse, hanno costretto i quattro ragazzi ad attraversare il confine.

Il vergognoso silenzio delle istituzioni e dei principali canali d’informazione riguardo agli accadimenti che riguardano non solo la Grecia ma tutta la regione balcanica non fa altro che aggravare ulteriormente una situazione di per sé inaccettabile. Le istituzioni non solo violano i diritti umani dei soggetti, ma utilizzano pratiche di violenza sistematiche, causando e perpetuando danni a livello fisico e psicologico sui soggetti migranti.

Così, per chi ha un passaporto di debole valore, la migrazione continua ad essere un fenomeno innanzitutto traumatico, che si aggiunge spesso ad un passato di per sé già complesso, se non drammatico. Solo attraverso la costante diffusione di notizie e la sensibilizzazione di coloro che vivono nelle zone privilegiate del mondo è possibile portare avanti una linea di cambiamento in grado di de-costruire l’immaginario della migrazione come un fenomeno d’emergenza e inserire tale fenomeno in una cornice di normalità.

Ed è proprio attraverso il processo di normalizzazione che può diventare possibile riorganizzare radicalmente il flusso migratorio, rispettando gli individui in quanto tali, riconoscendo le loro storie come individuali ed uniche e cessando di guardare ai migranti come ad una categoria omogenea, trattabile come unità dai confini ben definiti. Non si tratta di conferire dignità all’altro, ma di ritrovarla nel nostro sguardo.

So, he was…in so bad psychological, psychologic situation, and he feels so bad there and, he was want to suicide, like, he put something here [neck], he was want to suicide. They saw him, a police man […] saw him there, and he just run to him and open the door, and take him back to the hospital.

Traduzione (dall’arabo) di una testimonianza di un ragazzo algerino di 29 anni in una stazione di polizia ad Atene

Lidia Tortarolo *


Border Violence Monitoring Network

Tutti i dati a cui si fa riferimento provengono da Border Violence Monitoring Network, una rete di ONG ed associazioni impegnate a raccogliere testimonianze di violenze e pratiche illegali contro migranti e richiedenti asilo lungo i confini europei, in particolare nella zona Balcanica ed in Grecia. Il progetto è iniziato nel 2016 grazie alla collaborazione di diversi enti che, divenuti consapevoli della frequenza di azioni illegali da parte delle istituzioni, hanno iniziato a portare avanti attività di ricerca ed advocacy.

Lidia Tortarolo

Quasi antropologa e aspirante ricercatrice. Vivo a Milano ma vorrei spesso essere Altrove. Mi interesso di migrazione perché non posso non farlo: è qualcosa che mi prende lo stomaco, me lo rigira. Al momento mi sto occupando principalmente di temi legati all’antropologia della violenza e all’antropologia medica, in relazione al contesto migratorio della Rotta Balcanica.