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Canarias e i ribelli dell’Atlantico: diverse rotte, stesse lotte

Campo migranti de las Canteras, Tenerife luglio 2021

Il viaggio in questo particolare inferno inizia da quel medesimo pa(e)ssaggio terrestre e marittimo di cui Markus Rediker, nel suo storico lavoro etnografico “The Slave Ship” (2007), restituisce il dramma segnato, a suo tempo, dal commercio degli schiavi: “Esseri umani di ogni genere, uomini, donne e bambini, venuti dall’Africa, travolti dal vortice turbinoso e surreale della tratta degli schiavi” (Rediker, 2007, p. 23)1.

Un viaggio affatto differente da quello intrapreso – non sempre compiuto – lungo “La Grande Acqua” dell’oceano Atlantico oggi, da migliaia di migranti in transito dall’entroterra delle regioni subsahariane e del maghreb africani verso l’arcipelago canario, tramutato anch’esso in una terra di mezzo e luogo di morte.
Dopo Lesbo e Lampedusa, dalla Sicilia allo stretto di Gibilterra e le Baleari, le isole Canarie si sono aggiunte nell’ultimo anno alle rotte insulari di principale destino per centinaia e centinaia di persone, e tra le più pericolose e mortali finora attraversate, dovuto al disorientamento delle forti correnti permanenti – “il più maestoso dei fenomeni” (Linebaugh 2000) – e alla lunga durata della traversata.
Gran Canaria, Tenerife, Hierro, Fuerteventura, Lanzarote si sono così convertite in isole negriere e piattaforme carcerarie galleggianti per migliaia di migranti, a ridosso dell’emergenza sanitaria da Covid-19 che ha visto arrestare la circolazione globale, ostacolando ancor più il dramma sociale dell’(im)mobilità migratoria, per cui piuttosto muove lungo altre frontiere, cambiando e sfidando le rotte al costo della stessa vita.
Quella Canaria dipende anzitutto dalle maree oceaniche, segue percorsi distinti per evitare il pericoloso passaggio dal deserto del Niger o l’entrata in Libia e nei suoi lager, convergendo nelle stagioni più favorevoli dal punto di vista meteorologico, cui massimo indice di sbarchi è previsto tra i mesi di settembre e novembre: dalla Guinea, dal Senegal e dalla Costa d’Avorio, passando dal Mali e Mauritania, le persone che ce la fanno, raggiungono stremate l’Argelia e il Marocco per poi proseguire il viaggio in mare verso la Gran España.

Popoli di Frontiera. Percorsi e rituali verso il passaggio di mezzo

Le persone che attraversano le frontiere conoscono bene il loro significato perché esse stesse sono frontiera. Le soffrono, le agiscono, le rappresentano con la vita e con la morte, mediante il proprio corpo e la propria esistenza, perché è contro di loro che sono state erette affinché si creassero muri e barriere sempre più violente e visibili a marcare una separazione netta tra chi è e chi non è desiderato da quest’altro lato.
Persino in questo momento, e senza che ce ne si renda conto, i confini dell’Europa continuano a stratificare la propria fortezza. Le frontiere fisiche tra gli stati sono barriere che separano politicamente non solo le geografie, ma due modi diversi di pensare, percepire e viverle.
Il dramma del viaggio migratorio non ha inizio sulle coste africane, e neppure sulle ‘pateras’, ma in una di quelle aule del parlamento europeo, e punto di incontro di interessi politici. E’ in questo momento che è forgiato il primo anello di una lunga catena che collega l’Europa all’Africa occidentale, “il primo anello dell’aspra catena che giunge sino al regno della pena2 come recitava l’abolizionista James Field Stanfield sulla tratta degli schiavi (1789).
Parallelamente ai meccanismi di chiusura, che in piena pandemia hanno visto legittimare il blocco della mobilità umana in tutto il pianeta, esiste dunque un secondo dispositivo di controllo sociale che opera attraverso una mobilità forzata costante: le persone migranti sono costrette letteralmente ad un andirivieni infinito non solo tra Paesi e istituzioni, ma anche tra i campi di accoglienza, tra i centri d’identificazione ed espulsione, tra domande di asilo e deportazioni, tra un tempo di attesa e l’altro3.

Sebbene la storia insegni che le mura sono destinate a cadere, ad essere distrutte, a diventare rovine, tuttavia, una volta erette, le barriere fisiche assumono vita propria e risvegliando specifici immaginazioni, strutturano la forma mentis: Il confine indica e seleziona così chi sta da una parte, chi sta dall’altra, e chi sta dalla parte opposta è diverso, indesiderato, pericoloso, non umano. Gli studi etnografici come quello condotto da Rediker mostrano bene come le pratiche di esternalizzazione dei confini si ritrovino nelle genealogie coloniali dello spostamento forzato, offrendo un efficace laboratorio in cui sperimentare oggi le nuove politiche migratorie che in tempi contemporanei, la pandemia non ha che esasperato e riprodotto dal regime neocoloniale in cui le restrizioni di confinamento continuano a produrre nuove forme di segregazione, deportazione e schiavitù. “Non siamo ancora al di là di tutto questo: tratta e schiavitù sono argomenti con cui dobbiamo confrontarci ogni giorno” scrive Markus Rediker.
Ma se le pratiche di frontiera cominciano ben prima che i viaggiatori le raggiungano, non si concludono certamente all’approdo, che anzi propagano la perenne modalità di separazione e controllo, indispensabile a preservare un’ “inclusione differenziale” tra cittadini e non cittadini, tra gli umani e i non umani, tra il Nord e il Sud che divide il mondo. Le stesse imbarcazioni sono suddivise per nazionalità e genere: stese sul fondo dei “cayucos”, semisommerse da qualche centimetro d’acqua, stremate dal viaggio e a malapena coperte per proteggersi dal sole bollente, le donne sottocoperta vengono circondate dagli uomini sulla cima, per lo più pescatori senegalesi e nigeriani a cui la Cina continua a sottrarre il lavoro e la vita4.

Il viaggio dall’interno può durare infinite lune, lungo il percorso le donne sono abusate e violentate altrettante volte. E’ il prezzo di ogni dogana. Ad ogni frontiera, il cammino si fa più violento e mortale. Le sopravvissute finiscono stritolate e corrose da quelle stesse onde, entrate nell’imbarcazione, in cui sono minuziosamente incastonate per settimane.
Il traffico di queste persone è spesso un accordo occulto tra coloro che dietro questi viaggi prosperano sulla pelle dei migranti, che alla fine cedono in virtù del proprio progetto migratorio. Il più temuto è quello che attraversa il deserto del Niger, in cui possono restarci fino a 15 giorni o morire abbandonati nel nulla. Le alternative non sono da meno, da Dakar o Dakhla, il passaggio segue la costa per oltre 10 giorni, in cui le correnti forti spesso spingono fuori rotta le piccole e grandi imbarcazioni.
Dal Sahara, sono spesso i migranti a spianare il cammino con meno pericoli possibili, a cui viene affidato il compito di patron in cambio di un viaggio gratuito verso il nord del continente. Durante il passaggio di mezzo, nel gruppo dei migranti, è spesso riscattata l’attitudine al comando di qualcuno o qualcuna. Diversi operatori legali di Cruz Blanca, raccontano di donne che a bordo tutti riconoscono come “la patrona”, esattamente come la “nostroma” che sulle navi negriere si incaricava di mantenere l’ordine tra le altre prigioniere, per proteggerle e guidare, probabilmente animata dalla rabbiosa determinazione a farle arrivare tutte vive al termine di quella terribile traversata.
Chi passa in prossimità della Libia, con l’intenzione di raggiungere l’Italia, conosce bene la tortura delle carceri da concentramento, e chi ne fugge preferisce cambiare la propria rotta verso il Marocco e l’Algeria per raggiungere la Spagna. La maggior parte della popolazione marocchina ha già vissuto a lungo in Italia ma per una ragione o l’altra viene rimpatriata repentinamente nonostante sia in possesso di una documentazione valida. È anche per questo che la “scelta” ricade inevitabilmente sulla penisola spagnola.
Il dramma migratorio non ha solo un protagonista, ma milioni di attori, e lungo la spaventosa traversata ne muoiono a migliaia, il deserto e il mare sono diventati dei cimiteri a cielo aperto. Eppure, neppure le cifre, per quanto spaventose, riescono ancora a rendere l’enormità di questo inferno. L’ultimo dramma si consuma non sulle navi, ma sulla terraferma, nella società d’approdo: il passaggio di mezzo è una eterna sospensione limbica.

Canarias. Una jaula flotante

Molto raramente si è capaci di cogliere il dramma che vivono le persone migranti anche all’approdo senza prima passare per gli spazi e i luoghi della crudeltà.
Ci siamo entrati passando da un centro all’altro – un ‘itinerario’ davvero tremendo e contrastante – per stare con le donne e i giovani migranti, raccogliere le loro storie di viaggio e scrivere delle vicende a “bordo”.
Una volta raggiunte le coste canarie, è il ‘Salvamento maritimo’ che conduce a terra le persone riscattate, dove passano la notte – o due – nelle precarie strutture arrangiate per l’isolamento sanitario della Cruz Roja prima di essere destinati ai diversi centri sull’isola. Quelle che però dovevano essere delle tende temporanee utilizzate come ospedali mobili per dare una risposta rapida all’emergenza sanitaria, si sono andate poi strutturando come prassi, per cui indipendentemente dal risultato del tampone molecolare e dai decreti nazionali, le persone migranti sono costrette ad un confinamento cautelativo negli “alberghi quarantena”, che assumono ora tutto l’aspetto di un ennesimo spazio discriminatorio. Ad agosto 2020, con la maggior parte delle rotte terrestri e aeree chiuse, gli arrivi sull’isola sono aumentati e queste tende sono arrivate ad ospitare 2.000 persone con solo 14 bagni chimici e poche docce.

A seguito delle ripetute denunce e proteste che si generarono lo scorso inverno, a Tenerife questa misura contenitiva è stata sostituita dal solo tampone molecolare per cui le persone negative vengono direttamente destinate nei centri di emergenza o integrativi a seconda dei profili. Ma sull’isola di Gran Canaria, dal porto di Arguineguin, è il passaggio immediatamente successivo alle operazioni di fermo amministrativo che la polizia nazionale impone alle imbarcazioni e alle persone che vi viaggiavano a bordo per indagini non chiare. Questa procedura è del tutto arbitraria, nonché illegittima in quanto viene data in assenza di un perito, essenziale all’avvio dell’investigazione, che invece procede impunita in virtù della “sicurezza” e la lotta alla “clandestinità”.
Similmente a quanto accade per i migranti tunisini sulle coste siciliane e sull’isola di Lampedusa, fungendo da centri detentivi per l’identificazione, gli “alberghi quarantena” costituiscono i primi meccanismi di smistamento per il rimpatrio dei migranti di origine marocchina e senegalese. Ancora una volta, gli accordi nazionali e internazionali tra i distinti paesi Europei con i paesi terzi, permettono la deportazione delle persone migranti in funzione della nazionalità, violandone sistematicamente la libertà e i propri diritti, privando loro di ogni tutela e protezione attraverso una sistematica assenza di attenzione individualizzata, d’informazione e traduzione.

Dallo scorso ottobre, infatti, l’unica risposta della Spagna ai numerosi arrivi “fuggiti” alle intercettazioni di Frontex, è stata quella di riaprire i centri detentivi di Gran Canaria e Tenerife per l’identificazione e il respingimento preventivo dei migranti verso Mauritania, appoggiata dall’accordo con la capitale Nouakchott che accetta, oltre ai propri cittadini, qualsiasi migrante partito dalle coste del Paese africano, indipendentemente dalla sua nazionalità. Imminente anche la ripresa delle deportazioni di migranti senegalesi e marocchini nei loro paesi di origine, le Canarie sono divenute una vera e propria piattaforma di espulsione.
Sull’isola, è la Cruz Blanca a gestire i 4 centri tra cui uno integrativo rivolto a donne e bambini suscettibili di essere vittima di tratta e sfruttamento sessuale.
Nel centro di emergenza femminile, le donne osservano silenti, accennando a un saluto sfiduciato, mentre il dormitorio si riempie delle urla dei bambini e del trapano degli elettricisti che in quell’enorme sala d’attesa comune – un’ex filiale bancaria – le priva di qualsiasi privacy ed autonomia.

Sui loro volti la rabbia e la disperazione di chi, in uno stato avvilente aspetta a tempo indeterminato la propria libertà vincolata allo sblocco della propria imbarcazione. “Il corridoio è una morte profonda”, esclama la responsabile mentre ci spiega che “la patera grande” numero 42, per il momento non si muoverà. “Ogni volta che esce gente arrivata più tardi del resto, si deprimono”, “ci sono persone che son qui da 4 mesi, e questa settimana uscirà chi è venuta da Fuerteventura da due mesi”, continua.
Passano il tempo facendo e disfacendo la valigia, è che se ne stanno per andare”, afferma rivolgendosi direttamente ad una di loro, Charlie, mentre fa le trecce a sua figlia. “Sì, in un paio di anni”, risponde con il sarcasmo di chi sa bene che è una menzogna!

Nel centro accedono solo donne venute sole o con i propri figli, che attraverso la moltiplicata istituzionalizzazione vengono seguite e accompagnate affinché, al culmine dei 6 mesi massimi di permanenza, “partano per Siviglia o per Madrid con una richiesta di protezione perché qui dopo non c’è più niente. I centri stanno crollando, non ci sono risorse, né piani di emancipazione!
Sull’isola non c’è posto per le rifugiate, per loro si opta al ricongiungimento familiare, ma spesso è difficile dimostrare il grado di parentela, quando le persone con cui mantengono contatto sono spesso meri conoscenti che promettono loro “una via di fuga” migliore.
Su questa sfiducia, lo stato spagnolo obbliga tutte le donne che viaggiano con dei bambini, alla prova del DNA, l’ultima prova di “verità” che ne legittimi la ragione umanitaria (Fassin, 2016).
Quasi tutte vorrebbero andare in Francia, ma la realtà non è così”, continua la direttrice, “il danno è che noi non possiamo lavorare con questo, siamo parte del problema, siamo il primo passo, l’antesala di tutto.. E la polizia è la polizia, non possiamo collaborarci. Quando otteniamo lo sblocco della patera, e, nel caso delle madri il risultato del test del DNA, organizziamo la loro uscita. Nella penisola è per loro molto più semplice muoversi autonomamente..”.

Il giorno successivo accediamo al famoso centro permanente maschile, anche il più nascosto. L’osservo dall’alto alla ricerca di qualche ragazzo ma dalla collina non si vede nulla, il centro è ben incastrato in una conca.

Il centro di emergenza maschile en Lasso de Gran Canaria visto dall’alto nell'incavatura in cui è costruito
Il centro di emergenza maschile en Lasso de Gran Canaria visto dall’alto nell’incavatura in cui è costruito

Una volta discesa la costa, inevitabile non notare su di un capannone bianco l’impallidita bandiera dell’Unione europea e lo stemma spagnolo cui scritta riporta: “Financiado por Fondo de Asilo, migración, e Integración de la Unión Europea”.
Il fatidica fardello”, penso ironicamente tra me…
Varcata l’entrata, per gli uomini – tanti di loro minorenni – la situazione umanitaria è pressoché la stessa a quella delle donne, se non peggiore. Varia il numero. Nel centro permanente León, ne El Lasso di Las Palmas, la cui capienza potrebbe ospitare circa 100/150 persone, si superano le quattrocento, tutte sistematicamente suddivise in abitazioni da 10 brandine per 10, secondo la nazionalità di origine, per evitare possibili conflitti razziali tra magrebini e subsahariani.

Adou, Lamar, Souleman, fanno a gara per poter esprimere lo stato d’animo rancoroso e a tratti struggente che alimentano all’interno della struttura da oltre 8 mesi, annientati dalla preoccupazione di non uscirne più da li o di non sapere che ne sarà di loro una volta fuori.
E’ da poco trascorso il mese del Ramadan e a malapena hanno potuto avere lo spazio necessario per poterlo celebrare. In un angolo del piano di sopra, scorgo il tappeto delle preghiere, ma non è che l’emblema di chi non ha più nemmeno una religione.

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Mentre completo il giro esterno tra le bianche ‘jaimas’, Adam mi mostra il foglio di via in lingua spagnola di cui mi chiede la traduzione in francese: è un “orden de expulsion” per l’accordo bilaterale con il Mali, riportato a lettere cubitali.
Il Mali sta vivendo un conflitto bellico ed è governato da una giunta militare in prima linea nel deserto colpito dal cambiamento climatico. È un paese che non offre garanzie vitali ai suoi cittadini per sviluppare una vita sicura o dignitosa. La rotta delle Canarie è l’unica alternativa che centinaia di suoi cittadini hanno trovato per cercare un’opportunità. Ciò nonostante, nei primi tre mesi dell’anno, la Spagna ha già espulso più di 130 maliani in Mauritania.
Cerco di eludere la traduzione letterale, indicandogli che ne parleremo con l’avvocata, ma è impossibile non scorgere gli occhi della consapevolezza tra i ragazzi. Sanno bene quali sono gli scogli, la barriera linguistica e sopratutto quella amministrativa.
C’è chi sogna la Francia e chi già vive con la mente a Madrid, tra le loro mani il fascicolo turistico che li porterà in parte a casa: Moha ha il fratello a Barcellona, Soule a Firenze, in Italia. Sognare la Gran España è sognare l’Europa tutta.

Ken e Ibrahim mostrano la guida turistica di Madrid
Ken e Ibrahim mostrano la guida turistica di Madrid

Terminate le questioni amministrative, mi dirigo nella stanza 204 per chiedere a Lamine in che lingua preferirebbe ricevere l’assistenza legale. Non parla spagnolo, mi arrangio con il suo portoghese. L’ho interrotto nel momento più intimo di uno dei suoi bellissimi disegni. E’ una casa, ha scritto “madre e padre vi amo” sul tetto in alto, il mio nome in basso. Mi siedo accanto a lui, sebbene non mi sia permesso.
Domando a quel punto ad un operatore se quelli siano centri aperti, ma alla risposta semipositiva, mi rendo subito conto dell’insensatezza della questione: “Possono uscire quando vogliono, sì, possono entrare quando vogliono, no”, mi si sottolinea enfatizzando sul rispetto dell’orario normativo. “Es un centro, pero como todos centro tiene normas“, “se si assentano per oltre 48 ore gli viene tolto il posto”.
Escono quando vogliono, sì, ma per fuggire al miedo del rimpatrio, e per scappare nelle mani di chi poi a sua volta le e li maltratterà.
È una vertigine – leggo da qualche parte sulle pareti dell’infermeria – la falsa sensazione di movimento“; è la stessa sensazione che provo io e che senza dubbio proveranno loro, nel sentirsi impotente dinanzi all’oblio. “I centri sono aperti, i ragazzi sono liberi di uscire, questo non è un carcere“, mi viene ribadito.
Ma cosa significa libertà? Che peso diamo alla galera?
Le catene sono forgiate già da tempo e nessuno vuol vederle.
Non c’è nulla che parli di libertà fuori e tra le pareti di questi luoghi.

Sulle pareti tanti cuori e delle mani, un simbolo berbero e una scritta universale: Madre.
Sulle pareti tanti cuori e delle mani, un simbolo berbero e una scritta universale: Madre.

Madre nostra, che sei nel mare” leggo dall’inserzione sul Mediterraneo del Robinson di questa settimana… “proteggi questi tuoi ragazzi“, proseguo io.

Cambia la rotta, continua la lotta! La Caravana migranti che apre frontiere

Le isole Canarie sono mutate in un ennesimo vicolo cieco per i migranti che riescono ad arrivare. Gran Canaria e Tenerife – come il modello greco – sono esempio del labirinto europeo impiegate come perimetro di contenimento che non apre prospettive, però sì alternative! Dal porto di Arguineguin al campamento de Las Raices, il confine non è solo oppressione, è soprattutto opposizione, un luogo che genera nuove lotte e resistenza.
Il superamento “irregolare” della frontiera plasma altre soggettività. Viaggiare nei “cayucos” e sfidare l’esternalizzazione frontaliera nel mare significa per i migranti soprattutto contestare quel regime d’(im)mobilità coloniale e trasgredire l’egemonia del sistema migratorio e delle sue politiche di guerra e morte. Il movimento è al contempo mobilitazione, e le persone migranti che incorporano e rappresentano le frontiere, fanno di esse un meccanismo di difesa e un’azione politica. Il “movimento” indica in questo senso un’azione di spostamento, non solo da un luogo all’altro, ma anche come pratica viva finalizzata al cambiamento sociale. In entrambi i sensi, il movimento dei ribelli di frontiera genera una soggettività che, attraverso un gesto politico, sfida il regime di mobilità e l’ordine sociale della governance migratoria.
La pandemia ha reso ancora più difficile e pericoloso il transito ma non ha che confermato l’apparente immobilismo politico, che al contrario è prodotto e produttore di nuove forme di mobilità. Questo perciò non è un discorso sull’immigrazione o sulle migrazioni. Questa è una riflessione sui confini e sulle persone che li attraversano, che li vìolano a qualsiasi costo.

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E’ in questo panorama sempre più torbido per i diritti umani, che “arranca” la Caravana Abriendo Fronteras, seguendo quest’anno la rotta Canaria per continuare la stessa lotta che da sei anni denuncia – al grido di oltre 300 attivistə – il diniego al diritto di ogni essere umano alla libera circolazione.
Siamo partiti in carovana per rivendicare il diritto a migrare – come quello di non migrare – camminando le frontiere in rappresentanza della lotta contro la proliferazione dei meccanismi frontalieri che da Lampedusa a Trieste, dai Balcani alle frontiere franco-italiana e franco-spagnola sino alla frontiera sur di Ceuta e Melilla, quella euromediterranea, atlantica e mesoamericana, risponda alla nefaste logica delle necro politiche vigenti e di deportazione.

Insieme a Carovane Migranti, Imed Soltani di Terres Pour Tous, mamma Jalila, Don Lolo del Comitè de Familiares Migrantes di Honduras, Ruben Figueroa del Movimiento Migrante Mesoamericano, la Rete Catanese Antirazzista, Ongi Etorri Errefuxiatuak, l’Asamblea de apoyo migrante di Tenerife, i collettivi di SomosRed e RegularizacionYA, la Carovana ha marciato per manifestare il suo dissenso ai luoghi della verguenza installati in Gran Canaria e Tenerife.

L’Europa ha creato una nuova frontiera, ma i meccanismi di controllo e securitizzazione restano i soliti, pertanto, anche la nostra lotta persegue lo stesso obiettivo: abbattere le frontiere, far vincere i diritti! Lo abbiamo gridato negli spazi chiave della violenza frontaliera, dinanzi alle istituzioni che perseverano la militarizzazione del mare.
Siamo entrati nei quartieri simbolo della violenza ai migranti, abbiamo denunciato le operazioni che Frontex e il centro detentivo di Canaria 50 perseguono in virtù del complesso industriale militare dove ogni guerra comincia, per chiedere la chiusura di questi uffici e l’abolizione delle operazioni militari in mare e in terra.

Arguineguin, storicamente un porto di pescatori nel sud di Gran Canaria, è il primo spazio di non diritto. Abbiamo attraversato l’isola per raggiungere le pendici del monte sul quale regge l’ex prigione franchista, ora carcere migratorio e luogo di morte che trattiene le persone migranti come fossero criminali, prima di procedere al ritorno forzato al paese di origine. Il CIE di Barranco Seco “sprigiona” ed imprigiona la stessa fatiscente violenza del CPR di Torino e di tutti i centri detentivi che criminalizzano le persone anziché difenderle, come accaduto al giovane Moussa Balde e a tutti i migranti scomparsi e assassinati dalle frontiere.

Imed è arrabbiato, è il più triste e arrabbiato tra tutti gli attivisti: “Je suis fâché, j’ai mal au coeur, rien changera si on change pas les politiques qui empêchent la circulation“, ripete. “Siamo qui per questo – mi ripeto – sebbene spesso il senso d’impotenza è forte, alle volte oltre la motivazione che muove la lotta e le rotte, quella quotidiana che avanziamo col sorriso e la dignità, ma che riesce a tradire ogni esuberanza quando ciò che vorremmo davvero è evitare morte e sparizioni, piuttosto che denunciarle“.

Ma la Caravana è soprattutto lotta viva, è il grido che appartiene ai vivi e ai morti che son vivi, perché “chi muore lottando non muore”, afferma Teodoro durante il suo discorso al cimitero dei “senza nome” di Aguimes, nel sud dell’isola. Siamo andati a rendere omaggio e memoria alle persone migranti e ai desaparecidos, il momento più atteso e memore della Caravana. Teo e Don Lolo ci offrono le proprie testimonianze, rivendicando la pace per tutte le vittime di frontiera, nel mare e in terra. Difficile convincersi che la piccola Sahe Sephora, annegata il 16 maggio 2019, sia stata la prima vittima del dramma canario a cui le si è riconosciuto in definitiva il proprio nome. Impossibile anche restare quieti dinanzi al racconto di Don Lolo, che con le lacrime in petto e la voce contenta – preferita alla gratitudine, come dice – riporta il massacro inflitto a suo fratello, in Honduras, dove i martiri da ricordare sono tanti, i cui resti dei corpi hanno riempito per anni le fosse comuni della vergogna.
Allora eccoci, siamo qui e non ce ne andremo sin tanto che questi luoghi criminali vengano estinti, fintanto che non sia garantita la libertà a pugni stretti. Vogliamo essere testimoni di una generazione che continui a lottare, perché se è certo che la morte c è sempre, è la seconda. La libertà è primaria.

Teo e Modou rendono memoria viva ai compagni senegalesi scomparsi e tutti i naufraghi nell’indifferenza del mondo (foto di Caravana Abriendo Fronteras)
Teo e Modou rendono memoria viva ai compagni senegalesi scomparsi e tutti i naufraghi nell’indifferenza del mondo (foto di Caravana Abriendo Fronteras)

Con e per la libertà di dissentire, raggiungiamo Tenerife per continuare la lotta assieme ai ragazzi che abitano gli accampamenti. I centri permanenti de las Raíces e de Las Canteras, gestiti rispettivamente da Accem e da Oim, ospitano centinaia di migranti da ormai circa 9 mesi. Un nutrito gruppo ha preferito uscire all’esterno, nel campo organizzato dall’Asamblea de apoyo a migrantes di Tenerife ed ennesima manifestazione di disobbedienza delle persone che rifiutano l’indegno trattamento ed eludere le denigranti condizioni di cui riportano nei diversi comunicati stampa. L’ultimo questa settimana per reclamare un’accoglienza e attenzione sanitaria degna per affrontare i molteplici problemi di salute a cui sottendono in molti da tempo.
L’Assemblea porta avanti un impegno di speciale rilevanza nel campo informale per la denuncia della situazione dei minori non accompagnati, inseriti in strutture di accoglienza per adulti, e per la rete di solidarietà che costruisce con tutta la comunità migrante.

Nel frattempo, però, la nostra presenza sull’isola si fa per la polizia sempre più molesta, durante una manifestazione vengono detenuti tre ragazzi e una compagna di Caravana viene severamente colpita dai manganelli. Denunciamo la forte repressione a cui assistiamo e continuiamo la nostra marcha.
Canarias, ni carcel ni tumba”, è questo è il grido di lotta che ripetiamo alle istituzione, alla polizia che scorta sempre più blindata ogni nostra manifestazione. Vogliamo una risposta, chiediamo giustizia, verità e la non ripetizione per i crimini commessi. Pretendiamo responsabilità istituzionale, finora assorta dall’impunità.
In questo viaggio in carovana, rendiamo visibile un sistema di contenimento delle migrazioni basato sull’esternalizzazione, militarizzazione delle frontiere e la deportazione che calpesta diritti di chi si muove nel mondo alla ricerca di pace e dignità: “Nous sommes des migrants africains arrivés aux Canaries, parfois par voie régulière mais surtout par voie mortels“, esclama con voce rotta Soda Niasse nel discorso di apertura.
No tenemos miedo! Somos personas dignas y libres, y lucharemos hasta la muerte por nuestros derechos. Para que nuestros descendientes reciban un mundo donde todas las personas puedas viajar libremente y con seguridad y dignidad”.

E’ proprio con l’inno alla libertà – noi cercatori di libertà – che terminiamo l’iniziativa danzando, e continuando a invocare a suon di musica sempre “Libertà! Libertà! Libertà!“.

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Documenti allegati

  1. Rediker, M. (2007) The Slave Ship. A Human History, New York, Viking Penguin, 2007, pp. 23.
  2. Stanfield, J. F. 1789 Observations on a Guinea Voyages
  3. Per la questione della temporalità si veda: https://www.meltingpot.org/Il-tempo-negato.html
  4. https://www.internazionale.it/notizie/umberto-bacchi/2017/05/17/mari-africani-pescherecci

Valentina Delli Gatti

Antropologa e attivista per la libertà di movimento e il supporto delle persone migranti.
Sono specializzata in migrazioni internazionali e indago il tema della mobilità e delle mobilitazioni migranti con particolare attenzione all’etnografia delle frontiere e le strategie di lotta nell’area euromediterranea e nel contesto sud e centro americano.
Sono operatrice del progetto Mem.Med per la ricerca e l'identificazione delle persone migranti scomparse.