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Un’assenza ingiustificata non può portare alla revoca dell’accoglienza: violato dalla Prefettura il principio di ragionevolezza

T.A.R. per Lombardia, sentenza n. 2475 dell'11 dicembre 2020

Nel caso di specie la prefettura di Milano aveva revocato l’accoglienza alla ricorrente per un’assenza ingiustificata.
Nella causa davanti al Tar veniva eccepita tra l’atro la violazione e/o falsa applicazione dell’art 23 del D.lgs. n. 142/2015, ritenuto che i presupposti di cui alla lettera a) dell’art. 23, nella specie non si sarebbero verificati in quanto l’assenza di un giorno, peraltro pure contestata dalla ricorrente, non poteva integrare l’abbandono, di cui alla citata previsione.

Il Tar ha accolto il ricorso ritenuto che risulterebbe oltremodo evidente la sproporzione tra la sanzione comminata e la violazione contestata e, con essa, la violazione del principio di ragionevolezza, richiamando, al riguardo, la sentenza Haqbin (C-233/18) pronunciata dalla Corte di Giustizia il 12/11/2019, ove la Grande Sezione della Corte si è espressa per la prima volta sulla portata del diritto conferito dall’articolo 20, paragrafo 4, della direttiva 2013/33 agli Stati membri, di stabilire le sanzioni applicabili quando un richiedente protezione internazionale si sia reso colpevole di una grave violazione delle regole del centro di accoglienza presso cui si trova o di un comportamento gravemente violento.

Il Collegio ha reputato fondato, così come già rappresentato all’esito della fase cautelare, il secondo motivo di gravame, volto a evidenziare l’assenza, in capo alla ricorrente, di una condotta qualificabile in termini di “abbandono” del centro ospitante considerato:

9.1) La normativa applicata, richiamata nel provvedimento, prevede la revoca delle misure di accoglienza in caso di “a) mancata presentazione presso la struttura individuata ovvero abbandono del centro di accoglienza da parte del richiedente, senza preventiva motivata comunicazione alla prefettura – ufficio territoriale del Governo competente” (art. 23, comma 1, lettera ‘a’ del D. Lgs. n. 142/2015). La citata disposizione individua, dunque, quale presupposto per l’adozione del provvedimento di revoca, per quanto qui rileva, la fattispecie dell’‘abbandono’ del centro da parte dello straniero ivi accolto.
Orbene, tale ipotesi non può riscontrarsi nel caso in esame, ove si dà atto che l’esponente non è rientrata per una sola notte nella struttura (circostanza, peraltro, specificamente contestata dall’esponente medesima).
La giurisprudenza espressasi sul punto ha, infatti, chiarito come l’assenza protrattasi per una sola notte, verificatasi occasionalmente e non accompagnata da manifestazioni di rifiuto dell’accoglienza o da comportamenti di altro tipo in tal senso concludenti, non possa essere definita alla stregua di “abbandono”, difettando l’elemento soggettivo della volontà di lasciare definitivamente la struttura e, sotto altro profilo, non scaturendone alcuna criticità per la p.a. nella gestione del posto (cfr., in aggiunta alla giurisprudenza già richiamata nell’ordinanza n. 113/2020, Consiglio di Stato, III, 14 maggio 2019, n. 3122; TAR Lombardia, Milano, IV, 5 marzo 2020, n. 433; TAR Napoli, sez. VI, 24 maggio 2018, n. 3419; TAR Molise, sez. I, 21 giugno 2018, n. 400).

9.3) Va soggiunto, per mera completezza, che, in base alla giurisprudenza comunitaria richiamata da parte ricorrente (Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, sentenza del 12 novembre 2019, causa C-233/2018), «l’art. 20 paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, letto alla luce dell’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretato nel senso che uno Stato membro non può prevedere, tra le sanzioni che possono essere inflitte ad un richiedente in caso di gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza nonché di comportamenti gravemente violenti, una sanzione consistente nel revocare, seppur temporaneamente, le condizioni materiali di accoglienza, ai sensi dell’articolo 2, lettere f) e g), della menzionata direttiva, relative all’alloggio, al vitto o al vestiario, dato che avrebbe l’effetto di privare il richiedente della possibilità di soddisfare le sue esigenze più elementari. L’imposizione di altre sanzioni ai sensi del citato articolo 20, paragrafo 4, deve, in qualsiasi circostanza, rispettare le condizioni di cui al paragrafo 5 di tale articolo, in particolare quelle relative al rispetto del principio di proporzionalità e della dignità umana».
Per costante giurisprudenza, le pronunce della Corte di Giustizia della Comunità europea hanno efficacia diretta nell’ordinamento interno degli stati membri, al pari di regolamenti e direttive, vincolando sia le amministrazioni che i giudici nazionali alla disapplicazione delle norme interne con esse configgenti. L’interpretazione del diritto comunitario fornita dalla Corte di giustizia delle Comunità europee è, quindi, immediatamente applicabile nell’ordinamento interno e il giudice nazionale deve disapplicare le disposizioni di tale ordinamento che risultino in contrasto o incompatibili con essa (sul punto, cfr. C.G.A.R.S. n. 139, del 16.05.2016; Cons. Stato, I, 1832, del 16.11.2020). Se ne ricava che, la regola che disciplina il caso in esame deve rinvenirsi, non solo, nella normativa di cui alla Direttiva n. 33/2012 ed al D. Lgs. n. 142/2015, ma, anche nella sentenza della CGUE del 12 novembre 2019, n. 233, già citata (cfr., TAR Sicilia, Catania, IV, 11.11.2020, n. 2938; TAR Toscana, sez. II, n. 1060 del 22/09/2020, id., n. 1263, del 22/10/2020, TAR Lazio, sez. I-ter, ord. n. 4810, del 16/07/2020; TAR Campania, Salerno, sez. I., ord. n. 485, del 24/09/2020, TAR Lombardia, Milano, III, 18.11.2020, n. 1422; TAR Lombardia, Milano, III, 03.12.2020, n. 2378)
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T.A.R. per Lombardia, sentenza n. 2475 dell’11 dicembre 2020