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L’ “accoglienza” delle famiglie migranti a Parigi

di Silvia Verità, operatrice presso un centro di accoglienza diurno

Photo credit: Monica Cillerai e Stefano Lorusso (Parigi, Place de Stalingrad)

Lavoro a Parigi dal 2016, presso un centro di accoglienza diurno per famiglie migranti senza domicilio e che vivono in condizioni di grande precarietà. Il mio arrivo in questa struttura è coinciso con quella che, nel discorso politico e mediatico, è stata definita come una “crise migratoire”.

Le misure che il governo francese ha messo in atto per far fronte a tale crisi hanno portato alla creazione di diversi centri di accoglienza simili al mio, in cui è possibile passare la giornata ma non la notte. I fondi destinati alla creazione di questo tipo di strutture sono ulteriormente aumentati a partire dal 2018, a scapito però di quelli destinati alla creazione di nuovi alloggi. Come spesso succede nel caso di politiche concepite in un contesto di emergenza, tali misure non sono infatti pensate per dare dei riscontri a lungo termine, ma si pongono invece come un debole palliativo capace solo di mascherare l’endemica mancanza di un’efficace politica dell’accoglienza e dell’abitare in grado di fornire delle risposte permanenti.
I soggiorni nei cosiddetti centres d’hébergement d’urgence o nelle camere d’albergo durano infatti qualche settimana o qualche mese al massimo, al punto che il migrante, obbligato a continui spostamenti, non riesce mai a stabilizzarsi ed è quindi costretto a vivere spesso per strada in uno stato di permanente precarietà e negazione dei propri diritti fondamentali.

Queste politiche repressive, di esclusione e di controllo, svuotano il migrante della sua soggettività e lo immobilizzano in un circolo vizioso senza fine.

Uno scenario, questo, che deriva da una precisa volontà politica e che assume dei tratti ancora più inquietanti quando si pensa al fatto che a pagare le conseguenze di questa situazione molto spesso sono donne incinte, bambini e persone affette da patologie.

La maggior parte delle famiglie che incontro quotidianamente rientra nella categoria dei cosiddetti “migranti economici”, quelle cioè che non possono accedere allo statuto di rifugiato e che non possono quindi beneficiare della protezione internazionale che ad esso è legata. Fare richiesta d’asilo è tuttavia una prassi ricorrente tra le famiglie, volta ad ottenere dei documenti provvisori che permettano loro di circolare liberamente sul suolo francese, nell’attesa però che tale richiesta venga inesorabilmente rifiutata.

Queste famiglie arrivano in Francia dopo percorsi lunghi e traumatici, pensando di trovare un paese che li accolga e permetta loro di inserirsi nel tessuto socio-economico, in modo da poter lavorare per creare un futuro migliore per i propri figli. Essi vedono invece ogni giorno contraddetti quei principi di Liberté, Egalité, Fraternité che il discorso politico evoca continuamente, ma che sembrano essere ormai svuotati di ogni reale significato. Vivono infatti, per mesi o addirittura per anni, in situazioni disumane, dormendo nelle automobili, nei parchi, nelle sale d’attesa degli ospedali, nelle scale degli immobili, nelle stazioni ferroviarie o in quelle della metropolitana. Molte donne incinte rischiano di trascorre l’intero periodo della gravidanza sulla strada, e questo può avere delle conseguenze drammatiche sui parti o sulla salute del nascituro. I neonati spesso vivono per strada insieme ai genitori, esposti al freddo e alle intemperie. I bambini vanno a scuola senza avere poi una casa in cui tornare; un luogo in cui riposarsi, pulirsi, mangiare, fare i compiti, giocare, avere insomma una vita il più possibile simile a quella dei loro compagni di classe. E anche quando le famiglie riescono ad ottenere una stanza d’hotel o un centro in cui andare a dormire la situazione, rispetto alla strada, migliora solo di poco: gli alloggi sono infatti spesso insalubri e in generale inadatti a far crescere un bambino. Molte di queste stanze sono infestate da topi, pulci e scarafaggi, non esiste nessun tipo di intimità, il cibo è il più delle volte di pessima qualità e i servizi igienici sono sporchi e in condivisione con altre famiglie.

Molte persone mi dicono che nonostante vengano da contesti poveri mai si erano trovati ad abitare in delle simili condizioni di miseria e spesso per poter affrontare tali situazioni hanno bisogno di un sostegno psicologico o a volte psichiatrico. Inoltre i percorsi traumatici di queste famiglie influiscono anche necessariamente sulle dinamiche familiari: i genitori sono troppo occupati a cercare un luogo sicuro in cui passare la notte per poter far fronte agli altri bisogni fondamentali del bambino, come per esempio giocare, studiare, ecc.

Se penso ai contesti degradanti e disumani in cui questi bambini si trovano costretti a vivere non posso che costatare l’ipocrisia delle istituzioni che solo qualche settimana fa, il 20 Novembre 2020, celebravano il 31esimo anniversario della Convenzione ONU sui Diritti dell’infanzia. Questi bambini insieme alle loro famiglie vengono deliberatamente dimenticati non solo dal discorso politico ma anche da quello mediatico, al fine di nascondere le gravi ripercussioni che tali politiche possono avere sul futuro del bambino. Guardando i bimbi che affollano il mio centro mi chiedo infatti che impatto psicologico il fatto di vivere per strada o in alloggi precari per così tanto tempo avrà sul loro sviluppo psicofisico. Mi chiedo che adulti diventeranno un giorno. Se avranno i mezzi, nonostante lo stato non li fornisca loro, per poter riuscire a costruirsi una vita degna di questo nome.