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La morte di Abdel e il caso Khlaifia

Da 10 anni l’Italia viola i diritti umani negli hotspot e nei centri di detenzione

Fotografia tratta dal rapporto "Scenari di frontiera: il caso Lampedusa" (2018)

L’articolo è stato scritto in collaborazione con la Dott.ssa Eleonora Santoro*

Mentre il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha chiuso, lo scorso 2 dicembre, la supervisione dell’attuazione della sentenza Khlaifia c. Italia, il 24 novembre un Giudice di Pace ha decretato la nullità del respingimento di Abdel, il ragazzo morto legato su un letto di contenzione il 28 novembre, perchè mentre era a Lampedusa non aveva ricevuto l’informativa sulla possibilità di chiedere protezione internazionale e non gli era stato consentito di formalizzare domanda di asilo.

Il 15 dicembre 2016, la Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel caso Khlaifia c. Italia, ha riscontrato la violazione da parte dell’Italia dell’art. 5 Cedu, commi 1, 2 e 4, in relazione al trattenimento privo di base legale e di garanzie di tre cittadini tunisini trattenuti nel 2011, dapprima presso  Centro di soccorso e prima accoglienza (Cspa) di Contrada Imbriacola (oggi hotspot) a Lampedusa, e poi a bordo delle navi Vincent e Audacia, nonché la violazione dell’art. 13 Cedu 1, con riferimento all’art. 3 Cedu, in ragione dell’assenza di una procedura per poter presentare doglianze relative alle condizioni del trattenimento, a nulla rilevando il possibile ricorso al giudice di pace nei confronti del decreto di respingimento (rimedio utile a contestare la sola legittimità di tale provvedimento).

Una sentenza tristemente ancora attuale, se si considera che ancora oggi non è finanche prevista una convalida davanti ad un giudice per il trattenimento in hotspot e che non esistono rimedi giurisdizionali specifici – contrariamente a quanto avviene per chi è detenuto in carcere – per poter contestare le condizioni di vita in tali centri. Per capire l’attualità della sentenza Khlaifia c. Italia, basti pensare alla tragica morte di Abdel, il cittadino tunisino morto su un letto di contenzione lo scorso 28 novembre dopo essere passato per l’hotspot di Lampedusa, una nave quarantena e presso il CPR di Roma Ponte Galerie prima di finire in contenzione dapprima presso l’ospedale Grassi e infine presso l’ospedale di San Camillo di Roma. Anche Abdel è stato trattenuto in hotspot senza la convalida di un giudice e, da quello che è emerso finora, senza la possibilità di accedere alla domanda di protezione internazionale – poi formalizzata presso il CPR di Roma Ponte Galeria – tanto che il successivo 24 novembre è stato annullato il decreto di respingimento. Dunque, la totale assenza di diritti e garanzie negli hotspot è ancora attuale.

La decisione del Comitato

Ciò nonostante, il Consiglio D’Europa, nella riunione dello scorso 2 dicembre 2 ha sorprendentemente deciso la chiusura della procedura di esecuzione della sentenza Khlaifia c. Italia. Più nello specifico, rispetto alla necessità di adottare misure generali per evitare nuove violazioni dell’art. 5, commi 1, 2 e 4, CEDU, il Comitato (cui è affidata dall’art. 46, comma 2, CEDU la sorveglianza dell’esecuzione delle sentenze) ha rilevato che, a seguito degli interventi legislativi adottati dalle autorità italiane, l’attuale quadro normativo: a) fornisce una base giuridica chiara e accessibile per la detenzione amministrativa dei migranti nei centri di accoglienza; b) richiede alle autorità di fornire informazioni alle persone interessate sui loro diritti e sui motivi della loro detenzione; c) prevede un controllo giurisdizionale automatico della legittimità di qualsiasi decisione di trattenimento. Con riguardo alla violazione dell’art. 13 CEDU rispetto all’art. 3 CEDU, inoltre, ha ritenuto che la combinazione di rimedi civilistici preventivi e risarcitori di cui all’art. 700 c.p.c. e all’art. 2043 c.c. indichi with a sufficient degree of certainty che il migrante detenuto possa sottoporre a un’autorità giudiziaria nazionale denunce relative alle proprie condizioni di vita e ottenere un adeguato risarcimento, qualora tali condizioni raggiungano la soglia di gravità richiesta per qualificarsi come trattamento inumano o degradante.

Alla luce di ciò, il Comitato ha ritenuto che lo Stato italiano abbia adottato i provvedimenti necessari ai sensi dell’art. 46, comma 1, CEDU e che, conseguentemente la procedura di esecuzione dovesse dichiararsi conclusa, fermo il monito nei confronti delle autorità italiane a tenere in adeguata considerazione le preoccupazioni espresse dalla società civile, sottolineando l’importanza di un continuo dialogo con quest’ultima e con il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, affinché si adottino tutte le misure necessarie per garantire una rigorosa e coerente applicazione del nuovo quadro giuridico.

Una decisione di natura politica (il Comitato è espressione dei Governi degli Stati che compongono il Consiglio d’Europa e non un organo giurisdizionale) ma senza alcuna base giuridica. Lo Stato italiano continua infatti a non prevedere diritti e garanzie nel sistema hotspot.

La supervisione dell’attuazione della sentenza Khlaifia ed il ruolo della società civile

Prima di analizzare nel dettaglio le ragioni che portano a tale conclusione è opportuno rammentare che la sentenza Khlaifia c. Italia non è una sentenza pilota, dunque non contiene un accertamento esplicito della natura strutturale della violazione e non formula alcuna indicazione circa la necessità di adottare misure rimediali generali a livello nazionale. Si tratta di una violazione strutturale “invisibile3, cioè non rilevata ex professo nel dispositivo della sentenza, ma implicita nell’accertamento ivi contenuto. Tuttavia, in sede di controllo sull’esecuzione delle sentenze il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha autonomamente rilevato la natura strutturale di tali violazioni e ha previsto una procedura di controllo “rafforzato” data la natura dei “complex problems”, che venivano in rilievo nel caso, identificato dal Comitato stesso come leading case

Per i casi sottoposti alla supervisione rafforzata, il Comitato dei Ministri svolge un ruolo attivo nel monitoraggio dell’esecuzione, in particolare attraverso la revisione dei casi in occasione dei Committee of Ministers’ Human Rights Meetings. Proprio nella recentissima riunione trimestrale svoltasi dal 30 novembre al 2 dicembre, il Comitato si è occupato dell’esecuzione della sentenza Khlaifia, dovendo decidere se le misure adottate dal Governo italiano abbiano o meno risolto le carenze rilevate dalla Corte Edu, se esse siano cioè idonee a prevenire la reiterazione delle infrazioni accertate. Prima di analizzare le determinazioni assunte, è doveroso un breve excursus sullo stato di esecuzione ed il ruolo attivo che ha avuto la società civile in questo procedimento.

Nel marzo del 2019, il Comitato aveva manifestato delle perplessità, nonostante gli interventi posti in essere dallo Stato italiano (prima con il c.d. Decreto Minniti, poi con il c.d. Decreto Salvini), con riguardo alle tutele legali che accompagnano la detenzione amministrativa dei migranti nei centri di accoglienza e  alla mancanza di un ricorso effettivo per lamentare le condizioni di tale detenzione. In particolare, era stata rilevata l’esistenza di una base legale per la detenzione negli hotspot dei richiedenti protezione internazionale, ma venivano richieste ulteriori precisazioni circa i motivi giustificativi di tale detenzione, nonché sulle garanzie informative riconosciute ai migranti e sulla possibilità di prevedere la detenzione in queste strutture anche per i non richiedenti protezione internazionale e, in caso affermativo, a quali condizioni. Per quanto riguarda il secondo aspetto, si rilevava invece la persistente assenza nel sistema giuridico nazionale di un rimedio effettivo per contestare le condizioni di detenzione all’interno degli hotspot. Fermo che, si prendeva atto delle risposte del Governo, il quale – senza alcun imbarazzo –  sosteneva la possibilità di fare reclamo in un procedimento d’urgenza presso il Tribunale ordinario (art. 700 c.p.c.) e di chiedere un risarcimento economico ai sensi delle disposizioni del codice civile sulla responsabilità extracontrattuale (art. 2043 c.c.).

Il Comitato dei Ministri, nella sessione del marzo 2021, in linea con quanto osservato dalle associazioni CILD, ASGI e A Buon diritto, ha richiesto alle autorità italiane di fornire decisioni giudiziarie in grado di dimostrarne l’efficacia del rimedio, specificando che in mancanza di tale prova vi è la necessità improrogabile di adottare misure che garantiscano rimedi giurisdizionali per contestare le condizioni di detenzione. Ebbene il Governo italiano, anche nell’ultima comunicazione di ottobre 2021, non è stata in grado di produrre neanche un precedente giudiziario relativo agli hotspot. Ciò in quanto il mancato accesso degli avvocati presso l’hotspot comporta l’impossibilità per i trattenuti di poter essere assistiti dai propri difensori per reclamare i propri diritti. Dunque, oltre all’inesistenza di rimedi ad hoc previsti per chi è trattenuto in hotspot, anche i rimedi generali citati dal Governo nelle comunicazioni al Comitato non sono mai stati utilizzati perché questi soggetti non hanno accesso agli avvocati e, in definitiva, alla giustizia. In relazione alla mancanza di una base giuridica, alla mancata informazione e all’assenza di controllo giurisdizionale per quanto riguarda la detenzione dei cittadini stranieri nei centri di prima accoglienza, il Comitato si è riservato, lo scorso marzo, di analizzare l’attuale quadro legislativo delineato nella memoria del governo del febbraio scorso dove si sostiene che con il c.d. Decreto Lamorgese (ed ancor prima con i cc.dd. Decreto Salvini e Decreto Minniti) si sia data piena attuazione alla sentenza Khlaifia. Tuttavia, come puntualmente osservato dal Garante nazionale per i diritti delle persone private libertà personale, il Decreto Lamorgese non contiene aspetti innovativi per gli hotspot, limitandosi ad innovazioni relative ai soli Centri di Permanenza per il Rimpatrio.

La difesa del Governo italiano

Nelle ultime comunicazioni al Comitato il Governo ha sostenuto, con riguardo al ricorso effettivo sulle condizioni di detenzione, che la procedura di esecuzione della sentenza Khlaifia doveva essere chiusa in ragione, non solo dei rimedi generali sopra richiamati, ma anche in virtù dell’introduzione del meccanismo di reclamo che i migranti trattenuti possono rivolgere al Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (e ai garanti regionali/locali) per contestare le modalità esecutive della misura restrittiva 4. Come anticipato, il Comitato ha chiuso la procedura ritenendo tale intervento legislativo sufficiente.

Al contrario, lo strumento di nuova introduzione è un rimedio di carattere preventivo, rivolto nei confronti di un’autorità di garanzia e non giurisdizionale – il Garante – la quale ha il solo potere di inibire la condotta dell’amministrazione attraverso la formulazione di una raccomandazione, con cui eventualmente fornire degli standard per superare le criticità generalmente riscontrate. E’ evidente, dunque, il persistente vuoto dal punto di vista compensativo nei confronti di coloro che hanno già subito una violazione, per i quali la detenzione negli hotspot non è più attuale. In questo senso è importante ricordare come, in altri casi, si pensi al caso Torreggiani e altri c. Italia, la Corte Edu abbia a chiare lettere affermato che i rimedi preventivi e quelli compensativi debbano coesistere in modo complementare, cosicché sia assicurata non solo la rapida cessazione della violazione del diritto a non subire trattamenti inumani e degradanti, ma anche di poter ottenere una riparazione per la violazione subita 5. Ragion per cui il governo italiano ha introdotto, con il decreto legge n. 146 del 2013 (c.d. decreto “svuota-carceri”), successivamente convertito nella l. n. 10 del 2014, due strumenti processuali di tutela giurisdizionale delle posizioni giuridiche soggettive dei detenuti: il reclamo giurisdizionale disciplinato dagli artt. 35-bis e 69 o.p., e il rimedio risarcitorio dell’art. 35-ter.

Conclusioni

Questa lunga stagione sembra essere arrivata al suo ultimo episodio con la decisione assunta dal Comitato dei Ministri nella riunione del 2 dicembre 20216: la chiusura della procedura di esecuzione. Una decisione irrispettosa dei diritti delle migliaia di persone che sono transitate negli hotspot dal 2011 ad oggi senza garanzie e diritti. Una decisione che rischia di fornire ulteriori alibi al Governo italiano che fino ad oggi ha soltanto simulato di introdurre riforme volte a fornire garanzie e diritti per chi finisce negli hotspot e negli altri luoghi della detenzione amministrativa non per aver commesso un reato, ma soltanto perchè colpevoli di viaggio. Nonostante questo arresto, la società civile ha il dovere di continuare a chiedere il definitivo superamento della detenzione amministrativa e, nelle more, pretendere che la detenzione amministrativa sia assistita da garanzie almeno pari a quelle previste per la detenzione in carcere. 

* Dottoranda in Diritto Costituzionale Università di Firenze, volontaria area legale CILD

  1. «Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella (…) Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali.»
  2. Resolution CM/ResDH(2021)424
  3. Per tale definizione v. A. SACCUCCI, La responsabilità internazionale dello Stato per violazioni strutturali dei diritti umani, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018, 42.
  4. Il decreto-legge 21 ottobre 2020, n. 130, convertito con l. 18 dicembre 2020, n. 173, ha inserito la lettera f bis, nel comma 5 dell’art. 7 del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146, la quale prevede che il Garante «formula specifiche raccomandazioni all’amministrazione interessata, se accerta la fondatezza delle istanze e dei reclami proposti dai soggetti trattenuti nelle strutture di cui alla lettera e). L’amministrazione interessata, in caso di diniego, comunica il dissenso motivato nel termine di trenta giorni». Il legislatore è intervenuto anche sul Testo Unico Immigrazione e sulla Legge istitutiva del Garante nazionale, inserendo la seguente disposizione: «Lo straniero trattenuto può rivolgere istanze o reclami orali o scritti, anche in busta chiusa, al garante nazionale e ai garanti regionali o locali dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale.»
  5. Corte Edu, Torreggiani e altri c. Italia, § 96, in https://hudoc.echr.coe.int/eng#%20
  6. https://search.coe.int/cm/Pages/result_details.aspx?ObjectID=0900001680a4b405