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I diritti negati dello straniero nell’antitesi tra libertà e sicurezza: i CPR

“L’istituzione del CPR non ha limitato la percentuale di irregolari sul territorio, bensì ha accresciuto la marginalizzazione dello straniero”

CPR di Ponte Galeria dopo un incendio

Nell’antitesi tra libertà e sicurezza, la protezione dei diritti dello straniero è limitata da esigenze di protezione sociale, sicurezza nazionale ed ordine pubblico. Si tratta di nozioni che rischiano di assumere declinazioni vaghe e pericolose, che giustificano la reclusione di soggetti che non sono destinatari di condanne o provvedimenti cautelari, in virtù di una surreale “emergenza profughi”.

In specie, l’ordine pubblico assurge da interesse superiore che legittima l’autorità amministrativa a interventi arbitrari che incidono fortemente sulla sfera della libertà personale. Ne sono l’emblema i provvedimenti di espulsione e allontanamento dal territorio nazionale, in particolare ove seguiti dalla reclusione all’interno di in un centro di permanenza per il rimpatrio (CPR).

Infatti, sebbene la ratio della detenzione amministrativa sia favorire il rimpatrio degli irregolari, è ormai evidente il suo carattere repressivo e punitivo.
 I CPR per struttura, organizzazione e condizioni di vita sono vere e proprie carceri, in cui gli stranieri sono confinati a causa della loro cittadinanza.
L’esterno è permeato sul modello degli edifici penitenziari di massima sicurezza: vi sono mura elevate, reti metalliche, sbarre di ferro e cortili in cemento. L’interno, invece, si connota per la massiccia presenza di dispositivi di sicurezza, la carenza di privacy, la penuria di spazi di socialità e la costante violenza.
È una conformazione chiaramente inadeguata a garantire un livello di vivibilità rispettoso della dignità umana, che innesta fenomeni di autolesionismo, fughe e rivolte.
La situazione è, certamente, esacerbata dall’emergenza pandemica da covid-19, che ha fatto emergere problemi strutturali della detenzione amministrativa, quali il sovraffollamento e la difficoltà di accesso alle cure mediche per gli “ospiti” dei CPR, nonché accentuato la ghettizzazione dello straniero. In questo scenario, la comunicazione tra detenuti e realtà esterna subisce una grave rarefazione, con riflessi sul diritto di difesa del singolo e l’aumento di abusi perpetrati nei confronti dei trattenuti.

Alla luce di quanto esposto pocanzi, appare naturale interrogarsi sulla legittimità e l’opportunità di simili centri.

Per quel che concerne la base normativa, l’art. 14 T.U.I. sancisce che “quando non è possibile eseguire con immediatezza l’espulsione mediante accompagnamento alla frontiera o il respingimento, a causa di situazioni transitorie che ostacolano la preparazione del rimpatrio o l’effettuazione dell’allontanamento, il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di permanenza per i rimpatri più vicino, tra quelli individuati o costituiti con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze”. La novella prosegue enucleando, ai commi 4 e 5, le garanzie costituzionali poste a tutela dello detenuto.

Infatti, la detenzione all’interno di un centro di permanenza per il rimpatrio costituisce una misura fortemente lesiva della libertà personale, in quanto determina «quella mortificazione della dignità dell’uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere e che è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale» (Corte Costituzionale, sentenza del 22 marzo 2001, n. 105).

Ne consegue che tale misura sia demandata ad una duplice garanzia, la riserva di legge e la riserva di giurisdizione, in conformità con il dettato costituzionale che all’art. 13 pone dei limiti al potere arbitrario dell’autorità di pubblica sicurezza.
 Dunque, il provvedimento con cui il questore dispone il trattenimento deve essere trasmesso entro 48 ore al Giudice di pace, il quale sentito l’interessato e ove sussistano i presupposti, procede alla convalida o al rilascio entro le successive 48 ore, a pena di inefficacia. Tuttavia, il diritto al contraddittorio, nei fatti, è troppo spesso oggetto di rinuncia da parte dello straniero, convinto da un avvocato d’ufficio che ha più interesse a concludere celermente il procedimento, anziché a tutelare il suo assistito.

Nel caso di convalida lo straniero viene trattenuto nel centro per un periodo di 30 giorni, prorogabili fino ad un massimo di 90 giorni (120 qualora lo straniero sia cittadino di un Paese con cui l’Italia ha sottoscritto convenzioni in materia di rimpatrio).

Se, nonostante tali proroghe non si riesca ad eseguire l’accompagnamento alla frontiera, il Questore ordina allo straniero di lasciare il territorio dello Stato, indicando le conseguenti sanzioni a cui sarà sottoposto in caso trasgressione. È stato rinvenuto, però, che lo straniero rispetta poco tale diffida, salvo l’ipotesi in cui desideri recarsi in un altro stato dell’area Schengen, per cui egli rimane nel nostro territorio da irregolare.

Emerge così la discrasia di un sistema che produce meramente sofferenza allo straniero. Infatti, se la ratio della detenzione amministrativa consiste nel preservare l’ordine pubblico dalla minaccia del forestiero, l’esperienza ha dimostrato la sua inefficienza nella gestione del fenomeno migratorio.

L’istituzione del CPR non ha limitato la percentuale di irregolari sul territorio, bensì ha accresciuto la marginalizzazione dello straniero. La reclusione infatti ne accentua il disagio psicologico, sociale ed economico, con la naturale esposizione a fenomeni di microcriminalità.
 Si rende pertanto necessario riformare le politiche migratorie, destinando le risorse economiche a sistemi di regolarizzazione ed inclusione, anziché alla reclusione.

È funzionale, a tal scopo, lo sradicamento di una cultura eretta sulla paura e l’antigarantismo, alimentata da una classe politica che promuove misure illiberali ed inefficaci alla gestione del fenomeno migratorio.