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Grecia, un anno dopo il rogo di Moria

di Anna Clementi e Diego Saccora, Lungo la rotta balcanica

Photo credit: Aegean Boat Report (19 settembre 2020)

Mai più Moria” aveva falsamente promesso Ylva Johansson dopo il terribile incendio scoppiato nella notte tra l’8 e il 9 settembre 2020 che aveva completamente carbonizzato il campo di Moria sull’isola di Lesvos e costretto alla fuga oltre 12.000 persone.

Mai più Moria” avevano proclamato i massimi esponenti dell’Unione Europea mentre chiudevano gli occhi sulla violenza della polizia greca e dei gruppi di estrema destra che per oltre dieci giorni avevano tenuto intrappolate centinaia di donne, uomini e bambini costringendoli a dormire all’addiaccio e privandoli dei più basilari aiuti umanitari.

Mai più Moria” era lo slogan dell’Europa mentre lasciava che venisse costruito un nuovo campo emergenziale subito rinominato Moria 2.0.

Mai più Moria” urlavano e continuano a urlare gli attivisti, i volontari e i tanti operatori delle Ong denunciando le disastrose condizioni fisiche e psicologiche in cui da anni le persone in movimento sono costrette a vivere. Un piano, un approccio, un metodo mascherati dietro parole come “emergenza” e “crisi umanitaria” per sfinire le persone, per tenere le loro vite in costante attesa, neutralizzandole e rubando loro sogni, speranze, anni di vita, presente e futuro.

A un anno dall’incendio che ha distrutto il campo, migliaia di persone vivono in una nuova Moria a pochi chilometri di distanza dal vecchio campo tra fango, polvere e una costante e deliberata mancanza di servizi e beni di prima necessità.

Nel frattempo sono state chiuse le uniche strutture di Lesbo che tentavano di fornire un’accoglienza degna alle persone e nelle cinque isole dell’Egeo sono stati progettati, col supporto economico di 250 milioni di euro da parte della Commissione Europea, campi detentivi chiusi come unico modello di “accoglienza” dei migranti.

Inoltre nella Grecia continentale è iniziato un processo di securitizzazione dei campi: telecamere, droni, cancelli d’ingresso con videocamere termiche e muri di cemento alti oltre tre metri a togliere persino la vista dell’orizzonte. Costi ingenti – si parla solamente per i muri di oltre 28 milioni di euro – che verranno coperti per il 75% dall’ISF, il Fondo europeo per la sicurezza interna.

Intanto il governo ellenico continua a minare i diritti dei richiedenti asilo: ha chiuso il programma di accoglienza per le persone più vulnerabili lasciando per strada centinaia di famiglie; ha tolto l’assistenza monetaria a tutti coloro che non vivono nei campi; ha ridotto la possibilità di accesso alla sanità ai più vulnerabili; ha criminalizzato ogni forma di rivendicazione politica da parte delle persone in movimento e ogni tentativo di solidarietà da parte della società civile e ha eliminato e oscurato scomodi testimoni di quanto avviene in questi luoghi di confinamento.

In Grecia migliaia di persone sopravvivono senza alcun mezzo di sussistenza, in attesa di un documento che permetta loro di lasciare il Paese, sfruttati e ricattati, in una perenne attesa col costante timore di essere detenuti, arrestati e deportati.

A quando la prossima “emergenza“?

Anna Clementi e Diego Saccora, Lungo la rotta balcanica