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La normativa in materia di immigrazione agevola la violazione dei diritti umani

Dal finanziamento della “missione libica” al “trattenimento amministrativo”

Affermare che la normativa in materia di immigrazione italiana sia da considerare causa di violazioni di diritti umani non vuole essere una provocazione quanto piuttosto una fotografia della realtà. Nella contrapposizione che viviamo oggi tra salvaguardia dei diritti e delle libertà, da un lato, e bisogno di sicurezza, è proprio quest’ultimo a prevalere e a influenzare maggiormente le scelte politiche e legislative. Politiche securitarie prevalgono in tutta Europa e portano i singoli Stati a dotarsi di leggi sempre più restrittive, sempre meno attente al rispetto dei diritti delle persone, sempre più “eccezionali” o “emergenziali”. Accade così che l’Italia e l’Europa continuano a pensare la migrazione esclusivamente in termini di contrasto dei flussi migratori irregolari. Mentre mancano tentativi di immaginare interventi normativi e politiche di apertura, di accoglienza, di salvataggio in mare, di tutela dei diritti delle persone migranti.

Il rifinanziamento delle missioni all’estero da parte del Parlamento italiano e in modo specifico il rifinanziamento della missione bilaterale di addestramento e assistenza nei confronti delle Istituzioni libiche preposte al controllo dei confini marittimi rappresenta l’ultimo atto, in ordine di tempo, di questa involuzione del diritto e della politica nazionale. Una risoluzione approvata dal Parlamento con una larghissima maggioranza e poche voci di dissenso da parte dei nostri rappresentanti. Mentre le voci di dissenso sono state molteplici nella cosiddetta società civile che si batte da tempo, purtroppo senza grandi risultati, contro tutto questo. Non è bastato allora ricordare le condizioni drammatiche che vivono migliaia di persone che si trovano in Libia o transitano da essa per arrivare in Europa. Non è servito a nulla sottolineare le violenze perpetrate dalla sedicente Guardia costiera libica a danno dei migranti che si imbarcano. Nonostante i numerosi report, le denunce, i filmati che documentano gravi violazioni dei diritti umani, l’Italia, Malta e l’agenzia europea Frontex hanno intensificato il loro sostegno alla Guardia costiera libica. Neppure il fatto che la Corte penale internazionale per i crimini contro l’umanità stia portando avanti un’indagine al fine di capire se le violenze dei libici possano essere considerate veri e propri crimini contro l’umanità, ha scoraggiato il nostro Parlamento dal finanziare nuovamente la “missione libica”.

È chiaro allora che manca, anche da parte del nostro Paese, attenzione al tema dei diritti umani che purtroppo vengono declamati nelle grandi assemblee e nelle riunioni ufficiali dei “grandi della terra” e disattesi nella pratica quotidiana da parte delle singole istituzioni.
Come ha scritto William Golding nella sua Postfazione al racconto “Il Signore delle Mosche”, “una delle nostre pecche è di credere che il male sia altrove, o comunque intrinseco a un’altra nazione”. Una pecca che non ci porta a riconoscere il male che producono le nostre istituzioni, le nostre norme, i nostri sistemi politici ed economici basati esclusivamente sulla tutela dei nostri confini e delle nostre proprietà. Così lasciamo che ogni giorno vengano perpetrate violazioni di questi diritti e di queste libertà, piccole o grandi che siano, senza batter ciglio perché per il momento non è toccato a noi e perché crediamo di non essere capaci di fare del male.

Ma possiamo permetterci questo atteggiamento perché mostriamo di non aver ancora compreso quello che a livello globale si muove.

Un processo di distruzione/spopolamento è in atto da moltissimo tempo in vaste zone del pianeta. A questo segue inevitabilmente un processo di ricostruzione/riordinamento che coinvolge tutti e che è utopico credere di poterlo contrastare con muri, barriere e norme restrittive. Dopo aver distrutto interi territori, annichilito la coesione sociale che esisteva nelle società che abbiamo voluto civilizzare, spezzato legami di solidarietà e forme di organizzazione e produzione pre-capitalistiche, oggi ci sentiamo pure legittimati a usare il pugno duro contro chi bussa alle nostre porte in nome di quella globalizzazione che noi abbiamo inseguito e che vale per le merci ma non per le persone. Contro chi bussa alle nostre porte pensiamo di poter abbassare l’asticella del diritto e di poterlo fare sia garantendo impunità a chi fa il lavoro sporco al posto nostro, il caso appunto della Guardia costiera libica, sia con meccanismi giuridici e burocratici che restringono e mortificano sempre più i principi costituzionali su cui si fonda il nostro Stato di diritto.

Ma questo problema non riguarda solo ciò che accade al di fuori dei confini nazionali. Si tratta di una questione molto più delicata perché riguarda anche ciò che si consuma quotidianamente nel nostro territorio dove insistono “zone franche” del diritto. Come per gli accordi libici, anche per il sistema di trattenimento amministrativo presso i Centri di Permanenza per il Rimpatrio si può sostenere che vi sia una pericolosa “svendita” dei diritti fondamentali in nome di un generico principio securitario tutto da provare. I Centri di Permanenza per il Rimpatrio e il trattenimento amministrativo favoriscono la sistematica violazione dei diritti delle persone detenute. Si tratta di violazioni palesi che riguardano sia il trattenimento vero e proprio all’interno delle strutture sia la fase processuale. Mentre i nostri padri costituendi avevano ben presenti gli orrori che il potere, anche quello legittimamente acquisito, potevano determinare e davano grande peso al sistema delle libertà come argine agli abusi dello Stato e dei suoi apparati burocratici. Nell’attuale legislatore questo ricordo è ormai scemato e i risultati sono sotto gli occhi di tutti con il prevalere di istanze securitarie che ci portano a considerare legittime alcune odiose privazioni delle libertà individuali. Il trattenimento amministrativo rientra a pieno diritto in questo contesto giustificando una perdurante restrizione in “vinculis” di cittadini stranieri in attesa della loro espulsione o del riconoscimento di un permesso di soggiorno.

Un istituto che, nonostante le numerose rivisitazioni, continua a rimanere una misura restrittiva della libertà personale particolarmente odiosa e invadente sia per la durata che per le modalità con cui viene esercitata. Strutture fatiscenti, sovraffollamento, mancanza di luoghi di socializzazione e ricreativi, ridotte possibilità di movimento e di comunicazione con il mondo esterno, sono tutti elementi che rendono sicuramente particolarmente gravosa la permanenza nei Cpr. Ma sono tanti i problemi che si possono riscontrare nella realtà e che riguardano, ad esempio, l’inadeguatezza delle cure mediche somministrate, la fragilità dei sistemi di sostegno psicologico previsti, le carenze di personale qualificato, la frustrazione del personale di polizia adibito a mansioni di controllo e vigilanza con enormi difficoltà logistiche e operative.
D’altra parte, è innegabile che esiste anche un problema che attiene alla fase di controllo giurisdizionale della legittimità dei provvedimenti della Questura con i quali viene disposta l’espulsione dello straniero, il trattenimento presso un Cpr e la proroga del trattenimento.

Troppo spesso, i giudici appaiono meri esecutori di una volontà politica e non tutori della legge.

Accade così che il procedimento di convalida del trattenimento (e le eventuali successive proroghe) è un procedimento in cui la difesa ha le armi spuntate. Una lotta impari contro lo Stato italiano in assenza di terzietà e di imparzialità di chi è chiamato a giudicare. Anche nelle aule di Tribunale sembra prevalere l’interesse al generale funzionamento della macchina burocratica che il rispetto dei diritti delle persone private delle loro libertà.
Tutto questo deve invitare ad una più attenta riflessione perché è in atto una pericolosa deriva del nostro sistema normativo, amministrativo e giurisdizionale. Di fronte a questa deriva, abbiamo il dovere di chiederci che modello di società stiamo realizzando e quale impegno intendiamo portare avanti. Continuare a ignorare queste domande non fa altro che consentire ad altri di decidere al posto nostro.

Avv. Arturo Raffaele Covella

Foro di Potenza.
Sono impegnato da anni nell’ambito della tematica del diritto dell’immigrazione, con particolare attenzione alla protezione internazionale e alla tutela dei lavoratori stranieri. Collaboro con diverse associazioni locali che si occupano di migrazioni. Scrivo per diverse riviste.