Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Non chiamiamola emergenza

di Anna Clementi, Associazione Lungo la rotta balcanica

Foto scattata a Idomeni (confine greco-macedone), il 24 dicembre 2015 - quando tutto ebbe inizio

Emergenza, crisi umanitaria, via crucis, migranti abbandonati al gelo, nuovi lager del 2021. Dal 23 dicembre 2020, giorno in cui è andato a fuoco il campo di Lipa in Bosnia, dov’erano ospitate quasi mille persone, la questione migranti nei Paesi dei Balcani è balzata all’onore delle cronache, con servizi e reportage di denuncia da parte dei principali media italiani.

Photo credit: Gabriel Tizon (Isola di Lesvos, Grecia)
Photo credit: Gabriel Tizon (Isola di Lesvos, Grecia)

D’improvviso il mondo sembra essersi accorto dell’esistenza della rotta balcanica, del fatto che in Italia non si arriva più solo via mare in barconi di fortuna ma anche via terra, rimanendo bloccati per mesi se non per anni in alloggi emergenziali, in sovraffollate scatole di plastica, in campi disumani senza nessuna prospettiva per il futuro se non quella di tentare la sorte sotto a un tir, dentro il bagagliaio di un’auto o camminando per giorni tra montagne e boscaglie selvagge, andando incontro a sistematiche violenze da parte delle polizie di frontiera, quella italiana inclusa, e a respingimenti collettivi a catena di Paese in Paese. D’improvviso, a quasi cinque anni dall’accordo Ue – Turchia e al terzo inverno bosniaco, in Italia, di rotta balcanica si è iniziato a parlare.

Sono partite raccolte fondi con foto di migranti infreddoliti sbattuti in prima pagina, di volontari, attivisti e operatori umanitari che si scattano selfie mentre distribuiscono sciarpe, scarpe e cappelli a persone sedute per terra inermi, sempre o troppo spesso dall’alto verso il basso a fotografare una posizione di potere tra la mano che dà e quella che riceve. Immagini di piedi fasciati e sanguinanti per le troppe ore di cammino, di schiene segnate da lividi ed ematomi, a denunciare la brutale violenza delle polizie europee. In queste settimane chi si occupa di migrazioni lungo la rotta balcanica è stato sommerso da chiamate, domande su dove destinare i fondi, richieste di interviste e tanto altro. La tanta solidarietà e umanità che si sta mobilitando in questi mesi ci ha colpito e commosso – pur non condividendo certi personalismi e ingombranti protagonismi che nulla hanno a vedere con la tutela dei diritti umani – ma vorremmo anche chiarire alcuni punti perchè la commozione e l’emozione dell'”ennesima emergenza umanitaria” non distolgano da una visione d’insieme su quanto sta avvenendo lungo questa rotta migratoria. Forse questo articolo è proprio un invito a leggere il fenomeno nel suo insieme, a non volersi chiudere nel proprio angolo di mondo come se quello che sta succedendo ora in Bosnia non fosse connesso agli sviluppi sociali e politici a livello internazionale.

Photo credit: Gabriel Tizon (Bosnia-Erzegovina)
Photo credit: Gabriel Tizon (Bosnia-Erzegovina)

Chiediamolo ai milioni di afghani e di iracheni che dopo decenni di conflitto nel proprio Paese e false promesse di finte democrazie imposte con la forza, continuano a morire come mosche in attentati terroristici a Kabul, a Baghdad, in città che nel nostro dorato Occidente sono solo simboli di guerra e non luoghi di grandi civiltà distrutte col sostegno delle potenze straniere.

Chiediamolo ai siriani, popolo massacrato da un conflitto che non fa più nemmeno notizia, ormai popolo di rifugiati, che elemosina diritti nei più disparati Paesi europei.

Chiediamolo ai pakistani, ai bangladeshi, ai camerunensi, ai congolesi, ai marocchini, a tutti coloro che decidono per costrizione o per scelta di lasciare la propria terra, per fuggire dalle alluvioni e dalla siccità, dallo sfruttamento economico e lavorativo, dalla corruzione politica e morale, dalle lotte fratricide e dagli attentati; o per inseguire un sogno, un’amore, una curiosità, un titolo di studio, un desiderio di vita diversa, diritti che dovrebbero essere di tutti e non solo privilegio della parte più ricca del mondo.

Chiediamolo agli oltre 4 milioni di persone bloccate in Turchia senza diritti che non arrivano a fine mese nemmeno mandando a lavorare i loro figli minori, sfruttati nelle industrie tessili delle multinazionali, nei campi di frutta e verdura, negli scantinati dei grandi magnati turchi.

E chiediamolo soprattutto a chi vive da anni in Grecia, rinchiuso in campi lager in attesa di un documento che tarda ad arrivare. Alle migliaia di bambini a cui viene negato il diritto di frequentare la scuola, di giocare, di vivere l’infanzia. Agli uomini soli e ai padri di famiglia senza più un ruolo che, per dimenticare il presente, si annebbiano la mente con psicofarmaci e alcool nella speranza di vivere almeno mentalmente una vita giusta e dignitosa. A chi, senza più nulla da perdere e senza prospettive per un domani, tenta il tutto per tutto, gettandosi nel traffico di esseri umani, nella prostituzione, nello spaccio di droga e di documenti falsi. Semplici spaccini senza altre risorse che vendono corpo e anima per comprarsi un viaggio verso l’Europa a danno di altri disperati come loro.
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E chiediamolo alle migliaia di pakistani e bangladeshi che vivono nascosti in fabbriche sovraffollate nelle campagne greche del Peloponneso e della Tessaglia a lavorare sottopagati nelle coltivazioni di arance e pomodori, che poi ritroviamo ogni giorno sulle nostre tavole.

E’ facile definire emergenza ciò che sta avvenendo ora in Bosnia, se non si analizzano con attenzione i recenti sviluppi della situazione in Grecia legati alle politiche dell’Unione Europea e del governo Mitsotakis.

Nell’ultimo anno c’è stato un aumento esponenziale del numero di respingimenti in mare da parte della guardia costiera una violenza sistematica ai confini di terra lungo il fiume Evros e un’ulteriore stretta ai diritti dei richiedenti asilo e dei rifugiati, che per scelta o per mancanza di altre vie possibili, si sono ritrovati in Grecia.

Il governo ha di fatto escluso i migranti dall’accesso alle cure sanitarie gratuite, mentre il diritto all’istruzione, garantito solo sulla carta, ha di fatto migliaia di bambini dal sistema educativo lasciando a casa adolescenti che non sanno ancora leggere e tenere una penna in mano. Ed è di qualche giorno fa la notizia che il Bangladesh e il Pakistan sono state inserite nella lista dei Paesi sicuri assieme, tra gli altri, a Ghana, Gambia, Marocco, Algeria e Tunisia: in poche parole le deportazioni dalla Grecia verso questi Paesi sono ora legali.

Fino a marzo dell’anno scorso chi non aveva problemi di soldi o chi si condannava a pagare un debito a vita, una via d’uscita dalla Grecia ce l’aveva, con una giacca elegante, uno zaino da turista, un documento falso e un pizzico di fortuna al porto o in aeroporto. Erano centinaia le persone che ogni giorno provavano a imbarcarsi in un volo o in una nave verso un altro Paese dell’Unione Europea. Ogni giorno qualcuna passava, le altre riprovavano fino allo sfinimento.

Il Covid ha però chiuso le tante vie d’uscita che la Grecia aveva, convogliando i più verso la già battuta via terrestre, per molti ultima spiaggia nel viaggio verso l’Europa. Anche chi in Grecia aveva tentato fino all’ultimo di rimanere, sfruttato nei campi e nelle imprese edili, con la pandemia e le nuove restrizioni in termini di diritti, ha deciso di andarsene e di tentare fortuna altrove.
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E così la rotta balcanica è rimasta l’unica via di transito, attraverso Albania, Montenegro o Kosovo e Serbia, per tentare “il game” con la polizia croata. Da anni si sa cosa avviene in quei boschi di confine, sono gli stessi cellulari frantumati, i vestiti abbandonati e i documenti strappati a denunciare la violenza e i soprusi ai confini d’Europa.

I riflettori di queste settimane sono senz’altro fondamentali per sensibilizzare e denunciare quanto sta avvenendo a poche centinaia di chilometri da casa nostra. La solidarietà di questo periodo, in qualunque modo essa arrivi, è una risorsa preziosa per chi si trova bloccato al gelo senza scarpe né coperte in un campo inesistente in mezzo ai monti.

Ma impariamo a usare le parole giuste, non chiamiamola emergenza. E’ da cinque anni che l’Unione Europea ha firmato un accordo con la Turchia, da tre che chi passa per la Bosnia viene abbandonato in terribili jungle o in campi istituzionali forse ancora più disumani.

Quanto vediamo oggi è il risultato di deliberate politiche europee studiate a tavolino che nei luoghi di confine, in Bosnia come negli hotspot greci, si manifestano in tutta la loro crudeltà e brutalità sommandosi a complicati contesti locali.

Non limitiamoci a curare le ferite senza capire chi le provoca, non dimentichiamo la Bosnia non appena i media cavalcheranno una nuova emergenza umanitaria, non costruiamo né legittimiamo l’esistenza di nuovi campi lager, ma impegniamoci ogni giorno per costruire un’Europa diversa, senza mai privare le persone della loro dignità.