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La drammatica attualità del caso Khlaifia

Lo Stato italiano non ha ancora introdotto disposizioni per colmare i vuoti legislativi continuando a detenere persone

Foto tratta da Open Migration

Dal 30 novembre al 2 dicembre si riunisce il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa per decidere se l’Italia abbia dato o meno attuazione alle prescrizioni contenute nella sentenza Khlaifia c. Italia della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU). Un procedimento che ha visto e vede tuttora la società civile italiana impegnata in prima linea.
L’articolo è tratto da Open Migration – 22 novembre 2021.


Nel 2016, la CEDU aveva condannato l’Italia per la detenzione arbitraria di cittadini stranieri nel Centro di soccorso e prima accoglienza (Cspa) di Contrada Imbriacola (oggi hotspot) a Lampedusa e a bordo delle navi Vincent e Audacia e per l’assenza di mezzi di ricorso effettivo contro tale trattenimento e le sue condizioni.

Lo Stato italiano, dal 2016 ad oggi, non ha ancora introdotto disposizioni per colmare i vuoti legislativi continuando a detenere persone (compresi minori e vulnerabili) senza la convalida di un giudice, senza la possibilità per i detenuti di poter incontrare un avvocato o poter contestare le condizioni di detenzione.

Interno hotspot Lampedusa, estate 2021 Inlimine

Detenzioni che a volte si protraggono anche per un mese in condizioni disumane e degradanti, nonostante i trattenuti siano spesso persone che hanno subito torture nei lager libici e portatori di gravi patologie, come denunciato da MSF lo scorso settembre.

Esterno hotspot Lampedusa, estate 2021 Inlimine

Nonostante la sentenza di condanna sia del lontano 2016, ancora oggi in Italia continuano ad esservi luoghi di privazione arbitraria della libertà personale dei cittadini stranieri in arrivo sul territorio italiano, come avviene negli hotspot. Tale detenzione avviene ancora senza una chiara base legale, senza un atto scritto adottato dall’autorità competente e convalidato da un giudice, in assenza di un termine massimo di detenzione e senza fornire adeguata informativa sui motivi della detenzione, in aperta e grave violazione dell’art. 13 della Costituzione e delle garanzie previste dall’art. 5 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo.

Già nel 2018 la società civile italiana aveva denunciato la mancata attuazione della sentenza Khlaifia, depositando nuovi ricorsi simili alla CEDU e pubblicando un dossier di testimonianze presentato alla Camera dei Deputati il 10 aprile dello stesso anno ed un report.

Alcune ONG (tra le quali CILD, ASGI e A Buon Diritto) hanno anche attivamente partecipato al procedimento di supervisione dell’attuazione della sentenza – di competenza del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa – depositando una decina di memorie da luglio 2018 ad oggi per dimostrare che il Governo italiano non ha fatto il resto di niente per porre fine alla sistematica violazione dei diritti umani in questi non luoghi.

Un elenco esaustivo degli interventi della società civile nella procedura di supervisione:
- Comunicazione Progetto In Limine 16 luglio 2018
- Comunicazione ASGI 20 febbraio 2019
- Comunicazione ASGI e A Buon Diritto Onlus 13 agosto 2019
- Comunicazione AIRE, DCR, ECRE, ICJ 5 settembre 2019
- Comunicazione CILD 28 febbraio 2020
- Comunicazione ASGI e A Buon Diritto Onlus 27 gennaio 2021
- Comunicazione CILD 27 gennaio 2021
- Comunicazione ASGI, A buon Diritto e CILD e replica del Governo italiano del 28 ottobre 2021
- Comunicazione ASGI, A buon Diritto e CILD e replica del Governo italiano del 12 ottobre 2021

Per quanto riguarda l’assenza di un rimedio efficace per contestare le condizioni di detenzione, le possibilità prospettata dal Governo di fare reclamo in un procedimento d’urgenza presso il Tribunale ordinario e di chiedere un risarcimento economico sono state messe in discussione dalla società civile. Di conseguenza il Comitato, nella sessione del marzo 2021, in linea con quanto osservato dalle associazioni, ha richiesto alle autorità italiane di fornire decisioni giudiziarie in grado di dimostrarne l’efficacia, specificando che in mancanza di tale prova vi è la necessità improrogabile di adottare misure che garantiscano rimedi giurisdizionali per contestare le condizioni di detenzione. Ebbene il Governo italiano, anche nell’ultima comunicazione di ottobre 2021, non è stata in grado di produrre neanche un precedente giudiziario relativo agli hotspot. Ciò in quanto il mancato accesso degli avvocati presso l’hotspot comporta l’impossibilità per i trattenuti di poter essere assistiti dai propri difensori per reclamare i propri diritti. Dunque, oltre all’inesistenza di rimedi ad hoc previsti per chi è trattenuto in hotspot, anche i rimedi generali citati dal Governo nelle comunicazioni al Comitato non sono mai stati utilizzati perché i trattenuti in hotspot non hanno accesso agli avvocati e, in definitiva, alla giustizia.