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Trattenimento illegittimo nei centri hotspot: l’Italia non si è ancora adeguata a quanto stabilito dalla CEDU nella sentenza Khlaifia

Segnalate al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa le prassi lesive dei diritti

Photo credit: Progetto Inlimine

Nell’ambito della procedura di supervisione sull’attuazione da parte dell’Italia della sentenza Khlaifia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ASGI, A Buon Diritto Onlus e CILD hanno inviato il 26 gennaio 2021 due comunicazioni al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa per segnalare alcune prassi lesive dei diritti che continuano ad essere poste in essere all’interno degli hotspot italiani.

Tali comunicazioni sono state inviate in occasione della revisione che il Comitato farà a marzo per verificare se l’Italia ha rispettato quanto richiesto dalla Corte europea dei diritti umani (CEDU), che nel dicembre 2016 aveva condannato il nostro paese per la detenzione arbitraria di cittadini stranieri nel Centro di soccorso e prima accoglienza (Cspa) di Contrada Imbriacola a Lampedusa e a bordo delle navi Vincent e Audacia e per l’assenza di mezzi di ricorso effettivo contro tale trattenimento e le sue condizioni.

Nonostante la sentenza sia del 2016, ancora oggi in Italia continuano ad esservi luoghi di privazione arbitraria della libertà personale dei cittadini stranieri in arrivo sul territorio italiano, come avviene negli hotspot.

Tale detenzione avviene ancora senza una chiara base legale, senza un atto scritto adottato dall’autorità competente e convalidato da un giudice, in assenza di un termine massimo di detenzione e senza fornire adeguata informativa sui motivi della detenzione, in aperta e grave violazione dell’art. 13 della Costituzione e delle garanzie previste dall’art. 5 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo.

La detenzione informale viene applicata in maniera sistematica durante le procedure di identificazione al fine di classificare i cittadini stranieri in richiedenti protezione internazionale e non richiedenti protezione internazionale. In alcune circostanze, e sistematicamente nell’hotspot di Lampedusa, la detenzione informale è applicata anche nelle fasi successive prima del trasferimento in altri luoghi destinati all’accoglienza o alla detenzione amministrativa.

Le modifiche legislative introdotte dalla legge 132/2018 e confermate dal D.L. 130/2020 circa la possibilità di trattenere i richiedenti asilo in appositi locali negli hotspot per un periodo massimo di 30 giorni, al fine di verificarne o determinarne l’identità, e la possibilità di trattenere i cittadini stranieri destinatari di provvedimenti di allontanamento in locali idonei in frontiera non hanno risolto il problema dell’assenza di base legale per la privazione della libertà all’interno di tali centri e continuano a sollevare numerose criticità circa la compatibilità con il dettato costituzionale e con la normativa comunitaria.

Ulteriori preoccupazioni riguardano le condizioni di trattenimento, che continuano ad essere fortemente inadeguate e a non garantire il rispetto dei diritti e la dignità dei cittadini stranieri in arrivo, con particolare riferimento al centro hotspot di Lampedusa caratterizzato anche durante l’emergenza sanitaria da situazioni di forte sovraffollamento. La prassi della detenzione ostacola inoltre l’accesso ad altri diritti fondamentali quali il diritto all’informazione e alla difesa.

Inoltre, l’ordinamento italiano continua a non prevedere la possibilità di un ricorso effettivo all’autorità giudiziaria al fine di contestare le condizioni di detenzione e l’eventuale mancato rispetto dei diritti previsti in materia di privazione della libertà personale. La stessa procedura di reclamo al Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale introdotta dal D.L. 130/2020, non è prevista per le persone detenute in hotspot. Come osservato di recente dallo stesso Garante nel dibattito parlamentare relativo alla conversione in legge del D.L. 130/2020 “il mancato riconoscimento della possibilità di reclamo negli hotspot” non soddisfa quanto richiesto dalla Corte Edu e dal Comitato dei Ministri nel caso Khlaifia creando una disparità di trattamento tra chi è trattenuto in Cpr e “avrà accesso a tutta una serie di garanzie e potrà esercitare tutta una serie di diritti e facoltà previsti dal cosiddetto Regolamento unico Cie, godrà dell’attività di vigilanza delle figure autorizzate a entrare nei Centri ai sensi dell’articolo 67 dell’ordinamento penitenziario, avrà la possibilità di presentare istanze e reclami agli organismi di garanzia, e chi è trattenuto in hotspot o in un ‘locale idoneo’/’struttura idonea’ non potrà accedere a nessuna delle sopra indicate prerogative”.