Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
/

CPR. Chiusura temporanea dell’Ospedaletto di Torino

Ma quel luogo di isolamento e segregazione estrema non sarebbe mai dovuto esistere

Photo credit: Fabrizio Maffioletti (4 giugno 2021 manifestazione davanti alla Prefettura dopo la morte di Moussa Balde

Con una nota dell’8 settembre 1 il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà ha, con soddisfazione, comunicato la chiusura dell’area cd. Ospedaletto del C.P.R. di Torino; nel rapporto sulla visita effettuata presso il centro il 14 giugno il Garante aveva, infatti, evidenziato come l’alloggiamento all’interno delle celle dell’Ospedaletto potesse ritenersi configurare un trattamento inumano e degradante, e ne aveva richiesta l’immediata e definitiva chiusura.

Forse la maggiore criticità evidenziata dal Garante nel suo rapporto sul C.P.R., anche se non certo l’unica. Chiusura (temporanea, come si preciserà), peraltro, che è probabilmente anche conseguenza delle indagini che la Procura della Repubblica di Torino ha avviato sul C.P.R. dopo il suicidio di Moussa Balde, a fine maggio 2.

Infatti, l’Ospedaletto è (era?) l’area di “isolamento” del C.P.R. di Torino dove, nel maggio scorso, si era suicidato Moussa Balde, fermato a Ventimiglia dopo aver subito una brutale aggressione 3 e “trattato” solo come clandestino da smaltire, da allontanare dal “consesso civile4.

Ma era anche l’area dove, nel luglio del 2019, morì Faisal Hussein dopo quasi sei mesi ininterrotti di isolamento, anche lui solo un clandestino da mettere al margine, da nascondere perchè non gradito (aveva, peraltro, chiari segni di forte disagio psichico); e dove decine o forse centinaia di migranti sono stati trattenuti, per periodi più o meno lunghi (da qualche giorno sino a tutti i mesi di trattenimento), sia per motivi sanitari (per sospette infezioni da scabbia, come Moussa, o per altre patologie magari psichiatriche, che avrebbero forse giustificato una valutazione di inidoneità al trattenimento), ma anche per motivi di ordine pubblico (perchè “difficili”, o agitati, o con disturbi psichici che non ci si deve dare il fastidio di affrontare), o magari anche punitivi (perchè avevano partecipato ad una rivolta o protestato).

In realtà da qualche settimana quell’area non era, di fatto, utilizzata; l’ultimo a lasciarla è stato, a inizio agosto, un uomo pakistano di 52 anni, con evidenti problematiche psichiatriche (non parlava e non rispondeva ad alcuno stimolo; si trascinava indossando sempre, nonostante il caldo, un giubbotto imbottito), “catturato” a Ventimiglia il 7 aprile e rilasciato solo dopo quattro mesi, anche per lui trascorsi sempre in isolamento.

Perché il significato ultimo, il senso “politico” di questi trattenimenti è spesso il medesimo. Nonostante quel che prevedono la legge e le direttive dell’Unione (che consentono la detenzione amministrativa solo quando essa sia effettivamente utile per procedere all’espulsione, e impongono il rilascio quando non vi siano concrete prospettive di poter eseguire il rimpatrio): non essere funzionali ad un rimpatrio, che molto spesso sin da subito si palesa come impossibile (si trattengono soggetti che dovrebbero essere espulsi verso paesi dove da anni non si riesce ad eseguire un rimpatrio).

Nella prima fase della pandemia, al C.P.R. di Torino sono state trattenute persone “catturate” a inizio marzo del 2020, quando le frontiere iniziavano a chiudere, e che sin da subito era chiaro a tutti che non si sarebbero potute rimpatriare.
Nonostante questo sono state inutilmente detenute per sei mesi, in un luogo utilizzato come alternativa al carcere quando non vi sia un reato, discarica sociale di clandestini non più funzionali al mercato del lavoro nero o il cui trattenimento è “necessario” per dimostrare che le regole vanno rispettate (dagli altri però, non da chi gestisce la cosa pubblica e decide della vita delle persone).

E sono molti, tra questi “rifiuti” che si vogliono almeno per un po’ allontanare dai nostri centri abitati (non a caso la detenzione amministrativa era molto amata anche da chi ha inventato inizialmente il Daspo urbano, così come da chi ne ha poi esteso l’utilizzo), ad essere finiti nell’Ospedaletto, avendo patologie psichiche che se non riconosciute o trattate potevano solamente essere isolate.

Un’area di isolamento che non è in alcun modo prevista e/o regolamentata (come ha evidenziato anche il Garante): il testo unico sull’immigrazione, così come il regolamento di attuazione, non fanno alcun riferimento ad aree di possibile isolamento all’interno dei C.P.R. Anzi, il regolamento di attuazione specifica che il trattenimento può avvenire solamente o presso i C.P.R. o in luoghi di cura ove lo straniero sia ricoverato per urgenti necessità di soccorso, così facendo intendere che il soccorso sanitario e le cure debbano avvenire all’esterno, in strutture idonee, e non all’interno dei Centri di Permanenza.

Solo un decreto ministeriale del 20 ottobre 2014, pomposamente chiamato “Regolamento recante criteri per l’organizzazione e la gestione dei centri di identificazione ed espulsione” fa un cenno alla possibile individuazione di “stanze di osservazione sanitaria”, dove il trattenuto potrebbe essere collocato unicamente quando vi siano elementi che possano determinare l’incompatibilità con il trattenimento, e per il solo tempo necessario affinché intervenga un medico dell’ASL o dell’azienda ospedaliera che possa accertare se vi sia tale incompatibilità.

Al di là della considerazione che intervenire in materia di regolamentazione della limitazione della libertà personale (massimo dei diritti sanciti dalla Costituzione, che stabilisce una assoluta riserva di legge in materia) con un semplice decreto ministeriale è sintomo dell’assoluto spregio per la dignità dei migranti trattenuti che connota il nostro sistema, non può non riconoscersi come anche questo minima regolamentazione (di infima fonte normativa) sia stata calpestata.

Infatti, la disposizione del “Regolamento” non consente un “isolamento”, ma solo una osservazione per motivi sanitari, per periodi di tempo estremamente limitati (l’attesa dell’intervento di un medico esterno che possa decidere se il trattenimento debba interrompersi o possa proseguire).

L’isolamento così come per anni attuato a Torino non era – perché strutturalmente non poteva, e non voleva comunque esserlo – una breve osservazione sanitaria (il luogo, non collegato da sistema di videosorveglianza con il corpo centrale, è il più lontano dall’infermeria di tutto il Centro), era utilizzato per periodi di tempo anche coincidenti con l’intero periodo di trattenimento, veniva disposto per motivi di isolamento sanitario (a volte), o in una logica manicomiale nel “non gestire” soggetti che palesino disagio psichico o, peggio, psichiatrico (che venivano solo isolati dagli altri e abbandonati in quel luogo), o (ancor peggio) per motivi punitivi o di ordine pubblico.

Tutto questo senza neanche riconoscere la necessità che quella decisione fosse formalmente adottata in forma scritta, motivata, in qualche modo impugnabile (anche in questo caso denotando il totale disinteresse per quei principi minimi di rispetto della dignità in primis e dei diritti basilari di difesa in seconda battuta dei migranti).

Un luogo di segregazione estrema, all’interno del campo di detenzione. Un qualcosa di ben peggiore di quanto accade in carcere, dove anche le sanzioni sono regolamentate, così come l’isolamento, e dove è un magistrato a dover giudicare sulla legittimità di quanto accade all’interno.

E che l’uso di questo luogo, non previsto da alcuna normativa e chiamato “ospedaletto” per tentar di dargli una legittimità, non fosse solamente sanitario (come evocherebbe il nome) ma anche e soprattutto punitivo o comunque destinato ad isolare alcuni soggetti era stato candidamente ammesso da personale del centro stesso, che sentito in un processo a carico di un trattenuto che aveva danneggiato la cella di isolamento dove era richiuso, aveva detto che certo, quando un trattenuto è particolarmente agitato magari si decide di metterlo lì.

Certo, questo non è l’unico caso di privazione della libertà personale al di fuori delle regole (o in mancanza di una norma che la consenta). Si pensi ai trattenimenti del tutto illegittimi nelle navi quarantena (in cui una detenzione etnica viene “travestita” da isolamento sanitario, o meglio una questione sanitaria viene strumentalizzata a fini di contrasto all’immigrazione e ai migranti), ma ciò non significa certo che si debba accettarla o che a queste violazioni ci si debba rassegnare: esse continuano ad avere delle norme nel codice penale che le definiscono (dal sequestro di persona ai maltrattamenti).

Quanto all’Ospedaletto del C.P.R. di Torino 5, ciò che allarma è che il Ministero dell’Interno ha comunicato al Garante (sul cui sito sono pubblicati, oltre alla nota del Garante medesimo, le relazioni del Ministero dell’Interno e della Prefettura di Torino in risposta alle osservazioni dell’organo di garanzia 6) la “temporanea sospensione dell’utilizzo”, non la sua chiusura, e la richiesta al Provveditorato alle opere pubbliche di interventi strutturali migliorativi.

Ma non è e non può essere questo il punto: eliminare alcune macro violazioni dei diritti minimi (come il piccolo cortiletto che c’è davanti ad ogni stanza dell’ospedaletto, una vera e propria gabbietta con le sbarre anche a coprire la vista del cielo; o come la mancanza di porte che separino i servizi igienici con la zona in cui si dorme e si consumano i pasti, caratteristica comune all’ospedaletto e alle altre aree del C.P.R. di Torino), o dotare le stanze di telefoni pubblici (nel centro i trattenuti vengono privati del loro cellulare, e possono chiamare l’esterno, ma non possono evidentemente ricevere chiamate, solo mediante l’utilizzo di costosi telefoni a scheda – un tuffo nel passato delle vecchie cabine telefoniche, che sopravvivono in Italia forse solo in questi non luoghi; orbene, l’area degli ospedaletti ne era priva, con il conseguente ulteriore isolamento dei detenuti), e magari di circuiti di sorveglianza collegati con l’infermeria (come già evidenziati sino ad oggi non vi è alcun collegamento, tanto che all’interno di queste stanze, come tragicamente avvenuto, si può “tranquillamente” morire), non vale a renderli legittimi.

Sino a che continuerà a non esserci un regolamento della detenzione nei C.P.R. (che non sia una nota del Ministro che nulla vale nella gerarchia delle fonti del diritto e che giammai, se si volesse rispettare la Costituzione, può regolare una privazione della libertà personale), sino a che esisterà un isolamento che non ha regole, sino a che verranno calpestati i diritti dei migranti trattenuti, si continuerà ad essere in presenza di trattamenti inumani e degradanti, di trattenimenti illegittimi, di sequestri di persona, di maltrattamenti.

E proprio questo che, evidentemente, il Ministero non ha compreso: non si tratta, qui, di mettere dei geranei alle finestre blindate, o di dare una mano di tinta dentro le stanze di detenzione, ma di ricondurre a legalità ciò che è già “nato illegale”. E ricondurlo a legalità, rebus sic stantibus e in presenza di questa normativa e di questa Costituzione, può avere solo un significato: chiudere definitivamente quell’area e tutti quei luoghi che si pongono strutturalmente al di fuori delle regole.

  1. Chiuso l’Ospedaletto del Cpr di Torino: accolta la Raccomandazione del Garante nazionale
  2. Dopo il suicidio di Moussa Balde il 4 giugno 2021 si è svolta una manifestazione promossa dai giuristi piemontesi davanti alla Prefettura
  3. Il video
  4. Leggi anche: Morire in CPR nell’indifferenza delle istituzioni, di Gianluca Vitale pubblicato su volerelaluna il 14.06.2021
  5. Per approfondire si consulti “Il libro nero del Cpr di Torino” a cura di Asgi, un documento assemblato tra il 27 maggio e il 1° giugno 2021 a seguito del decesso di Moussa Balde ed è stato presentato in occasione della manifestazione “Il CPR di Torino è una ferita nello stato di diritto” del 4 giugno 2021
  6. Rapporto sulla visita effettuata il 14 giugno 2021 nel Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Torino