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Persecuzione per motivi di orientamento sessuale e valutazione della credibilità: la Corte ribadisce di non affidarsi a nozioni stereotipate

Corte di Cassazione, ordinanza n. 30390 del 29 ottobre 2021

Diritti LGBTQ+ (foto archivio)

Il richiedente cittadino nigeriano, dichiarava di essere stato costretto a lasciare il Paese per il timore di essere perseguitato in quanto omosessuale. La Corte d’appello di Bari riteneva inattendibile il racconto.

La Corte di Cassazione, ha ritenuto che l’orientamento sessuale del richiedente (nella specie, l’omosessualità) rappresenta un fattore di individuazione del «particolare gruppo sociale» la cui appartenenza, ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 251 del 2007, costituisce ragione di persecuzione idonea a fondare il riconoscimento dello status di rifugiato, pur se dedotta per la prima volta solo davanti al tribunale. (Sez. 6 – 1, n. 27437 del 29/12/2016). Inoltre, il primo comma dell’art. 19, d.lgs. 286/1998 vieta l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione anche per motivi di orientamento sessuale.

La Suprema Corte ha ribadito che per persecuzione deve intendersi una forma di lotta radicale contro una minoranza che può anche essere attuata sul piano giuridico e specificamente con la semplice previsione del comportamento che si intende contrastare come reato punibile con la reclusione; tale situazione si concretizza allorché le persone di orientamento omosessuale sono costrette a violare la legge penale del loro paese e a esporsi a gravi sanzioni per poter vivere liberamente la propria sessualità, sì che ben si può ritenere che ciò costituisca una grave ingerenza nella vita privata dei cittadini che compromette grandemente la loro libertà personale. Tale violazione si riflette, automaticamente, sulla condizione individuale delle persone omosessuali, ponendole in una situazione oggettiva di persecuzione, che deve essere verificata, anche d’ufficio, dal giudice di merito, e che è tale da giustificare la concessione della protezione (Sez. 6 – 1, n. 15981 del 20/09/2012; Sez. 1, n. 07438/2020).
L’allegazione da parte dello straniero della propria condizione di omosessualità impone al giudice di porsi in una prospettiva dinamica e non statica (Sez. 1, n. 09815/2020, cit.), nel senso che ha il dovere di accertare se lo Stato di provenienza non possa o non voglia offrire adeguata protezione alla persona omosessuale, ex art. 5, lett. c), d.lgs. n. 251 del 2007, e dunque se, considerata la concreta situazione del richiedente e la sua particolare condizione personale, questi possa subire, a causa del suo orientamento sessuale, ex art. 8, lett. d), n. 251 del 2007, una minaccia grave ed individuale alla propria vita o alla persona (Sez. 1, n. 11172/2020; v. altresì Sez. 1, n. 11176/2019).
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto che la Corte di merito, da un lato, nella valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente, ha omesso di seguire le cogenti regole di procedimentalizzazione di cui all’art. 3, comma 5, d.lgs. n. 251 del 2007 (v. Cass. 26921/2017,) affidandosi, peraltro su un terreno così sensibile come quello dell’orientamento sessuale, a indici di inverosimiglianza legati ad aspetti secondari o di dettaglio oppure a nozioni stereotipate associate alla omosessualità come vissuta in ambito nazionale (v. Cass. 23891/20; n. 9815/2020); dall’altro lato, e in conseguenza del giudizio di non credibilità, ha omesso qualsiasi indagine sul rischio di persecuzione per ragioni legate alla omosessualità nel Paese d’origine, come sarebbe stato invece doveroso in adempimento del dovere di cooperazione istruttoria.


Si ringrazia l’Avv. Mariagrazia Stigliano per la segnalazione e il commento.