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Il potere in una parola

Una breve analisi della strumentalizzazione del termine “migrante”

Photo credit: ASD Quadrato Meticcio Football

migrante agg. [part. pres. di migrare]. – Che migra, che si sposta verso nuove sedi: popoli, gruppi etnici m.; animali, uccelli migranti.

Ma quale significato assume questa parola per noi, oggi? Migrante è nemico, intruso, ladro, criminale, ma anche disperato, vittima, sofferente. Migrante è generosità, umanità, solidarietà. È certamente inferiorità, e crisi; è una parola che trabocca dalle labbra di chi migrante non è.

Nonostante indichi originariamente una condizione di semplice spostamento, questo termine ha assunto col tempo – e specialmente dal 2015 – una molteplicità di significati, spesso legati a discorsi politici, campagne mediatiche o attività umanitarie. Si è trasformata in una parola carica di potere, potenzialmente strumentalizzabile, e si è frammentata in diversi termini specifici che hanno tuttavia creato una confusione diffusa sia tra le masse, sia all’interno delle istituzioni. Richiedente asilo, rifugiato, migrante economico: fanno tutte parte della macro-categoria della persona che si sposta; ma a cambiare sono gli status e le motivazioni del viaggio e, con esse, anche il grado di accettazione che siamo disposti a dimostrare.

Al termine rifugiato associamo innanzitutto l’immagine di un individuo-vittima in fuga dalla violenza, dalla guerra, e questa rappresentazione deriva da e rinforza il processo di ottenimento dell’asilo: i soggetti sono portati a costruire e ricostruire una storia che sia il più drammatica possibile, aderendo all’identità di vittima, l’unica sopportabile e accettata dalla collettività.

Abbiamo prodotto un sistema “d’accoglienza” fondato sull’asilo, la cui concessione si basa su criteri etnici e sulla violenza imposta ai soggetti coinvolti di ricercare quanta più sofferenza possibile nel loro passato, essendo l’asilo uno dei pochi strumenti a disposizione degli individui provenienti da diversi paesi di soggiornare legalmente in Italia.

Un sistema quindi strutturalmente violento e discriminatorio che nelle sue diverse realtà protrae la situazione spesso già complessa delle persone in transito e incastra il soggetto migrante nella non-scelta d’essere vittima (rifugiato) oppure sfruttatore, ladro di lavoro, se non criminale (migrante economico). Un sistema che è figlio di un Paese largamente ignorante e inefficiente a livello organizzativo, che riduce la complessità del fenomeno migratorio e contemporaneamente lo incatena ad un immaginario di crisi, favorendo l’ostilità piuttosto che l’accoglienza. Troviamo in tutto queste delle dinamiche di potere chiare, evidenti anche se non esplicitate, che ripropongono una logica tristemente suprematista.

Ma il mondo pubblico ed istituzionale non è il solo a produrre e riprodurre delle relazioni di potere e subordinazione nei confronti dei migranti. Io stessa, scrivendo questo articolo e parlando dell’Altro; definendo, presupponendo, delineando…io stessa creo attraverso le mie parole una relazione di potere.

Quando scriviamo di migranti ci inseriamo – non possiamo prescinderne – nel contesto in cui la parola migrante assume i significati di cui abbiamo discusso, agendo da un posizionamento specifico, dove per posizionamento s’intende la consapevolezza di chi siamo noi quando scriviamo dell’altro in quanto soggetti storici – e politici -, e quali effetti può avere questo sulle persone di cui scriviamo. E non possiamo che ammettere che “scrivere del migrante” vuol dire riconoscere la duplice posizione di autorità che deriva da un lato dal parlare di qualcun altro, dall’altro dal rapporto di potere tra le persone occidentali e quelle provenienti dal Sud del mondo – un rapporto che trova le sue radici nel colonialismo. È soprattutto ciò che appiattisce le differenze, che nega la complessità ed insegue che in questo contesto è più soggetto a perpetuare dinamiche di subordinazione.

Ma non possiamo né negare né estraniarci dal campo in cui siamo immersi: esistiamo in un mondo determinato da linee di potere e da rapporti di subordinazione, e sovvertirli, in un certo senso, non fa altro che riprodurli. “Dare voce” al migrante, come se fosse una concessione – e in effetti la è – fa emergere ancora più evidentemente questi rapporti.

E allora come fare? È necessario creare pratiche che mettano in luce queste posizioni di potere, accettando i diversi livelli di subordinazione presenti in tutte le relazioni, ed implementare nonostante ciò pratiche che riconoscano l’agency dei soggetti in questione. Occorre “dare voce ai migranti” riconoscendo la derivazione meramente storica di questo potere, il quale autorizza l’individuo bianco a scrivere e parlare dell’altro. Riconoscendo questo, è possibile iniziare a pensare nuove strategie co-costruite con i soggetti interessati, in modo tale da modificare lentamente le relazioni di potere.

La riflessione è tutta qua: essere coscienti di questi rapporti di forza, e tentare di cambiarli attraverso pratiche quotidiane e atti consapevoli, accettando di non poter negare di vivere in una costante contraddizione.

Lidia Tortarolo

Quasi antropologa e aspirante ricercatrice. Vivo a Milano ma vorrei spesso essere Altrove. Mi interesso di migrazione perché non posso non farlo: è qualcosa che mi prende lo stomaco, me lo rigira. Al momento mi sto occupando principalmente di temi legati all’antropologia della violenza e all’antropologia medica, in relazione al contesto migratorio della Rotta Balcanica.