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«Non ci guarda più nessuno»: detenzione migrante e Covid-19 in Italia

La presentazione del rapporto pubblicato da Border Criminologies

Photo credit: Francesca Esposito (CPR di Ponte Galeria a Roma)

Post di Francesca Esposito, Emilio Caja e Giacomo Mattiello. Francesca è una ricercatrice post-doc al centro di criminologia dell’Università di Oxford dove fa parte del gruppo di ricerca Border Criminologies; Emilio si è recentemente laureato alla facoltà di scienze politiche e relazioni internazionali dell’Università di Oxford; Giacomo Mattiello si è da poco laureato in scienze politiche presso l’Università di Milano ed è attualmente studente di antropologia presso l’Università di Torino.

Mentre in tutto il mondo i timori e le angosce causate dalla pandemia continuano ad incidere negativamente sulla vita quotidiana delle persone, persiste anche la preoccupazione circa l’impatto del Covid-19 sulle comunità migranti, soprattutto su coloro che sono ancora in attesa di ottenere un permesso di soggiorno o che si trovano in situazione di detenzione. Nonostante la maggioranza dei dibattiti attuali veicoli l’idea che “stiamo affrontando questo nemico comune (Covid-19) tutti/e insieme”, è ovvio che le pre-esistenti ineguaglianze strutturali basate su costruzioni di razza, genere, classe sociale e cittadinanza abbiano un forte impatto sul rischio di essere esposti a (e colpiti da) questo virus. È altrettanto ovvio che il confinamento forzato inerente alla detenzione di persone migranti, tal come in altre forme di incarcerazione, aumenta il rischio di contagio.

Questa è una situazione allarmante, soprattutto perché le condizioni nei centri di detenzione, come dimostrato ormai da tempo da diverse ricerche e relazioni di ONG, non sono adeguate a garantire il diritto alla salute e ad una vita degna alle persone detenute (e allo staff), soprattutto nel bel mezzo di una pandemia (o sindemia) globale. Sovraffollamento e condizioni degradanti delle strutture, scarsa igiene, accesso ridotto a cure mediche e carenza di canali di informazione sono solo alcuni dei problemi che caratterizzano queste istituzioni. Questa situazione ha destato preoccupazioni tra studiosi e attivisti, causando altresì proteste tra le persone detenute.

Photo credit: Francesca Esposito (Il centro di detenzione di Ponte Galeria a Roma)

Alla luce di contesto altamente preoccupante ci siamo sentiti in dovere di unirci a tanti/e attivisti/e e studiosi/e di tutto il mondo e fare qualcosa. Eravamo e siamo consapevoli che luoghi come i centri di detenzione, e le persone che vi sono trattenute, sarebbero facilmente stati dimenticati durante la pandemia, divenendo così ancor più invisibili del solito. É questo senso di urgenza a “fare qualcosa”, seppur dai nostri contesti “privilegiati” di lockdown, e la consapevolezza che monitorare ciò che accade dentro a queste istituzioni è di cruciale importanza soprattutto in periodi storici come questo, che ci hanno guidati nel redigere questo report, che si concentra sul periodo del lockdown nazionale in Italia (9 marzo/18 maggio).

Questo report fa inoltre parte di un progetto più ampio intitolato: “La detenzione dei migranti in Italia e in Grecia: salvaguardare i diritti umani ai confini meridionali dell’Europa”, coordinato da Mary Bosworth in collaborazione con Andriani Fili e Francesca Esposito e finanziato dalla Open Society Foundation (OSF). Il progetto è stato creato con lo scopo di assicurarsi che ciò che accade nei luoghi di frontiera non rimanga nascosto al grande pubblico, che le voci dei migranti vengano ascoltate, e che gli attivisti e i gruppi di solidarietà ricevano le informazioni e il sostegno necessari per trasmettere le evidenze raccolte ad un pubblico non solo nazionale, ma globale. Per fare ciò, all’inizio del 2020 è stata lanciata una mappa interattiva, Landscapes of Border Control, che rappresenta la Grecia e l’Italia e il modo in cui vengono vissute e trasformate dalla presenza dei migranti e dalle loro lotte.

In generale, la nostra analisi ha evidenziato che nonostante ci sia stato leggero calo del numero di persone detenute nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) italiani nel periodo tra marzo e maggio del 2020, questa riduzione è stata regolata da logiche selettive di controllo sociale che, in ultima analisi, hanno creato una sorta di “gerarchia di meritevolezza della detenzione”.

Coerentemente con precedenti risultati evidenziati da Francesca Esposito, che dimostrano come nozioni razzializzate e genderizzate di “vulnerabilità” e di “pericolosità” entrino in gioco nel continuo ridisegnamento della linea che divide i soggetti “meritevoli” e quelli “non meritevoli” di detenzione, donne e richiedenti asilo sono state le prime persone ad essere rilasciate (questa tendenza si è verificata anche in altri paesi, vedi qui alla data 11 maggio, qui e qui). In altre parole, questi sono stati i primi gruppi sociali riconosciuti come “degni di compassione”.

Viceversa, non sorprende che i migranti senza dimora – molti dei quali si trovano anche ad affrontare sfide di salute mentale – e coloro che provengono dal carcere, siano stati i principali soggetti ad accedere e a popolare i centri di detenzione durante questo periodo. Questi dati mettono in evidenza il ruolo cruciale di costrutti quali la “marginalizzazione sociale” e la “pericolosità” nell’applicazione selettiva della detenzione nel periodo da noi preso in analisi.

È altrettanto interessante notare come questi costrutti, già presenti ed utilizzati ben prima dell’inizio della pandemia, come dimostrato dal lavoro di Giuseppe Campesi e Giulia Fabini, siano stati ulteriormente modificati dalla logica igienico-sanitaria di controllo sociale messa in atto in questo periodo. Come risultato, i numerosi migranti senza una casa e in condizioni di accresciuta vulnerabilità a causa della sospensione dei già limitati servizi sociali e sanitari a loro disposizione, sono divenuti obiettivo primario dei controlli delle forze di polizia e delle politiche razzializzate di contenimento (si veda ad esempio il caso del CPR di Torino).

La maggior parte di questi casi sono stati esaminati da giudici di pace che, nonostante l’emergenza sanitaria globale, hanno confermato la loro tendenza a validare ed estendere le misure di detenzione ordinate dall’autorità di pubblica sicurezza, in contrasto con le linee guida normalmente adottate dai giudici delle sezioni specializzate dei Tribunali (su questo argomento si veda anche qui).

Altro dato interessante emerso dal nostro lavoro di analisi è quello che riguarda il regime quotidiano all’interno di questi centri e le strategie di potere utilizzate per governare le persone migranti in essi detenute.

I resoconti raccolti dal nostro gruppo di ricerca rivelano come, in generale, i/le migranti detenuti/e sono stati/e abbandonati/e all’interno di questi centri ed esposti/e a condizioni di vita estremamente precarie. Talvolta non state nemmeno fornite loro informazioni adeguate riguardo al virus e alle misure da adottare per proteggere la propria salute. Non si tratta di risultati nuovi; negli anni migranti, attivisti/e ed ricercatori/trici hanno spesso parlato del senso di abbandono che regna in questi luoghi remoti, tenuti perlopiù nascosti all’opinione pubblica. Un senso di abbandono che viene anche spesso menzionato per distinguere i CPR da altri istituti di reclusione quali le carceri. È però evidente come la pandemia abbia amplificato questa dimensione, rendendo particolarmente evidente come l’abbandono e l’incuria sono utilizzate come modalità specifiche di potere per governare le persone recluse in queste strutture (vedi simili analisi applicate ad altri contesti di detenzione nazionale). Lo spiegano bene le parole di un detenuto intervistato da Radio Radicale all’inizio di Marzo:

Siamo confinati come animali dentro le stalle, nessuno ci controlla, né gli organi interni qui dentro né quelli esterni (ministeri, questore). Non ci ascolta più nessuno, nessuno ci sta più guardando, perché l’emergenza ora è nazionale, globale.

Questa situazione è stata aggravata dall’ispessimento del velo di opacità che circonda queste istituzioni, a causa dell’interruzione delle visite da parte di parenti e amici così come di associazioni e gruppi esterni.

Photo credit: Francesca Esposito (Tramonto dietro le sbarre. CIE di Ponte Galeria)

In conclusione, la pandemia ha portato i paesi in tutto il mondo a chiudere i propri confini, impedendo in gran parte l’esecuzione dei rimpatri, ma non ha fermato il governo italiano e le autorità di pubblica sicurezza dal continuare a detenere le persone migranti. Ciò ha confermato la funzione della detenzione come misura di contenimento usata per gestire soggetti “indesiderati” e “problematici” e allontanarli dagli spazi pubblici, specialmente in un momento caratterizzato da forti preoccupazioni sanitarie a livello nazionale e globale.

In altri paesi, tuttavia, sono stati utilizzati approcci diversi. Ad esempio, già ad inizio aprile il Ministero degli Interni spagnolo aveva dichiarato la volontà del governo di liberare tutte le persone migranti detenute e chiudere temporaneamente tutti i centri di detenzione (chiamati Centros de Internamiento de Extranjeros-CIE).

Questo piano è stato ultimato il 6 maggio, quando le autorità spagnole hanno annunciato che tutti i centri di detenzione erano completamente vuoti (diverso il caso dei due Centros de Estancia Temporal para Inmigrantes, CETI, situati nell’enclave di Ceuta e Melilla, dove la situazione è invece peggiorata).

Nonostante tutte le limitazioni legate a questo processo, soprattutto il fatto che la chiusura dei CIE sia stata una misura temporanea legata alla pandemia Covid-19 e che oggi le persone migranti hanno ricominciato ad essere detenute, riteniamo che questo avvenimento sia significativo. Ci dimostra infatti che possiamo vivere senza queste istituzioni carcerarie. Dimostra anche che non è poi così difficile porre fine alla detenzione amministrativa delle persone migranti e lasciarle vivere e muovere liberamente nelle nostre comunità: è una ipotesi concreta, e non utopica.

A nostro avviso è uno scenario collettivo che, nel futuro prossimo, dobbiamo impegnarci con forza a promuovere.