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«Muchas cosas»

Sui passi dei camminanti venezuelani e colombiani tra (im)mobilità e (in) sicurezza alla frontiera colombo-ecuadoriana

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Pubblichiamo la prima parte del reportage di Valentina che si trova in questi mesi in Ecuador.

Qui la seconda parte:

Il dolore degli altri, non mi sta in mano, e nemmeno in gola, più che altro sta nel petto, nella sua memoria
luogo schivo, che fa stazione, che scartavetra le fughe.
Chandra Livia Candiani, Fatti Vivo

Al confine internazionale tra Ecuador e Colombia, alla frontiera nord del territorio del Carchi, le sensazioni che si generano e che mi pervadono, lasciano immediatamente in secondo piano quelle di insicurezza suscitate previe all’arrivo. Vi sono giunta a piccoli passi, con prudenza, raggiungendo la città di Tulcan e intercettando quanto più potessi le probabilità di rischio e di “via libera” dall’ostilità frontaliera.

Dinanzi a me, a tracciare in linea d’area un rettangolo di cielo tra il mio corpo e il ponte, il gigantesco cartello che demarca il limite nazionale ecuadoriano da quello colombiano e nel mezzo, tra una prossimità del margine e l’altro, un forte senso di straniamento generale.

È la Frontiera, mi ripeto, un dispositivo architettato con l’intenzione di dare visibilità al limite ed eretta al limite con l’obiettivo di contenere i movimenti: un orizzonte visibilmente prossimo ma così distante da sentirsi braccati, un luogo di eccezionalità totale che traccia la soglia in cui il regime di controllo è costantemente vigile e funzionale. Il ponte Rumichaca unisce, o meglio dire, separa quello spazio limbico, mentre nel mezzo, un movimento ininterrotto di veicoli e di persone gravita per attraversare la barricata di protezione dello spazio di chiusura.

Come avevo appreso in precedenza da alcuni interlocutori, la frontiera istituzionale con la Colombia può costituire un luogo di particolare affluenza viva e attiva nel periodo natalizio, dovuto al rientro di molti migranti residenti in Ecuador desiderosi di riunirsi con le proprie famiglie per le festività.

Molti di essi possiedono la carta andina che permette il passaggio regolare dall’Ecuador alla Colombia, per cui le persone migranti attraversano il confine a piedi, raggiungendo le prime località di Ipiales o Las Lajas, per poi proseguire verso la propria meta. Ma in generale, per la maggior parte dei camminanti, che al contrario, sono in arrivo al confine con l’Ecuador, in transito dal Venezuela da settimane, non è altrettanto presumibile poter attraversare la frontiera militarizzata, senza essere in possesso di un Visa e il passaporto vigenti, per cui sono costretti a ricorrere le trochas – vie alternative estremamente pericolose tanto per la morfologia che presentano quanto per la presenza di pandillas, bandidos e trafficanti di droga e di persone lungo la rotta – per eludere i controlli ed entrare irregolarmente nel Paese.

Mi accingo, dunque, a varcare il ponte, sino al limite consentito, e l’impeto riflessivo che mi sovrasta al lasciar andare il respiro dopo averlo trattenuto a lungo, non riesce comunque a risollevarsi da quella sensazione di incompiutezza e spaesamento, perchè pervaso dalla profonda ingiustizia che regola la vita di chi tenta l’accesso senza avere la garanzia di riuscirci. Centinaia di giovani, e intere famiglie, provenienti dal Venezuela e dalla Colombia, a causa del deterioramento della situazione del Paese 1 e dell’impatto della pandemiada Covid-19, intraprendono – o continuano – ogni giorno il proprio viaggio a piedi verso l’Ecuador, spesso con l’obiettivo di raggiungere il Perù o il Cile dove sperano di ricongiungersi con familiari o amici e poter stabilirsi definitivamente.

Senza soldi, né piani di viaggio, si cammina dal Venezuela, attraversando la Colombia, per proseguire il cammino a sud, vagliando l’Ecuador solo come terra di passaggio. Ma il percorso è lungo e tortuoso, sempre più controllato e insicuro. La pandemia non ha che rafforzato il limite alle frontiere istituzionali bloccando l’entrata da qualsiasi passaggio, e anche a ridosso della natività, da quando il ponte Rumichaca è stato riaperto 2, l’accesso regolare continua a essere ristretto parziale e arbitrariamente.

Ponte Rumichaca, Tulcán, Diciembre 2021 “Somos montes, páramos, ríos, montañas y pastos”

Soli o per gruppi, muovendosi con gli zaini e la propria terra alle spalle, i camminanti fanno parte dei centinaia di migranti che entrano ogni giorno nel Paese attraversando la frontiera nord con la Colombia: Tulcan nel Carchi, San Lorenzo, nella regione di Esmeraldas e Lago Agrio, nella regione di Sucumbíos, sono i tre punti di entrata all’Ecuador, secondo i dati del Working Group for Refugees and Migrants (GTRM), coordinato dall’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur) e dall’Organizzazione mondiale per i diritti umani. Secondo le proiezioni del GTRM, fino alla fine del 2021 il numero dei venezuelani in Ecuador sarebbe salito a 522.500 di cui 90.000 hanno attraversato poi altre nazioni.

Tra Ecuador e Perùci sono ulteriori tre passaggi utilizzati dai migranti, tra cui Huaquillas, fortemente militarizzato, nel cantone de El Oro, Zapotillo e Macará nella regione del Loja. Perché nonostante le frontiere siano ufficialmente chiuse, il movimento delle persone da un Paese all’altro non si è mai arrestato, al contrario, aumenta l’affluenza verso i valichi frontalieri irregolari che a sua volta incrementano i rischi a cui i camminanti possono incorrere.

Secondo quanto riesco a interloquire con Luis Alberto Mora, rappresentante del Norwegian refugee council (NRC) nella città di Quito, scopro che, più a sud di Barranquilla, scendendo verso Pasto, alla frontiera sud colombiana, vi è un determinato punto montagnoso diroccato, estremamente pericoloso, per cui bisogna forzatamente salire in cima e poi riscendere, e che i camminanti attraversano al rischio della propria vita, a bordo di motociclette affidate a delle persone che li conducono fino in cima al costo di 5 dollari per persona.

Ma è il paramo di Berlin, nella regione di Santander, Colombia, il punto più duro e mortale dell’esodo venezuelano, un passaggio obbligato per gli erranti, los mochileros, come si auto definiscono. Situato a oltre 3mila metri di altezza dal livello del mare, il cammino si può estendere dalle 8 alle 10 ore senza sosta, poiché non è consentito rischiare che faccia buio per le estreme condizioni climatiche che presenta quando le temperature arrivano a scendere sotto lo zero. Molte persone hanno perso la vita, per ipotermia, nel tentativo di affrontare la traversata, altri hanno dovuto rinunciare al tentativo. Chi riesce a superarlo lo converte in un simbolo – tra altri – di libertà!

Ne è testimone la storia di due fratelli, Anderson e Wilker, figli dello stesso padre, in cammino dalla Colombia e dal Venezuela, che raccolgo poco prima di raggiungere la frontiera, nella citta di Tulcan. Anderson è il fratello maggiore, ha 20 anni e Wilker appena 18. Sono partiti da Barranquilla 9 giorni prima di Natale con l’obiettivo di attraversare tre paesi e raggiungere il Cile, in cerca di un lavoro per mandare il denaro alla famiglia.

Ci raccontano di come hanno raggiunto la frontiera con Tulcan camminando per trocha e montando su una delle “moto – trocha”, condotta da alcuni venezuelani. Il pedaggio costa 5 dollari ma, non avendo denaro con sé, hanno dovuto lasciare le proprie borse contenenti riserve di cibo. Gli domando se il viaggio è stato difficile, loro rispondono che continua a esserlo perché non è ancora concluso. Camminano da settimane, senza sapere dove dormire né mangiare. La notte precedente hanno cercato riposo nel parco Ayora, dove ci siamo incontrati, ma il freddo è lacerante. Un viaggio complesso, un inferno, a cui, però, non manca mai la “bendicion“, afferma Anderson.

Todavìa està difícil, no tenemos ni para dónde dormir ni comer ni nada, ¿si me entiendes? Pero a uno nunca le falta la bendición”.

Anderson indossa la sua camicia più bella, è l’unica che ha per proteggersi dal freddo. Sfoggia un’eleganza che contrasta con il resto del vestimento. Ha le scarpe avvolte in una busta di plastica che lo aiuta a filtrare e proteggere i piedi dall’umidità della notte:

Mucho frío, yo tengo esta camisa tan bonita pero me la tengo que poner, pues, para aguantar un poco el frío, terrible.”

Nos tocó’ migrar”, prosegue Wilker, “esta es la primera vez que yo viajo, asi.. de pais a pais.. como migrante..”.

Quest’ultima frase, mi risuona rafforzata nel tono, come a riscattare che prima di qualsiasi altra etichetta, non è che un giovane, in cerca di sogni. Sono giovanissimi e coraggiosi, non hanno paura; Wilker ha già guidato una moto nel Tachira, dove è cresciuto, porta dentro tutta l’adrenalina che servirà ad affrontare il viaggio: “La actitud es todo, si lo tomas de mal, pues te vas a quedar con la incógnita, nada más, si lo tomas de bien vas a aprender y así es, si ves las cosas positivas… pues, yo nunca estuve desanimado, ni pasando por el peor momento de mi vida, nunca estuve desanimado, no me gusta”.

Nunca estuve acostumbrado a quedarme en la calle, nada”, continua Anderson, “pero me tocó salir por la niña. Solo quiero trabajar”, insiste.

Cerco un centro rifugio che li possa ospitare la notte ma l’assistenza ai camminanti nella città di Tulcán può essere effettuata solo al di fuori del perimetro urbano. E ‘stata una risoluzione emanata, a ridosso dello scoppio della pandemia, dal Comitato per le operazioni di emergenza (COE), per evitare che i migranti entrassero nel centro urbano “massivamente” occupando spazi pubblici, come parchi e stazioni, per passare la notte, giustificata e legittimata dalle misure di prevenzione dei rischi di infezione da Covid-19.

Dopo un primo tentativo alla ricerca della casa rifugio, capiamo che non vi è posto per i cittadini colombiani, e che il servizio – solitamente gratuito per soli cittadini venezuelani – è ora a pagamento nei giorni festivi. Decidiamo, dunque, di incentivare il nostro aiuto affinché proseguano il loro viaggio lontano da lì. Li accompagniamo al terminal de buses, dove decine e decine di altre famiglie attendono di partire. Con o senza supporto umanitario, le persone che raggiungono le porte dell’Ecuador non hanno intenzione di restarci a lungo, ma proseguono il cammino verso il sud del Paese.

I due fratelli non hanno ben chiaro dove si trovi esattamente il Perù, ma sanno che il cammino è ancora molto lungo e insidioso. Lungo il tragitto diretto alla stazione, incontriamo una famiglia venezuelana numerosa, anch’essa in transito ma nel verso opposto, dal momento che sono tra le tante che fanno ritorno a casa per le feste. Chiedono monete o cibo, ma non faccio in tempo ad estrarre nulla dalla tasca che mi accorgo di quanto, ad essere nella stessa barca alle volte si evita di affondare: Anderson e Wilker aprono l’unica sacca che trainano con fatico con sé e porgono ai bambini dei biscotti. È proprio in questo momento che, sulle mura decadenti di una palazzina scorgo dinanzi a me la scritta Amor, cui A richiama quella anarchica. Che cos’è l’amore, se non anarchismo? Quando tutto va in direzione ostinata e contraria, resta tutto l’amorevole gesto altruista e solidale di chi sa superare ogni frontiera!

Siamo giunti alle porte di una nuova partenza, ci stringiamo in un singhiozzante abbraccio. Al separarci, avverto che quella sensazione di spaesamento in realtà non mi aveva abbandonata neppure una volta varcato il “di qua” della frontiera. Probabilmente me lo aspettavo esattamente così, il confine colombo-ecuadoriano, già conscia del fatto che sebbene ogni frontiera sia sempre in qualche modo ostile, quella esplicita è solo la meno pericolosa. Ciò che si cela, invece, dietro una frontiera politica non è visibile agli occhi di coloro che non devono affrontarla.

Buen aventura, hermanitos!

  1. Crisis de Venezuela: “El éxodo de los venezolanos es el mayor de Latinoamérica en los últimos 50 años“, BBC – 24 agosto 2018
  2. Ecuador y Colombia reabren frontera tras 20 meses de cierre, Voz de America – 15 dicembre 2021

Valentina Delli Gatti

Antropologa e attivista per la libertà di movimento e il supporto delle persone migranti.
Sono specializzata in migrazioni internazionali e indago il tema della mobilità e delle mobilitazioni migranti con particolare attenzione all’etnografia delle frontiere e le strategie di lotta nell’area euromediterranea e nel contesto sud e centro americano.
Sono operatrice del progetto Mem.Med per la ricerca e l'identificazione delle persone migranti scomparse.