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Quotidiane odissee lungo la rotta balcanica

di Diego Saccora

Photo credit: Diego Saccora, Lungo la rotta balcanica

Luglio 2020, in un mattino di caldo torrido e senza alcuna zona d’ombra sotto la quale ripararsi, Sahira si trova in mezzo alla strada. E’ poco più che maggiorenne e ha legata stretta a sé la figlia nata pochi mesi prima. Il marito di 25 anni le bagna la fronte con la poca acqua rimasta nella bottiglietta da mezzo litro. Con loro un’altra famiglia con due figli minorenni e uno di 19 anni, Hamed.

Si trovano ad un incrocio dove si sono seduti per riposare dopo qualche chilometro a piedi e una notte insonne. Non hanno soldi né un telefono. Qualche ora prima la polizia macedone in compagnia di altri agenti con una bandiera tedesca sull’uniforme li aveva intercettati, poco distante da Skopje mentre camminavano in parallelo alla superstrada che collega da nord a sud il Paese, da lì riportati indietro al confine, nei pressi del vecchio campo di Idomeni, e poi fatti proseguire in territorio ellenico.
Solo dopo qualche ora, due turisti di passaggio li aiutano con della frutta, dell’acqua e chiamano loro un taxi verso Salonicco. Un pick-up della polizia greca si ferma ma non li carica né li ferma, quasi fosse una consuetudine vedere quella scena senza intervenire in alcun modo.

La famiglia di Hamed in un paio di giorni rientra ad Atene dove viveva da 4 mesi in un appartamento del progetto Filoxenia dopo averne passati altrettanti al campo di Ritsona e dodici a Lesbo; qui era avvenuto il primo incontro con Sahira quando ancora non sapeva di essere incinta.

Photo credit: Diego Saccora, Lungo la rotta balcanica
Photo credit: Diego Saccora, Lungo la rotta balcanica

Sahira l’isola non l’aveva lasciata come altre donne in gravidanza una volta ottenuto lo status di vulnerabile. No, lei aveva usato un documento con timbro contraffatto per la terraferma dove si doveva ricongiungere al marito arrivato nel frattempo dalla Turchia attraverso la via per il fiume Evros.

Per pagare quel foglio e i diversi tentativi di oltrepassare la Macedonia del Nord per giungere almeno in Serbia, avevano finito tutti i soldi, in più non avevano accoglienza né un posto in alcun campo. Se non a Moria. Ed è lì che lei fa poi ritorno. Nessuno all’imbarco le fa domande, chi mai tornerebbe spontaneamente indietro? Qualcuno che non ha altre scelte, qualcuno che sente il bisogno della vicinanza di una figura materna che la aiuti ad essere madre.

La sua famiglia infatti viveva ancora lì, i genitori, tre sorelle e due fratelli, solo uno maggiorenne. Due tende per tutti loro, una più piccola per lei e la bambina: gli interni erano foderati di teli arancioni e viola con appese a dei bancali in legno delle mensole sopra alle quali c’erano dei peluche. Un ambiente visivamente confortevole in cui far crescere Maysoon, un minuscolo angolo di cura dove se tenevi gli occhi chiusi per qualche secondo e li riaprivi quasi potevi fingere di non essere in uno dei luoghi più atroci di tutta Europa.

Dopo mesi di movimento, solidarietà da parte di chi vive le stesse condizioni e tanta tensione, il giorno di ferragosto fa rientro. La madre non è d’accordo perché troppe voci parlano delle nuove recinzioni e la situazione lì sarebbe sicuramente peggiorata, non era posto dove riportare una bambina. Ma Sahira non ascolta ragioni.

Qualche settimana dopo un gigantesco incendio si porta via tutto, anche gli animali di pezza e quel poco di effimera sicurezza. Loro, insieme a più di dieci mila persone, finiscono per la strada a dormire sotto la tettoia del supermercato Lidl, vicino al campo di Kara Tepe, prima di essere portati nella nuova tendopoli di Mavrovouni, insieme a tutti i membri della famiglia tranne il fratello maggiore.

Photo credit: Diego Saccora (Il porto di Mitilene, Lesvos)
Photo credit: Diego Saccora (Il porto di Mitilene, Lesvos)

Naqeeb infatti aveva già in programma di tentare la fuga dall’isola e coglie l’occasione di scappare complice la confusione. Impiega due settimane nelle quali prova una decina di volte ad infilarsi sotto a uno dei tir al porto di Mytilene e alla fine riesce a raggiungere il Pireo, dove ad aspettarlo c’è il cognato. Youssef stava, invano, aspettando che un cugino dall’Inghilterra gli spedisse soldi per far tornare Sahira nella capitale e ripartire insieme per i Balcani. Gli unici aiuti sono invece arrivati dall’Afghanistan grazie a uno zio. Ma non sarebbero bastati per tre persone e la bambina così piccola, quindi li cede allo stesso Naqeeb per permettergli di andare avanti. Lui si unisce alla famiglia di Hamed che aveva intanto recuperato il necessario per un nuovo viaggio, abbastanza per garantire la certezza di passare le frontiere macedoni. Sono bastati tre giorni, due notti, e tutti si trovano al campo di Presevo, in Serbia.

Qui le strade si dividono, l’inverno è già alle porte e la madre di Hamed preferisce fermarsi. Naqeeb è in contatto con Mohammed, un vecchio compagno di scuola di Jalalabad che insieme al fratello maggiore si trova nel Cantone Una-Sana, in Bosnia Erzegovina, e decide di raggiungerlo. Si aggrega ad un gruppo di connazionali in partenza e, dopo un primo tentativo fallito in cui un compagno rischia di affogare, guada la Drina e in un altro paio di giorni si trova a Sarajevo. Incontra in uno squat delle persone già conosciute a Moria e anche degli attivisti che dopo giorni di cammino lo rifocillano e gli danno il necessario per proseguire.

Il padre ha una sorella in Francia che lo potrebbe accogliere e a questo punto diventa il suo obiettivo perché aspettare il resto della famiglia è impossibile. Anche se arrivasse il timbro per tutti per poter lasciare Lesbo non avrebbero sufficiente tempo e denaro per spostarsi velocemente prima del calo delle temperature. Gli fanno arrivare allora dei soldi con cui paga un posto in taxi fino a nord del Paese, qualcuno gli propone di provare il viaggio verso l’Italia dentro a un tir ma rifiuta, gli è già bastata l’esperienza claustrofobica della traversata dell’Egeo.

Quando arriva a Bihac, scopre che l’unico campo accessibile è a chilometri di distanza perché quello in città è stato chiuso più di un mese prima, a fine settembre. L’amico Mohammed vive in un casolare diroccato nella periferia alle pendici della Pljesevica, la montagna di confine con la Croazia, insieme ad altri dieci ragazzi: il più vecchio ha 25 anni. L’ultima comunicazione che riesce a dare al padre e alla zia è che va tutto bene, non dice loro che la condizione in cui si trova è difficile, soprattutto non dice loro che sta per incamminarsi col gruppo. E’ dicembre, le condizioni meteorologiche peggioreranno e potrebbe essere l’ultima opportunità di andarsene alla svelta per i prossimi mesi.

Il campo di Mavrovouni
Il campo di Mavrovouni

Passano quasi due settimane di silenzio, la sua famiglia è disperata. Arriva infine una chiamata da Messenger. Li aveva sentiti i racconti su cosa sarebbe potuto succedere in Croazia, ora lo sa sulla sua pelle. Descrive tutto in lacrime alla madre, che per la prima volta dice lui la verità su quanto sia terribile la situazione in cui vivono al campo di Mavrovouni. Si rincuorano solo grazie alla vista della nipotina che ha da poco compiuto un anno in una tenda da cui vede la costa turca.

Al casolare nel frattempo sono arrivate a vivere altre persone perché mentre Naqeeb si trovava nella foresta in direzione della Slovenia, il campo di Lipa è andato a fuoco: quanti sono riusciti a fuggire e quelli appena arrivati hanno trovato riparo in edifici abbandonati e tende. Insieme all’amico Mohammed e ad altri compagni di viaggio vanno allora a vivere in una ex fabbrica, la Krajina Metal, dove sembra si possa restare senza rischi di essere cacciati. Ed è così per tutto il mese di gennaio e gran parte del successivo. Il 24 febbraio sono tra gli sgomberati che la polizia carica negli autobus per essere portati a Lipa. Nessuno di loro aveva avuto l’energia fisica e mentale per scappare una volta ancora ma arrivati al campo, non essendoci posto per tutti, hanno potuto far ritorno al punto di partenza a piedi.

A marzo anche Hamed si è sganciato dalla famiglia rimasta a Presevo e si è spostato verso nord, in Vojvodina, dove ha trovato posto in un tenda nella jungle fuori dal campo ufficiale di Sombor. Ha provato una volta passando dall’Ungheria e una dalla Croazia, in entrambi i casi è stato riportato indietro. Anche lui punta a raggiungere dei parenti in Francia. Nell’ultima video chiamata di metà aprile con l’amico Naqeeb ha scommesso che sarà lui ad arrivare per primo.

Intanto Sahira, la piccola Maysoon e il resto della famiglia si trovano ancora bloccati a Lesbo mentre Youssef attende ad Atene di poterli riabbracciare.

Photo credit: Diego Saccora (Lesvos 2020)
Photo credit: Diego Saccora (Lesvos 2020)