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I rimpatri dei cittadini afghani prima e dopo il ritorno dei talebani

I fragili progetti tra Afghanistan e Unione Europea e i risvolti delle ultime settimane

Foto di archivio

Con il ritiro delle truppe internazionali – facile profezia sin da giugno – le forze talebane sono tornate sul territorio afghano. Le ultime sanguinose settimane sono state un’escalation di terrore a cui l’opinione pubblica dell’Occidente ha assistito sbigottita e costernata: la conquista di Kandahar, di Ghazni e di Herat, del carcere di Lashkar Gah; infine, la presa di Kabul in tempi vertiginosamente rapidi, il sacrificio di moltissimi civili e la fuga disperata della popolazione da un paese di nuovo (o da sempre) nel caos.

Il 29 febbraio 2020 a Doha gli Stati Uniti avevano concluso con i talebani un patto con cui le delegazioni mettevano fine ad un’occupazione militare cominciata diciannove anni prima, il 6 ottobre 2001, quando dopo i fatti delle torri gemelle gli USA avevano dichiarato guerra e messo piede in Afghanistan per la prima volta; negli anni seguenti, la narrazione ufficiale ha intriso questa occupazione di propositi ideali. Quello più famoso: importare la democrazia in un paese in cui le frange politiche più estreme la facevano da padrone dal 1996; squarciato il velo della narrazione, in quel lontano – oggi tremendamente vicino – 2001 avremmo scoperto una federazione impaurita da un nemico inedito, il terrorismo; e determinata a sgominarlo affinché un nuovo 11 settembre 2001 non accadesse mai più dentro le mura di casa.

Quanto succede in queste settimane sta scalfendo il fragile apparato giuridico che regola il rientro nel paese di chi non ha ricevuto protezione internazionale dall’Unione Europea. Già prima della riconferma dei talebani al potere, tale apparato di leggi e di progetti presentava numerose criticità legate agli squilibri di potere tra i contraenti e alla situazione economica e infrastrutturale dell’Afghanistan; adesso che i talebani sono di nuovo al potere, la sfilza di diritti umani faticosamente conquistati o rincorsi in questo ventennio rischiano di dissolversi come fumo nel vento, insieme ai tentativi di reintegrazione nel tessuto sociale dei rimpatriati che giungono dall’Unione, ma anche dai vicini Iran e Pakistan. E in particolare a proposito dei rimpatri, perfino lo scorso anno, quando sotto lo scudo statunitense ci si illudeva di muovere goffi passi verso una pacificazione intra-afghana tra talebani e governo, il consigliere del presidente addetto a migrazioni e reintegrazioni aveva osservato che nei negoziati di pace non era emerso granché il tema della reintegrazione dei rimpatriati, né se e come tale questione avrebbe preso forma con il nuovo asse politico. Del resto, nonostante i trattati fossero in corso di stesura, restava evidente a tutti (fuori e dentro al paese) il modo di operare coercitivo e violento dei talebani, oltre al loro coinvolgimento in prima persona in grandi traffici: l’Afghanistan è il principale produttore ed esportatore di oppio al mondo, e in alcune regioni fino al 93% dei villaggi vivono della coltivazione di papaveri da oppio; accanto a questa attività, risulta ampiamente diffuso il traffico di esseri umani.

Con queste premesse, ogni prospettiva che includesse i talebani all’interno di un quadro politico organizzato, all’interno degli organi istituzionali, sollevava numerose indeterminate. Non solo di tipo economico, ma anche culturale: si pensi al lento e doloroso processo che le donne afghane hanno attraversato negli ultimi 20 anni per il riconoscimento di porzioni via via ulteriori di diritti e libertà.
Adesso che lo scudo statunitense è tolto, e l’ipotesi di una pacificazione intra-afghana si è dissolta nella polveriera di questo torrido agosto, l’Unione Europea deve andare a ristudiarsi tutte le carte che la legano – e in parte la vincolano – all’Afghanistan, con cui condivide una lunga storia di migrazioni, e di accordi per gestirle.

Secondo un report di UNHCR 1, la cittadinanza afghana è la seconda più numerosa al mondo per numero di rifugiati. La maggioranza di questi si trovano nel confinante Pakistan, in Iran e Turchia, infine in Europa. A marzo 2021, gli Afghani rappresentavano la seconda nazionalità più comune tra i richiedenti asilo in Europa (con 2,670 richieste), dopo i Siriani (5,195 richieste). Inoltre, a febbraio 2021 il 53% dei richiedenti asilo afghani avevano ottenuto protezione internazionale. Che ne è dei rimanenti?
Nel 2016, l’Unione Europea concluse un patto sull’immigrazione con il Governo di Unità Nazionale afghano 2. Questo patto è conosciuto come il “Joint Way Forward”, e rifletteva l’impegno congiunto di UE e Afghanistan di cooperare per prevenire la migrazione irregolare e per gestire il rimpatrio dei migranti irregolari che, dopo il vaglio legale dell’UE, non ricevono protezione internazionale. Il patto rimaneva comunque subordinato agli accordi internazionali già in vigore, in particolare alla Convenzione del 1951 sullo Status dei Rifugiati e il successivo Protocollo di New York del 1967, e dal punto di vista dei diritti concessi o meno ai richiedenti asilo sottostava alla Carta europea dei diritti dell’uomo.

Il focus del patto si articolava in quattro punti fondamentali: la presa in esame di ciascun caso di richiesta d’asilo da parte degli Stati Membri dell’UE, condizione necessaria per concedere o negare la protezione internazionale e il diritto a restare in UE; l’impegno dell’Afghanistan di riammettere in territorio afghano i suoi cittadini rimpatriati; la possibilità, data ai cittadini afghani cui fosse negata la protezione internazionale o fosse intimato di tornare in Afghanistan, di rientrarci volontariamente; l’impegno da parte degli Stati Membri di prestare particolare attenzione ai casi vulnerabili, racchiusi principalmente nelle categorie dei minori non accompagnati, delle donne non accompagnate e delle donne a capo di famiglie, in modo che i principi del superiore interesse del minore e del ricongiungimento familiare restassero preponderanti. Nella seconda parte del trattato erano contenute misure ben precise per facilitare dal punto di vista legale il rientro in Afghanistan, attraverso documenti di viaggio opportuni e perfino orari dei voli aerei, concordati preventivamente tra gli Stati Membri e il governo afghano; la terza parte – vergognosa – riguarda la “prevenzione” della migrazione irregolare, che l’Afghanistan avrebbe dovuto condurre sensibilizzando la popolazione ai rischi legati ad essa, e che l’UE si impegnava a sostenere finanziandone le campagne: un tema ai limiti dell’inquietante, se si considerano le condizioni del paese negli ultimi vent’anni, con eserciti internazionali sul territorio e l’emergenza umanitaria in cui versa una parte consistente della popolazione.

Campagne di sensibilizzazione ai rischi dell’immigrazione irregolare”, quasi che l’immigrazione irregolare fosse una causa borghese, da campagna pubblicitaria, e non la via obbligata per preservare la propria vita quando si vive in un paese in guerra.
Questo accordo, promuovendo rimpatri sicuri e reintegrazione dei rimpatriati in Afghanistan, rientra nella rubrica europea che vorrebbe risolvere “alla radice” la questione delle migrazioni, riconducendola al paese di partenza e tentando di migliorarne le condizioni economiche, sociali e ambientali. In questo senso il Joint Way Forward coinvolge altri enti per portare avanti i programmi di reintegrazione: oltre all’Unione Europea, figurano la Banca Mondiale, UNHCR e IOM. In linea con questi obiettivi, l’Unione ha chiesto al governo afghano di stilare politiche creative per la reintegrazione; il documento che ne è nato è il Comprehensive Migration Policy 3, lanciato ufficialmente nel 2019 con l’obiettivo di gestire i rimpatri e la reintegrazione e di prevenire l’immigrazione irregolare, insieme alla Citizens’ Charter4.

Nel 2016 fu creato inoltre il DiREC (Displacement and Return Executive Committee) per l’amministrazione di progetti finanziati anche da altri soggetti dell’UE. In linea di principio, l’idea di legare la questione dei rimpatri ad operazioni di supporto sul territorio di partenza, affinché possa giovarne non solo il rimpatriato, ma l’intera comunità in cui viene inserito, è auspicabile. Nel Joint Way Forward si menziona più volte una partnership tra Kabul e Bruxelles, ma gli squilibri di potere tra i due contraenti ha reso questa partnership impossibile nei fatti. Al netto di tutti i propositi di sostegno internazionale, si tratta in effetti di un patto fortemente asimmetrico, dal momento che sostanzialmente ricattava l’Afghanistan con misure di aiuto economico in loco per giustificare il rimpatrio forzato di cittadini afghani in un territorio di guerra; non è un caso che alcuni lo abbiano rinominato il “patto-ricatto”5.

La Banca Mondiale nel 2020 ha stimato che il valore economico del supporto internazionale rappresenta in Afghanistan il 40% del PIL nazionale: si tratta di uno Stato in forte dipendenza dall’aiuto estero. Non stupisce dunque che, quando nel 2016 si giunse alla definizione del JWF, da Kabul il fragile governo afghano si trovò costretto ad accettarne le condizioni. Il Joint Way Forward è scaduto il 6 ottobre 2020 ed è stato rinnovato col nome di “Joint Declaration on Migration Cooperation between Afghanistan and the EU” il 26 aprile 2021, quando le truppe degli USA e della NATO erano sul punto di iniziare il proprio ritiro6 che le cose avessero preso l’attuale piega oppure no, resta in piedi un accordo internazionale interessante nei principi ma fallimentare nella pratica.

Come si afferma in un’analisi pubblicata da Chatham House sulla questione7, assieme agli squilibri di potere tra i soggetti contraenti, a concorrere al fallimento di questi patti vi sono dei fattori interni. Per garantire una pronta reintroduzione dei soggetti rimpatriati nel Paese, negli accordi si predispone di inserirli nel tessuto delle città; ma l’urbanizzazione nevrotica e la crescita demografica esponenziale degli ultimi anni, con infrastrutture carenti e impreparate a garantire occupazione per nuove persone, rendono difficile già in partenza questo inserimento. Inoltre, i cambiamenti climatici degli ultimi anni si sono riversati in modo violento sul territorio dell’Afghanistan, rendendo la carenza di acqua nelle campagne e nei villaggi una delle ragioni principali della scelta di abbandonare il paese, oltre che motivo di tensioni tra le comunità, in quella che diventerà sempre più una guerra per le risorse naturali essenziali 8.

Inoltre, secondo i dati di UNHCR e IOM, il 40% dei rimpatriati afghani non torna nelle proprie comunità di origine; alcuni dei rimpatriati sono nati fuori dal paese e non sono mai vissuti in Afghanistan, fatto che rende il rimpatrio un dispositivo fallace; altri hanno passato molti anni della vita lontano al paese e ormai la rete di appartenenza risulta smembrata o irrintracciabile. L’integrazione di queste categorie nel tessuto sociale può essere problematica, dal momento che le comunità “ospitanti” possono attribuire ai rimpatriati caratteristiche di stranieri e stigmatizzare il loro status di rimpatriati.
Infine, la struttura delle politiche migratorie afghane, nel loro intrecciare pace e sicurezza con rimpatrio e reintegrazione, immergendo il tema dei migranti in una superiore dimensione di benessere statale, in linea di principio è da tenere in considerazione; tuttavia, si deve fare i conti con la competizione tra diversi dipartimenti del potere afghano adibiti alla coordinazione di un tale progetto: sorgono difficoltà nella distribuzione nei vari ministeri del budget destinato a migrazione e reintegrazione, cosa che rende incoerenti e sbilanciati gli sforzi delle parti.

Sempre in ragione dell’incolmabile distanza tra propositi ed effettività, il 23 settembre 2020 la Commissione europea ha pubblicato delle proposte per un “Nuovo patto su migrazione e asilo”, con l’obiettivo di affrontare il tema delle migrazioni attraverso l’intero percorso che i migranti devono attraversare (la cosiddetta strategia ‘whole-of-route’), intercettando dunque tutti i soggetti coinvolti nelle rotte, sia quelle verso l’Europa, sia quelle che li riportano nel proprio paese d’origine. Nonostante il patto prospetti la creazione di un sistema europeo di “permanent, effective solidarity” per la distribuzione efficiente dei richiedenti asilo sul territorio dell’Unione ed il loro rimpatrio, la realtà si dimostra ben più complessa, dal momento che ci sono Stati Membri (a partire dal Gruppo Visegrad) che preferirebbero continuare ad innalzare muri piuttosto che aprire alla solidarietà.

Cosa succede ora che i talebani si sono risollevati? Con l’inasprimento della guerra nella regione dopo il ritiro delle truppe internazionali, già l’11 giugno il governo afghano aveva chiesto all’UE di fermare per tre mesi i rimpatri degli afghani, sospendendo di fatto quanto concordato nella Joint Declaration pochi mesi prima.
In ragione della rapida evoluzione della situazione, a inizio luglio la Francia ha effettivamente sospeso i rimpatri fino a data da destinarsi, seguita il 12 luglio dalla Finlandia e il 16 luglio dalla Svezia.
Le ultime a unirsi alla sospensione sono state, l’11 agosto, la Germania e i Paesi Bassi.
Si tratta di misure di politica emergenziale, le minime da mettere in atto da un’Unione fondata sullo Stato di diritto; la prova che l’instabile e pericolosa normalità della popolazione afghana degli ultimi vent’anni non mostrasse con sufficiente evidenza verso dove venivano reindirizzati i migranti cui era negata la protezione internazionale. Per adottare misure estensive e sistematiche di protezione, occorrono giorni di tragedia come questi.
La situazione evolve rapidamente: nel frattempo, ASGI ha pubblicato un appello affinché la popolazione locale venga evacuata e accolta alle frontiere europee marittime e terrestri, anche in esenzione di specifico visto per i cittadini afghani9.

  1. https://reliefweb.int/sites/reliefweb.int/files/resources/iom_unhcr_2018_joint_return_report_final_24jun_2019english.pdf
  2. https://eeas.europa.eu/sites/default/files/eu_afghanistan_joint_way_forward_on_migration_issues.pdf
  3. https://www.budapestprocess.org/about/news/161-comprehensive-migration-policy-presented-in-kabul-afghanistan
  4. https://www.refworld.org/docid/5b28f2ed4.html
  5. https://ilmanifesto.it/lafghanistan-brucia-ma-leuropa-si-blinda-rimpatriare-i-migranti/
  6. https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2021/04/13/biden-annuncia-ritiro-truppe-dallafghanistan-entro-l119-_0b40e70f-9ba3-4def-a5f3-9a7ea0246bd0.html
  7. https://www.chathamhouse.org/2020/11/eu-and-politics-migration-management-afghanistan/03-afghan-national-picture
  8. https://www.nationalgeographic.com/science/article/afghan-struggles-to-rebuild-climate-change-complicates
  9. https://www.asgi.it/primo-piano/afghanistan-garantire-evacuazione/?fbclid=IwAR0AAxVbkTm7yBOxhH7a6kJCNwZFFfxT0Mnl-h0-liqerNJquTCgrUCmB-I

Rossella Marvulli

Ho conseguito un master in comunicazione della scienza. Sono stata a lungo attivista e operatrice nelle realtà migratorie triestine. Su Melting Pot scrivo soprattutto di tecnologie biometriche di controllo delle migrazioni sui confini europei.