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“There’s no Kurdistan”, intere comunità di curdi in cerca di pace verso l’Inghilterra

Voci e storie raccolte da Calais e Dunkerque, mentre continuano sistematici gli sgomberi della polizia

Foto di copertina di Selene Lovecchio

Calais – Le persone che da anni si incontrano qui hanno lunghe storie di lotta e resistenza alle spalle; alcune di queste sono sopravvissute ai lager libici, fuggite dalla persecuzione in Iran o dal conflitto in Yemen, in Sudan, dal terrorismo in Somalia.

Le persone che si incontrano a Calais non smettono mai di ironizzare sulla loro stessa sofferenza e frustrazione, nessuno di noi le ha mai viste non ricambiare un sorriso. Nonostante ciò, ad ogni livello i loro diritti umani sono negati, nelle loro terre natie, durante i loro lunghi viaggi e quando arrivano in Francia o in Inghilterra.

There’s no Kurdistan”, “Kurdistan doesn’t even has a football team”. Con queste due semplici frasi pronunciate durante una leggera conversazione informale, si riassume tutto; frasi che racchiudono la frustrazione di questa sezione d’umanità eternamente esule e senza patria, non solo per la condizione di migrante, ma per l’assenza stessa di uno Stato vero e proprio nel quale riconoscersi. Una storia che si perpetua da ormai lunghi anni e che viene racchiusa così, con una mera e semplice constatazione: “There’s no Kurdistan”; quando parlano della loro terra d’origine parlano di Kurdistan, non di Iran, Iraq, Siria o Turchia. Ciò che realmente rimane ed esiste è una lingua, nella quale si riconoscono tutti.

Il popolo curdo attende la nascita di un proprio Stato dalla fine della Prima Guerra Mondiale. I curdi vengono definiti come una popolazione nomade tribale di origini iraniane, a maggioranza musulmana, che da più di 100 anni alberga, con un numero che va dai 30 ai 40 milioni, sparso in vari stati. È uno dei gruppi etnici più numerosi a non avere uno Stato. Dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, il Trattato di Sèvres del 1920 (firmato dalle potenze vincitrici e Istanbul) segnò la dissoluzione dell’Impero Ottomano e lo smantellamento dei suoi territori. Ai curdi fu promessa una nazione: era stata prevista la nascita del Kurdistan. Una promessa mai rispettata, a seguito di questo primo avvenimento iniziarono una serie di rivolte per difendere l’identità nazionale curda. Rivolte che nel corso degli anni sono capitolate con veri e propri genocidi (5mila vittime dal 1980 al 1988, durante gli anni della guerra tra Iraq e Iran, dove il regime di Saddam Hussein si distinse per la sua brutalità e barbarie, sterminando l’intera popolazione di Halabja e decine di migliaia di curdi furono uccisi durante il conflitto, centinaia di migliaia furono costretti a lasciare il Paese), con creazione di milizie di combattimento quali l’YPG, conosciute per essersi distinte per fermezza e coraggio durante la guerra all’ISIS.

Oggi i curdi continuano a migrare, ancora privi di un territorio effettivo ma colmi di un amore verso un luogo a tratti surreale, idealizzato ed esistente solo nelle loro anime sature di orgoglio e speranza. Il Kurdistan.

Foto di Selene Lovecchio
Foto di Selene Lovecchio

Arrivo a Calais il 20 giugno 2021 e durante la mia prima settimana scopro già come funzionano sistematicamente gli sgomberi presso i campi di Calais e Dunkerque; due volte a settimana la polizia francese (CRS) irrompe nei campi facendo razzia di tutti gli accampamenti e ogni tipo di oggetti personali delle persone in movimento, quali vestiti o sacchi a pelo. Mobile Refugee Support (MRS) e molte altre organizzazioni sul posto si ritrovano a dover ricoprire questo tipo di necessità, specialmente a causa del tempo atmosferico avverso e le basse temperature.

Durante lo sgombero avvenuto nella mattina del 22 giugno 2021, seguito da un altro appena il giorno seguente, 1 un agente della polizia entra nel campo con un bulldozer ordinando di distruggere tutto il possibile, tende ancora occupate da persone dormienti e stanche; stanche delle anarchie di confine, stanche di dover ricostruire un rifugio ogni settimana, per due volte alla settimana. Queste sono alcune delle scene di queste mattine, dieci van della polizia francese hanno fatto irruzione nel campo smantellando tutto ciò che riparano queste persone in movimento dalle intemperie della natura. È al tempo stesso singolare il fatto che si chiamino “people on the move” quando in realtà, nella realtà in cui le si incontra, sono bloccate.

Foto di Human Rights Observer
Foto di Human Rights Observer

Non solo la polizia smantella tutto il campo ma riescono anche nel loro intento di bloccare le organizzazioni dall’entrare o aiutare le persone che si trovano in questa condizione. Qui vi abitano comunità intere di curdi, pakistani e afghani, vietnamiti, eritrei e sudanesi, ai quali la polizia ridacchiando e urlando dice “non vi preoccupate, torneremo sabato e probabilmente anche domenica”. Nonostante questo raggiungiamo il campo ogni giorno, e tra le danze e i sorrisi delle persone canticchiamo “Bella ciao”, in un grande inno alla lotta e alla resistenza, e alla speranza che queste persone non perdono mai.

Le persone negli ultimi mesi, a causa degli eccessivi sgomberi, si sono gradualmente spostate da Calais a Dunkerque, dove la jungle risulta essere più organizzata in termini di nazionalità. Sono tutti divisi e organizzati; quando gli sgomberi avvengono con più frequenza non hanno tempo, né le energie, per organizzare il campo in diverse nazionalità e ciò che è possibile notare è un aumento della solidarietà ed unione tra le diverse nazionalità, accomunati semplicemente sotto il grande cappello di “rifugiati”, cercando solo di resistere, insieme.

Foto di Human Rights Observer
Foto di Human Rights Observer

Nel 2015 a Calais c’era un’enorme jungle, conosciuta in tutto il mondo per la sua peculiarità e la sua autosufficienza. 10.000 persone vivevano lì, un luogo che si trovava proprio di fronte all’entrata portuale della frontiera con l’Inghilterra, e le persone semplicemente costruirono, pezzo dopo pezzo, una vera e propria città, divisa per nazionalità, luoghi di culto o luoghi di lavoro, supermercati, scuole, parrucchieri, ristoranti. Questo posto, gigantesco meltingpot di etnie, gioiva di popolazione, strabordava di persone volenterose di costruire un luogo decente, un luogo da poter sentire simile a una casa, proprio lì, tra le luci di frontiera e il blu del mare.

Charles Whitbread, co-fondatore di Mobile Refugee Support, ha vissuto per un periodo all’interno della grande jungle, cercando di creare sempre nuovi progetti affinché quel luogo potesse convertirsi in una vera e propria città in miniatura. Uno dei progetti da lui ideati è stato quello di costruire delle case che potessero offrire un degno rifugio alle persone abitanti il luogo, e così insieme ad un’incredibile moltitudine di etnie e nazionalità visse costruendo con loro, pezzo dopo pezzo, costruzioni in legno, con grande motivazione e un enorme spirito che accomuna tutti i volontari di MRS. Il team è formato da 4 ragazzi, ognuno dei quali ha vissuto dai 2 ai 5 anni a Calais, senza mai stancarsi, senza mai staccarsi, con una motivazione e dedizione mai vista prima. Sono Charlie e Jed Tinsley i fondatori di MRS, due ragazzi entrambi venuti a Calais con l’obiettivo di fare volontariato con le associazioni del posto per poi rimanere qui per 5 anni consecutivi.

Mobile Refugee Support - Foto di Selene Lovecchio
Mobile Refugee Support – Foto di Selene Lovecchio

Mi raccontano che si sono incontrati, hanno iniziato a parlare delle necessità da coprire e delle modalità di aiuto e decisero così di creare una propria organizzazione. Il tutto partì con alcune donazioni, due piccoli container e una macchina con la quale entravano nel campo cercando di donare il più possibile.

Entrambi parlano curdo e nel campo tutti conoscono i loro volti, nonostante la variabile natura di questi luoghi, in cui le persone sono sempre diverse. È incredibilmente ammirevole il loro lavoro e la stima che tutti i migranti mostrano nei loro confronti; la loro storia è anche particolarmente peculiare proprio per la lunga permanenza, per aver iniziato a vivere in questo luogo, con una nuova vita dedicata interamente alla jungle e tutto ciò che ne concerne.

  1. le informazioni che seguono, relative allo sgombero di quella mattina, provengono dall’osservazione sul campo di Human Rights Observer

Selene Lovecchio

Laureata in Linguaggi dei Media, attualmente attivista e studentessa magistrale di Scienze Internazionali, Human Rights and Migration Studies. Aspirante ricercatrice e giornalista.
Sono interessata alle migrazioni, all'agribusiness e ai temi politico-sociali. Viaggio tra i confini, mi sporco le mani e scrivo.