Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Report del viaggio in Bosnia dal 29 gennaio al 3 febbraio 2021

Lorena Fornasir, Gian Andrea Franchi e Francesco Cibati - Linea d’Ombra O.D.V.

Il Dom Penzionera a Bihać (Photo credit: Francesco Cibati)

Ritorniamo in Bosnia dopo quasi un anno: l’ultimo nostro viaggio, infatti, è stato dal 19 al 23 febbraio del 2020. Poi, è iniziato il governo del virus, che ha dettato le nostre possibilità di movimento.

Dopo una lunga interruzione, dopo tante letture di rapporti e comunicati, dopo tante discussioni nella astrazione coatta della rete e pochi incontri diretti, ma anche dopo un anno di costante presenza nella piazza del mondo di Trieste, riportiamo i nostri corpi in Bosnia (29 gennaio – 3 febbraio 2021).

Insisto su questo punto. Per noi la Bosnia è un’esperienza. Esperienza significa stare dentro la situazione, in questo non solo su un confine statuale, ma anche sul confine personale, che è, insieme, storico e politico, sul limite, della nostra capacità di esperienza.

Noi non siamo migranti, non siamo profughi. La sera torniamo al caldo, facciamo la doccia. Avete presenti le foto dei migranti che si lavano in mezzo alla neve a Lipa?
Non siamo uguali a loro. L’uguaglianza è un lunghissimo cammino politico di lotta e progettualità… usiamo la nostra differenza per aiutare i migranti a realizzare il loro desiderio.

Che cosa ci colpisce di più qui, fra lacere tende pesanti di neve, edifici fatiscenti e la vita quotidiana delle cittadine bosniache, fra migranti, ‘volontari’, gente del luogo?
Non vogliamo parlare ‘su’ qualcosa, ma parlare ‘dentro’ una situazione che ci coinvolge, che ci tormenta. Comunicare un’esperienza, appunto.

La televisione di Stato turca – il paese a regime dittatoriale pagato per essere il deposito centrale dei migranti (4 milioni) – si aggira amichevolmente negli oscuri fatiscenti meandri del Dom Penzionaera di Bihać per intervistare migranti.

Intervista anche Zemira di Solidarnost, che qualche mese fa ha dovuto interrompere la sua opera di volontariato perché troppo rischiosa, mentre ora è tornata attivamente in campo, “fino a quando sarà possibile”, ci dice, prevedendo che questo ambiguo relativo equilibrio non durerà molto.

È interessante questo fatto: la tv dello Stato che è all’inizio della Rotta, che ne è il serbatoio, lautamente pagato e anche uno dei principali attori della tragi-politica mediorientale, viene a riprendere e intervistare i migranti accampati di fronte all’euro-castello croato!

I migranti che, nei nostri ultimi viaggi, non potevano entrare in centro né nei negozi, oggi sono tollerati, anche se il campo Bira non è stato riaperto perché il comune di Bihać e parte della popolazione sono contrari.


Sembra che l’incendio del campo di Lipa, in un luogo isolato a una ventina di chilometri da Bihać, abbia portato improvvisamente alla luce mediatica ciò che era evidente da molto tempo a chi andava in loco.

Si sente nell’aria una sorta di armistizio, di tempo sospeso, fra i diversi elementi che agiscono o subiscono questa situazione. Anche se non mancano le azioni violente, come mostra l’impressionante ripresa al cellulare di un pestaggio nei dintorni di Bihać, apparsa in Facebook, una settimana dopo il nostro rientro.

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Il Dom Penzionera a Bihać

Rispetto all’ultimo nostro viaggio e a tutti i viaggi del 2019, annusiamo e vediamo, dunque, una minore intolleranza nei confronti dei migranti da parte dei cittadini e delle istituzioni locali; una strana situazione di precario equilibrio d’attesa: i migranti sono in giro per le città, vanno e vengono dai loro provvisori, fragili ricoveri.

Nel centro di Bihać giganteggia sul fiume la grande massa corrosa del Dom, un anno fa chiusa e vietata, ora piena di gente che va e viene.
A Kladuša gli accampamenti sono nei dintorni della città, noti a tutti.

Ci guardiamo intorno nelle strade di Bihać e di Kladuša: alla gente di Bosnia – a sua volta migrante, profuga – non si può chiedere di diventare una discarica umana, come in effetti, al di la là delle parole, è avvenuto per opera dell’UE e delle istituzioni internazionali.

In queste cittadine di confine, vediamo molte villette nuove, spesso non ancora finite, probabilmente frutto di lavoro migrante e molte case e, soprattutto, edifici industriali abbandonati, in cui si rifugiano i migranti: povertà che da troppo tempo devono coesistere.

Ci ha colpito moltissimo uno sguardo improvviso gettato sul fondo sociale: un bosniaco di mezza età che vendeva per la strada calze di lana fatte a mano … La vera povertà si vede poco in giro, anche in questa povera Bosnia. Ci hanno detto che il virus non è esploso in grandi numeri, anche perché chi non può pagarsi la salute crepa in silenzio. E dire che la sanità funzionava in Jugoslavia ai tempi di Tito: l’abbiamo pensato guardando una sua immagine rimasta impressa su un muro di quella che era una grande fabbrica, ora precario ricovero di profughi.

La distruzione della Jugoslavia socialista, con tutti i limiti di questa esperienza, ha rappresentato comunque un passaggio verso forme di governance basate sulla distruzione di ogni tipo di equilibrio sociale, in qualche modo non coerente con le attuali dinamiche di potere, che Achille Mbembe definisce con precisione come ‘necropolitiche’.
I Balcani, dalla Grecia alla Bosnia: cantina per migranti dell’Unione Europea.

Mentre eravamo in Bosnia è anche scoppiata la tragicomica vicenda dei quattro eurodeputati (Benifei, Moretti, Majorino e Bartolo).

Erano arrivati sul confine tra Bosnia e Croazia per osservare le operazioni anti-immigrazione della polizia croata. Ma per la prima volta nella storia dell’Unione Europea quattro europarlamentari sono stati respinti senza troppi complimenti dalla polizia. Sono stati momenti di alta tensione quelli nella foresta di Bojna, in territorio croato, dove il vicepresidente della Commissione diritti civili dell’UE, Pietro Bartolo, è stato inseguito con altri tre colleghi del gruppo dei Socialisti democratici per impedire che potessero raggiungere il posto di controllo, dove abitualmente migranti e richiedenti asilo vengono ricacciati indietro” (N. Scavo, Avvenire, 30-01-’21).

Riteniamo che questa vicenda non avrà serie conseguenze sui rapporti fra UE e la complessa situazione della Bosnia. Lorena, comunque, ha incontrato i parlamentari e l’ambasciatore italiano in Bosnia Erzegovina, ai quali ha chiesto l’apertura di un corridoio umanitario per il grave caso di Amir Labbaf (firma la petizione).

Procediamo ora, dopo queste osservazioni di carattere più generale, a toccare gli incontri e i passaggi che ci sembrano più significativi dei nostri movimenti fra Bihać e e Kladuša.

La sera del 29, dopo un viaggio tranquillo, incontriamo a Bihać Roberto Maculan di Mission Land, l’efficiente organizzazione, sperimentata in Africa, che interviene in paesi e situazioni di grave disagio sociale, fornendo mezzi di grandi dimensioni, fuoristrada e attrezzature importanti, anche sanitarie, per interventi in situazioni di grave disagio sociale. La sua organizzazione sta pensando a una clinica mobile che però esige l’apporto da parte del Comune di Bihać di acqua ed elettricità. Roberto è sconcertato e addolorato dalla situazione bosniaca, pur avendo una notevole esperienza di situazioni drammatiche in diverse parti del mondo. Nel suo piccolo la Bosnia è davvero tristemente esemplare della condizione attuale del mondo.

Missionland si appoggia all’associazione dei Gesuiti JRS (JESUIT REFUGEE SERVICE), cui si appoggia anche No Name Kitchen, nel suo nuovo intervento a Bihać. JRS, che dispone di 16 mediatori culturali, interviene nelle centinaia di squat disperse nel Cantone Una Sana, prevalentemente intorno ai centri di Bihać e Velika Kladuša, fornendo cibo e vestiario. JRS dispone di un grande magazzino di 400 mq. Hanno anche loro problemi organizzativi: ad esempio hanno da poco sostituito il loro dirigente locale un bosniaco, già sindaco di Bihać e primo ministro del Cantone, personaggio discutibile anche per via di trascorsi legali, con il dirigente di JRS sud-est Europa, padre Stanko Perica, croato.

Con alcuni volontari, parliamo del campo di Lipa, diventato la finestra mediatica sulla Bosnia – finché dura.

Lipa rappresenta il progetto europeo attuale sulla situazione di migranti in Bosnia, malgrado sia gestito non dall’IOM, ma dall’Office for foreigner’s affairs, agenzia amministrativa indipendente che si occupa degli stranieri in Bosnia in collaborazione con il Ministero della Sicurezza, responsabile dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri in Bosnia.

Lipa dovrà diventare un grande campo da 5.000 posti per famiglie, minori ma anche singole persone. I lavori di sterramento sono già cominciati. I lavori complessivi sono previsti – pare – per la durata di sei mesi.

È chiaro il progetto di raccogliere tutti i migranti del cantone Una Sana in luogo isolato. Sembra proprio questo il risultato delle tensioni fra UE, governo centrale bosniaco, governo cantonale e anche i Comuni di Bihać e Kladuša. Non si intravvede nient’altro.

Nel frattempo, i migranti sopravvivono in due grandi strutture fatiscenti: il cosiddetto Dom Penzionera, sul fiume e i grandi capannoni in rovina di Krajina Metal, vicino all’ex campo di Bira, a parte il Borici per le famiglie. Sopravvivono vitalmente: viene spontaneo quest’ossimoro. È il loro grande insegnamento, come abbiamo constatato innumerevoli volte. Questa vitalità si manifesta tutte le volte che percepiscono una sincera solidarietà.

Appaiono invece miserabili a chi li teme o li odia. Le nostre visite al Dom, con Zemira, al Krajina Metal e allo squat affondato nella neve a pochi chilometri da Bihać e poi al campo dei bengalesi vicino a Kladuša, ne sono l’ennesima conferma.

Nella nostra visita del febbraio 2020, nel Dom c’erano pochissimi migranti nascosti, ora sono in circa 200, cosicché il grande scheletrico edificio sembra un affollato condominio del terzo mondo, brulicante di una difficile vitalità. Solidarnost di Zemira lo rifornisce quotidianamente di viveri e quant’altro.

Incontriamo con piacere, fra gli oscuri meandri di cemento corroso, Elena Kushnir, una mite ma decisa donna ucraina. Dopo incredibili ma caratteristiche vicende di migrazione, che l’hanno portata dal suo paese in Olanda per vent’anni di vita clandestina, capita, dopo ulteriori vicende, a Bihać. Ospite notturna di una famiglia, in cui non può stare durante il giorno per ragioni di controllo poliziesco, trascorre il suo tempo al Dom, di cui è diventata l’affettiva solerte ‘direttrice’.
Una storia di vita, a suo modo esemplare, di chi è riuscito a darsi un senso in un mare di avversità.

Nel Dom incontriamo anche un sedicenne che ci dice di essere stato respinto dopo essere arrivato fino a Trieste – in città: ribadisce.

Questo dei respingimenti è uno dei temi, ci dicono, che spiegano il blocco degli arrivi a Trieste, dove noi da un mese li aspettiamo invano: respingimenti italiani, di cui i ragazzi ci chiedono – noi li informiamo anche del fatto che sono stati giudicati illegali, ma soprattutto respingimento croati. Parlando con i ragazzi, l’impegno della polizia croata nei respingimenti sembra essere notevolmente aumentato. Non si contano più! Ci dicono: diversi respingimenti di gruppo al giorno, qualche mese fa, erano molti di meno. Infine, l’inverno, la neve e una certa stanchezza spingono a rimandare a primavera un viaggio sempre più rischioso. Ciò nonostante, abbiamo parlato con alcuni ragazzi che sarebbero partiti all’alba del giorno dopo.

L’altro grande squat è l’ex-fabbrica Krajina Metal: un’imponente rovina, che racconta la dissoluzione catastrofica della Jugoslavia. Anche qui sopravvivono circa 200 migranti, pakistani e afgani in luoghi diversi. Quando, sotto una nevicata, arriva il camion con il ‘nostro’ carico di legna, c’è un momento di tensione, poi risolto discutendo animatamente.

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Distribuzione di legna al Krajina Metal

Il giorno prima, ancora senza neve, la nostra offerta di qualche pallone aveva suscitato un’allegra partita di calcio: lo diciamo perché vogliamo ancora e sempre ribadire come basta poco, fra queste persone, per suscitare slanci di autentica vitalità – è questa una constatazione che vuol essere ‘politica’, di una politica che attiene alla dimensione profonda della vita, che qui fra questi ‘corpi di dolore’ – tutti portano le tracce dei colpi feroci dei poliziotti croati – si coglie pienamente. Non siamo qui per fare i buoni, siamo qui per riconoscere e aiutare a far valere diritti che nessuno Stato può riconoscere.

Uno dei luoghi abitati dagli afgani sembra un piccolo quartiere, con una serie di stanze in fila in un basso edificio appartato. In una delle stanze, alcuni ragazzi fanno veri e propri lavori di muratura, abbattendo e ricostruendo muri. Uno di loro dice: lavoro per tenere a freno la testa.

Nel pomeriggio del 31 gennaio, andiamo con Zemira in un piccolo accampamento nella neve, nei dintorni di Bihać: due tende nella neve piene di fumo e di vita, come si coglie negli occhi di Zemira mentre parla animatamente, seduta su un incerto sedile, di fronte a un fuoco dove bolle la pentola per il te al latte. Sono dodici ragazzi pakistani che animano questo denso paesaggio invernale – e una cucciolata di neri cagnetti che spiccano nel biancore. Uno dei ragazzi ci mostra i segni di una ferita da taglio al collo, traccia di una storia collettiva che ci riguarda – il ‘nostro’ paese ha ancora uomini armati in Afghanistan.

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L’accampamento

Poco prima di partire alla volta del Sedra e di Velika Kladuša, abbiamo avuto un incontro con Marine e Dado, giovane coppia franco-bosniaca, che da poco ha fondato a Bihać un’associazione giovanile dal nome “U Pokretu” (traducibile come “in movimento”).

La neonata associazione è in contatto con il Comune di Bihać, che ha concesso una sede nel centro culturale, in disuso da anni, posto a fianco del Dom Penzionera. U Pokretu si impegna a riqualificare l’immobile, dove cercheranno di avviare in primo luogo attività culturali con i giovani residenti, e in un secondo momento, raggiunte stabilità e indipendenza, si potranno attuare dinamiche sociali che includano anche i migranti. Troviamo questa iniziativa molto interessante. Quello che manca nella società bosniaca, per quel che ne sappiamo – qui parliamo di queste piccole città, come Bihać e Kladuša – è la capacità di creare dal basso iniziative di intervento sociale, soprattutto fra i giovani.

Tralasciamo altri momenti pur importanti, come gli acquisti insieme ad Anela che ci ospita – la spesa qui è una forma importante di relazione fra noi, gli attivisti bosniaci e un pezzettino di società locale – l’incontro nella linda casa di Zemira, anche con la figliuola che l’aiuta, altri incontri, momenti sul fiume, la cena con gli amici veneti… e andiamo a Kladuša con una sosta importantissima al Sedra.

Davanti all’hotel Sedra, infatti, incontriamo Amir Labbaf, sulla sua sedia a rotelle.
Amir Labbaf, iraniano, difensore di una minoranza religiosa, ha dovuto lasciare il suo Paese per evitare la morte. Ha chiesto asilo in vari Stati, fra cui la Croazia: inutilmente. Ha invece, subito la violazione sistematica di qualsiasi diritto ed ora è costretto su una sedia a rotelle nel campo Sedra di Ostrozac.

Nel tardo pomeriggio del 29 giugno 2019, la polizia croata l’aveva prelevato dal letto d’ospedale di Rjeka dove era giunto in gravi condizioni. Infatti, il giorno prima, 28 giugno, Amir stava percorrendo a piedi una strada della Croazia alla volta dell’Europa. Per evitare una macchina folle che lo avrebbe altrimenti investito, si era dovuto gettare di lato cadendo in una valle e riportando una lesione vertebrale.
Pur paralizzato, la polizia croata lo aveva dunque prelevato dall’ospedale, trattenuto senza cibo ed acqua, privato dello spray respiratorio, picchiato, lasciato con le sole mutande e, nel tardo pomeriggio, lo aveva trasportato sul confine con la Bosnia gettandolo come immondizia tra le sterpaglie. Amir, con il corpo semiparalizzato, aveva dovuto strisciare per ore e ore fino a giungere, solo il giorno dopo, 30 giugno, sulla lingua d’asfalto di una strada laterale dove una mano soccorritrice l’ha tratto in salvo.

Passiamo alcune ore con lui, accogliendo e anche registrando la sua storia.
Come spesso avviene in situazioni sociali deteriorate, i casi più gravi, non sono eccezioni ma manifestazioni della norma: una norma di violenza inaudita, a pochi chilometri dall’Italia, che continua ad agire imperterrita – anzi, come ci dicono i migranti, si è aggravata! -, in un paese dell’Unione europea, come la Croazia, di cui l’Unione porta, con gli Stati che la compongono, la piena responsabilità.

Su questo caso Lorena ha lanciato una petizione.

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Lorena con Amir Labbaf

Anche a Kladuša è evidente questa sorta di armistizio fra migranti, istituzioni e popolazione, con un maggiore e più frequente controllo della polizia. Gli squat, in cui vivono (ci dicono) circa trecento persone, devono avere il permesso dei proprietari del terreno (mentre nel vicino campo Miral ci sono circa 800 persone con cartellino e altre duecento senza). Ciò non toglie la presenza anche qui di gruppi organizzati violenti, di cui si avverte talvolta la presenza.

Oltre alle solite spese, fondamentali per mantenere un buon rapporto con alcuni negozi e quindi con un pezzo di società locale – ricordo le chiacchiere cordiali in un negozio di cellulari frequentato da migranti -, nella cittadina schiacciata sul confine abbiamo avuto incontri significativi.

Così nell’ex macello vicino al campo sportivo, un tempo luogo importante d’intervento di NNK che vi aveva impiantato delle docce calde, oggi vivono circa una ventina di pakistani e afgani in condizioni molto difficili, assistiti sempre da NNK e anche meno di frequente da DRC.

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L’ex macello

Ricordiamo con piacere l’incontro con i bengalesi accampati un poco fuori dalla cittadina per la vivacità e simpatia di questi ragazzi, sempre pronti ad accogliere con un sorriso.

Qui è impegnato anche un gruppo tedesco, costituitosi di recente – Blindspots -, nato lo scorso anno tra Berlino e Lipsia, che al momento conta 12 persone in territorio bosniaco e circa il doppio in Germania, che fa precisi interventi sul campo, come la produzione di semplici ma efficaci stufe fatte con materiale di recupero, montaggio di docce, distribuzione di legna e cibo, pulizia e igiene nei luoghi occupati, cui si collega un interessante impegno di sensibilizzazione ecologica, notevole in situazioni di facile degrado ambientale. Oltre a questo, svolgono anche un lavoro importante di reportistica. Essendo in dodici ogni giorno sul campo, sono spesso i primi ad intercettare i pushback. Quando li abbiamo incontrati, stavano collaborando con un’altra giovane realtà tedesca dal nome “Borderless Collective“.

A Kladuša abbiamo anche incontrato volontari di No Name Kitchen. E altri profughi, come un giovanissimo palestinese di Gaza, respinto dalla Croazia, dall’aria smarrita, che cercava un posto in cui dormire, alla fine accolto in un hotel (a pagamento). E poi un gruppo dignitosissimo di uomini curdi, non più giovanissimi, respinti da Zagabria, fra cui quello che sembrava il più anziano aveva ancora in faccia il segno dei pugni dei poliziotti croati. Quanti curdi abbiamo incontrato in Bosnia, anche intere famiglie e a Trieste, gente sempre piena di dignità e di giusta collera!

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Al campo dei bengalesi

Abbiamo anche fatto un passaggio nel grande fabbricato fatiscente, non lontano dal Miral – un intero paesaggio bosniaco, quello dei grandi capannoni abbandonati da decenni -, in cui eravamo stati quasi un anno fa, a distribuire cibo e altro ad oltre un centinaio di migranti. Sapevamo che era stato sgomberato a forza dalla polizia di Kladuša. Quel mattino, sembrava abbandonato e deserto nella sua fatiscente imponenza. Invece, dietro cumuli di terra e materiale vario, abbiamo incontrato due algerini che svernavano lì, in tenda, almeno a riparo da pioggia e neve. Avanzando a fatica con due stampelle, se n’è poi aggiunto un terzo: le sue gambe erano gonfie – ‘colpi di manganello croato’, ci ha detto – ‘aspetto che mi passi il dolore per riprendere il game’.

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Con gli algerini nel capannone abbandonato

La nostra visita a Kladuša si conclude nell’incontro con due famiglie.
Una famiglia irachena, che avevamo già conosciuto nel viaggio precedente, ospiti in una casa di un bosniaco che lavora all’estero. Brutalmente divisa dalle vicende del game: la madre e un figlio riusciti a riparare in Germania, il padre e quattro figli respinti. Vogliamo ricordare l’autentica coinvolgente allegria dei giochi di questi bimbi.

Infine, una famiglia azara sciita. Doppia persecuzione in patria e fuori. Stanno in una casa dalle finestre velate: padre, madre, fratello di lei, due bimbi, tre respingimenti. Una storia pesante: rinchiusi in un garage croato, minacciati, anche con i cani, i bimbi traumatizzati.

In questi viaggi, domina la presenza di corpi, di volti, di sguardi, di strette di mano, anche di abbracci, dentro storie simili perché sospinte dallo stesso vento, e diverse perché il dolore, che ha origini collettive, storiche e politiche, si declina anche e soprattutto al singolare. Qui è vivo il rapporto fra l’intimo e lo storico in una sintesi dolorosa e ricca.
Noi andiamo qua e là a vedere, aiutare, sorridere, anche piangere, salutare… see you in Trst…
Questo saluto rimanda all’aspetto più politico del nostro impegno, quello di costituire una rete – ‘una ferrovia sotterranea’, l’ha chiamata un’amica – per aiutare i migranti ad arrivare al confine francese.

Il nostro contributo
Il nostro contributo, come volontari indipendenti, si basa sulla raccolta fondi attraverso una rete pubblica di donatori.
Parallelamente al nostro viaggio in Bosnia, in questi mesi abbiamo sostenuto le volontarie con cui collaboriamo (fra cui IPSIA e No Name Kitchen) in base a dei protocolli controfirmati da entrambe le parti, con una somma complessiva di quasi 30mila euro che è stata impegnata nell’acquisto di cibo e generi di prima necessità.
Grazie alle donazioni ricevute, in questo viaggio di gennaio/febbraio 2021 abbiamo potuto supportare i migranti dispersi negli squat e nelle tende di plastica con una somma di 8.786,60 euro. A questa si è aggiunto un ulteriore contributo di 3.200 euro, frutto di consegne private di cui ci siamo fatti latori, destinate esclusivamente a singoli gruppi e persone. Dopo il grande clamore suscitato dall’incendio del campo di Lipa, ed essendo il contesto nel Cantone Una Sana in continua mutazione, per noi è stato molto importante saperci orientare riguardo ai Soggetti cui destinare le donazioni. In Bosnia l’aiuto è sanzionato – nonostante in questa fase mediatica ci sia maggiore libertà – per cui è essenziale orientare gli aiuti in modo che non vadano dispersi o non diventino oggetto di scambio al mercato nero.
A Bihać come a Kladuša, assieme alle volontarie con cui collaboriamo, abbiamo comperato camion di legna che sono stati scaricati nei luoghi noti in prossimità degli squats e delle tendopoli. Assieme alle quantità di cibo, il valore complessivo impegnato è stato di 4.196,60 euro.
Abbiamo inoltre comperato e consegnato vari cellulari ai rifugiati respinti dal game per un valore di 2.590 euro. I telefoni sono dei salvavita poiché permettono ai migranti di orientarsi nei boschi e di rintracciare i sentieri, pena anche la morte in un periodo di gelo e di grandi nevicate. Questo è il motivo per cui la polizia croata li sottrae appropriandosene indebitamente o li fracassa se sono di scarso valore. La scelta di comperare i telefoni nei negozi locali risponde all’esigenza di sedimentare relazioni con i commercianti che sono a favore dei migranti e che applicano dei prezzi di favore.

Materiale sanitario
Abbiamo distribuito ai migranti materiale sanitario di prima necessità: betadine, bende autoadesive, cerotti, voltaren, sciroppi, disinfettanti, consegnando invece alle volontarie parte di altri presidi sanitari per gli interventi di “emergenza”
Tutte le spese sono rendicontate nella relazione e a disposizione dei donatori assieme alle relative ricevute.
N.B. Tutte le spese relative ai nostri viaggi, comprensive di vitto, alloggio, carburante, sono sempre state a nostro carico.

Lorena Fornasir, Gian Andrea Franchi, Francesco CibatiLinea d’Ombra O.D.V.
Tutte le fotografie © Francesco Cibati

Linea d'Ombra ODV

Organizzazione di volontariato nata a Trieste nel 2019 per sostenere le popolazioni migranti lungo la rotta balcanica. Rivendica la dimensione politica del proprio agire, portando prima accoglienza, cure mediche, alimenti e indumenti a chi transita per Trieste e a chi è bloccato in Bosnia, denunciando le nefandezze delle politiche migratorie europee. "Vogliamo creare reti di relazioni concrete, un flusso di relazioni e corpi che attraversino i confini, secondo criteri politici di solidarietà concreta".