Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

La cittadinanza italiana oltre il caso Suarez

Riconoscere e disarticolare il nostro privilegio

Photo credit: Claudio Colotti

L’esame di lingua sostenuto dal calciatore uruguaiano Suarez, oggetto di inchiesta della procura di Perugia, ha riportato per diversi giorni il tema della cittadinanza al centro del dibattito pubblico. La vicenda è emblematica di quanto i criteri e le procedure per il riconoscimento della cittadinanza italiana siano arbitrari e ingiusti. Passato il clamore mediatico, è utile provare a mettere a fuoco in che termini l’ottenimento della cittadinanza sia un privilegio.

Privilegio strutturale

«Lui non spiccica una parola, non coniuga i verbi, parla all’infinito ma prende 10 milioni a stagione e all’esame deve passare, ma te pare che lo bocciamo?». Le parole oggetto dell’intercettazione telefonica sono la puntuale sintesi di quanto lo status economico del candidato all’ottenimento della cittadinanza italiana orienti il comportamento degli attori coinvolti nelle procedure.

Suarez è indubbiamente privilegiato dalla professione che svolge e dal giro di affari che mobilita. La mobilitazione mediatica e di piazza contro questo privilegio sono assolutamente condivisibili. Allo stesso tempo, il dibattito in corso può essere un’occasione per identificare e dare forma a un’altra tipologia di privilegio, marcatamente diffuso eppure spesso invisibile.

A chi scrive queste note, titolare della cittadinanza italiana fin dalla nascita in quanto figlio di genitori italiani, il dibattito sul caso Suarez ha restituito sensazioni ambivalenti. L’indignazione per il privilegio di Suarez è stata la prima sensazione dominante. In una fase immediatamente successiva, l’indignazione è stata accompagnata da sensazioni di altro tipo: imbarazzo e disagio. Il caso Suarez parla, in fin dei conti, anche a noi italian*. Alla nostra cittadinanza, al nostro privilegio.

La trappola del merito

Facciamo parte, fin dalla nascita, dei/delle privilegiat* con la nazionalità italiana e, quindi, con la cittadinanza europea. È un privilegio molto spesso invisibile per chi lo possiede. Attraversiamo i confini, scegliamo liberamente dove vivere, abbiamo pieno accesso ai diritti sociali, al pubblico impiego, ai diritti politici. Tutto questo ci sembra naturale.

Abbiamo meritato la cittadinanza di cui beneficiamo? È molto difficile sostenerlo. Chi nasce e/o cresce in Italia, fianco a fianco con noi italian*, ma è figlio di genitori di origine straniera, è sistematicamente escluso dall’ottenimento della cittadinanza italiana per via dei criteri iniqui, identitari e classisti dell’attuale normativa. Che fare di questo privilegio?

La consapevolezza e il racconto della propria condizione privilegiata possono assumere, in questa fase, una dimensione compiutamente politica. I confini attuali della cittadinanza sono inaccettabili. La cittadinanza è uno degli strumenti più efficaci per sezionare in due la società, costituire gerarchie e attribuire diritti e opportunità in maniera altamente differenziata. Esercita un enorme biopotere: blocca il movimento delle persone. La normativa italiana sulla cittadinanza spicca, tra quelle europee, per i suoi caratteri marcatamente selettivi ed escludenti.

Disarticolare i confini della cittadinanza

«La cittadinanza attiva», «il buon cittadino», «la cittadinanza si mobilita». Nel linguaggio comune, le espressioni che contengono la parola cittadinanza hanno sempre un’accezione positiva. Si tratta di un’illusione prospettica. I tratti fondamentali di questo istituto hanno strutturalmente a che fare con l’esclusione, la selezione, l’arbitrio. È un potentissimo dispositivo che divide in due la società e favorisce il mantenimento delle ingiustizie locali e globali.

Che fare, dall’interno della cerchia dei/delle cittadin*, per mettere in discussione i confini che separano chi è dentro da chi è escluso dallo status? Il percorso che è possibile compiere per politicizzare la propria condizione privilegiata e metterla in discussione è suggerito dalla mobilitazioni degli/delle attivist* delle nuove generazioni. La retorica dominante, a cominciare da quella progressista, spesso li chiama «fantasmi», «invisibili», «ai margini». Al contrario, le organizzazioni, i collettivi e le associazioni costituiti da attivist* con background migratorio esprimono anche in Italia, sulla scia delle mobilitazioni globali contro il razzismo strutturale, un protagonismo politico tutt’altro che marginale.

Sostenere le mobilitazioni per una trasformazione radicale della cittadinanza può essere l’occasione per fare i conti con il proprio privilegio e metterlo in discussione.

Non è sufficiente svecchiare la disciplina attuale e introdurre specifici correttivi. È indispensabile disarticolare i confini della cittadinanza e fare in modo che la libertà di movimento e il pieno accesso ai diritti sociali e politici siano appannaggio di tutt*.

Francesco Ferri

Sono nato a Taranto e vivo a Roma. Mi occupo di diritto d'asilo, politiche migratorie e strategie di resistenza sia come attivista sia professionalmente. Ho partecipato a movimenti solidali e a ricerche collettive in Italia e in altri paesi europei. Sono migration advisor per l’ONG ActionAid Italia.