Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
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«No asylum in Slovenia»

Tra stato di emergenza e stato di eccezione

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Il rapporto redatto da Infokolpa mette in luce le pratiche di respingimento e la progressiva erosione del diritto d’asilo in Slovenia. Ancora una volta, trovano conferma le strategie violente ed illegali della “guerra asimmetrica” contro le persone in movimento e in cerca di protezione, portata avanti dagli stati e dall’Ue in modo sempre più unitario e coerente.

Mappa delle zone di pushback a catena dal The Black Book of Pushbacks pubblicato da BVMN & GUE/NGL nel dicembre 2020. Ultimamente anche la zona più orientale del confine sloveno-croato, nella provincia di Koper, sembra essere ritornata luogo di transito, infatti in quella zona è morta la piccola curda.

Ogni tanto, una notizia di particolare tragicità accende i riflettori sul quotidiano scenario di soprusi, sofferenza e morte che sono i confini europei. L’11 dicembre anche i media mainstream sono stati scossi dalla morte di una bambina curdo-turca di 10 anni, annegata nel fiume Dragogna in piena mentre sulle spalle della madre stava attraversando le foreste nei pressi del confine sloveno-croato. Morta in Europa e “morta d’Europa”, come hanno titolato alcuni giornali – l’ennesima – mentre i vertici del paese sloveno sprecavano parole accusando la madre (che ora con il resto della famiglia si trova a Zagabria) di irresponsabilità. Forse, l’intrinseca innocenza di una bambina riesce ancora a generare empatia e a restituire un volto alle migliaia di persone che determinate bussano alle nostre porte, mentre le istituzioni statali ed europee impongono una nuova tassonomia – quella delle “minacce ibride” e della “guerra ibrida” – che i volti invece li vuole togliere. Sempre nella valle del Dragogna, pochi giorni prima, un uomo bengalese di 31 anni era morto per ipotermia, ma questa notizia era passata più in sordina. La terza vittima del mese di dicembre è invece un ragazzo turco di 22 anni, che ha perso la vita nello schianto del furgone su cui viaggiava che era inseguimento delle volanti della polizia, nei pressi di Lubiana.

Per chi frequenta le jungles (gli accampamenti informali) del cantone bosniaco di Una-Sana, non è nuova l’importanza del tassello sloveno nel mosaico del regime europeo del confine. Infatti, le persone in movimento bloccate tra Bihać e Velika Kladuša raccontano spesso di essere state respinte in Slovenia, per poi ritrovarsi nel giro di poche ore o giorni di nuovo in territorio bosniaco, a causa dei ben collaudati pushback a catena. Nei game, camminano nel buio per stradine e sentieri, nascondendosi di giorno per non essere avvistati, ma dopo 10 o 15 giorni la stanchezza del corpo e della mente rende più facile la caccia al migrante degli ufficiali sloveni. Quello che sappiamo sulle pratiche delle polizie lo dobbiamo a Border Violence Monitoring Network (BVMN), una rete di collettivi e associazioni che si occupa da anni di monitorare i respingimenti lungo le rotte balcaniche. Per quanto riguarda il territorio sloveno il sistematico lavoro di raccolta delle testimonianze dei pushback e delle violenze è portato avanti dal collettivo locale Infokolpa. Lo scorso settembre proprio Infokolpa ha pubblicato un report che ripercorre le principali linee di evoluzione del transito e delle politiche d’asilo in Slovenia negli ultimi due anni, che proveremo a riassumere alla luce dei recenti avvenimenti e del più ampio contesto balcanico ed europeo.

All’origine dei respingimenti collettivi

La Slovenia porta avanti con sistematicità la pratica dei respingimenti collettivi in Croazia dal giugno 2018, ovvero dall’ultimissima fase del governo di Miro Cerar. Dopo le elezioni del giugno 2018 sono cambiati due esecutivi, passando da quello di Šarec all’attuale guidato dal leader di estrema destra Janša, e nel frattempo la politica dei pushback è diventata la normalità. Cosa prevedibile dato che Janša ha vinto le elezioni con la retorica anti-migranti e che, perfino dopo la presa di Kabul da parte dei Taliban, il primo ministro aveva subito chiarito che non era dovere dell’Ue accogliere i profughi afghani, tanto che la Slovenia non ha poi aderito al programma europeo di evacuazione e accoglienza.

Dal 2018 all’agosto 2021, secondo i dati ufficiali, la polizia slovena ha effettuato 28.235 “riammissioni” (come si definiscono in linguaggio burocratico le deportazioni) in Croazia. Queste espulsioni di massa sono state fin da subito coordinate dai capi delle forze di polizia e da altre istituzioni statali, a partire da una direttiva dell’ex direttore generale della polizia, Simon Velički, del 25 maggio 2018. La direttiva affermava, tra le altre cose, che le persone catturate da pattuglie miste sloveno-croate, dopo aver attraversato illegalmente il confine, dovevano essere consegnate alla Croazia. Nelle stazioni di polizia, un cambiamento fondamentale nello svolgimento delle procedure ha fatto seguito alla pubblicazione della suddetta direttiva, come confermato dalle statistiche pubblicate dall’Ufficio del Difensore Civico sloveno. Presso la stazione di polizia Črnomelj – di strategica importanza in quanto a ridosso del confine, in una zona solitamente attraversata nei game – nel maggio 2018, il 98% (371 persone su 379) di chi era stato accusato di aver attraversato irregolarmente il confine sloveno-croato aveva espresso ufficialmente l’intenzione di chiedere asilo, mentre nel mese successivo (giugno 2018) questa proporzione si riduceva drasticamente fino al solo 3% (13 persone), con il restante 97% deportato in Croazia, ovvero 399 persone su 412 totali. E il destino delle persone “riammesse” in Croazia era ed è ben conosciuto: umiliazioni, torture, violenze indicibili e infine deportazione in Bosnia ed Erzegovina

La pratica dei respingimenti a catena nel tempo si è espansa dalle sole zone di confine a tutte le stazioni di polizia del territorio sloveno, fino ad essere applicata sistematicamente anche all’interno di strutture come il Centro per l’asilo di Lubiana, come confermato dal rapporto 2021 del Difensore Civico. La presunta legittimità di queste pratiche si basa su un accordo interstatale tra i due paesi balcanici in questione risalente al 2006, che prevede, per le persone entrate irregolarmente in Slovenia dalla Croazia, l’estradizione con procedura accelerata e informale entro 72 ore dall’attraversamento della frontiera – senza la decisione di un’autorità amministrativa, quindi senza possibilità di ricorso e accesso all’assistenza legale. Un pretesto giuridico che ricorda molto quello utilizzato dalle autorità italiane per deportare in Slovenia, poi bloccato dalla sentenza del Tribunale di Roma nel gennaio scorso. Attualmente, la Corte Costituzionale slovena sta discutendo sulla legittimità dell’accordo di riammissione. 

Ricostruire i pushback

«Ho chiesto asilo. Di solito quando qualcuno chiede asilo lo portano in un campo per iniziare una procedura regolare. Ma qui non è stato così. La polizia ci ha detto invece ‘No asylum in Slovenia’ e poi ci ha detto di stare zitti». Così riporta la testimonianza risalente al 2019 di un ragazzo arrestato a Višnja Gora con altre 5 persone. «La polizia mi umiliava, dicendomi ‘ah, vuoi chiedere asilo, ti porteremo in un campo sì, in un campo in Bosnia’» – racconta invece un uomo siriano che viaggiava con la compagna e due bambini di 20 e 9 mesi. 

Sono solo due delle numerose testimonianze raccolte negli anni da Infokolpa, attraverso cui nel report viene ricostruito con precisione l’operato della polizia slovena. Le persone in movimento vengono rintracciate con apparecchiature high-tech come droni e telecamere termiche, soprattutto nelle zone di confine, in quanto maggiormente sorvegliate. A volte vengono invece avvistati da locali pronti a segnalare la presenza di possibili persone migranti alle forze dell’ordine. Dopo l’arresto, le procedure di perquisizione, identificazione e interrogatorio sono accompagnate da minacce contro chi vuole chiedere asilo, sequestro dei beni personali – come i telefoni, perché non restino prove – e talvolta violenze fisiche. La detenzione solitamente dura una o poche notti ed ha luogo prevalentemente nelle stazioni di polizia. Le persone in movimento sono poi caricate su dei furgoni diretti al confine con la Croazia, non prima di aver firmato – senza traduzione, oppure con traduttore ostile – un documento in sloveno, in cui accettano il pagamento di una multa di 480 euro per aver varcato illegalmente il confine e l’ordine di detenzione. Beffardamente, dichiarano anche di aver compreso il documento sottopostogli, con una firma che avviene sotto minaccia della polizia. Questa formalizzazione del pushback da un lato caratterizza i respingimenti sloveni per una maggiore complessità procedurale – come testimonia la durata delle operazioni, che si protraggono per giorni – dall’altro consente il loro svolgimento alla luce del giorno, infatti sono eseguiti da persone in divisa, senza necessità di mobilitare squadre di picchiatori vestiti di nero. 

Altri inganni adoperati ordinariamente dalla polizia durante il respingimento sono, per esempio, la registrazione dei minori come adulti e la falsificazione del paese di destinazione, modificandolo da Slovenia ad Italia. Oltretutto, le stesse procedure di riammissione sono quotidianamente violate, non essendo tutti gli arrestati sottoposti ad esse ma solo una piccola porzione delle persone poi effettivamente espulse. Un caso che ha fatto luce su queste pratiche è stato quello di Ilirska Bistrica del luglio 2019, approfondito dal Difensore Civico. Allora, 100 persone su 108 furono deportate, dopo essere state legate e messe a terra nel bosco, picchiate coi manganelli, morse dai cani, accecate con lo spray al peperoncino. All’operazione presero parte ben 40-50 poliziotti e 30 soldati. Probabilmente, questo tipo di efferatezze su larga scala non sono più portate avanti in modo sistematico, ma le deportazioni e le procedure sopra descritte continuano senza sosta, mentre alle torture più brutali ci pensano i colleghi croati.

Il pushback del 19.7.2019 presso Ilirska Bistrica, foto di Siol.net. Dal report di Infokolpa.

Le politiche detentive

Gli effetti del governo Janša – che si distingue, tra le altre cose, per l’amicizia con l’ungherese Orban – si sono visti da subito anche per quanto concerne il trattamento degli effettivi richiedenti asilo nel paese. Nell’estate 2020 è stata sperimentata la detenzione dei richiedenti asilo nel Centre for Foreigners di Postojna. Questo luogo – assimilabile ai CPR italiani – è un centro di detenzione, una prigione per chi non ha il diritto di stare nel paese ed è in attesa di espulsione. Da giugno ad ottobre 2020 è stato utilizzato in modo arbitrario ed illegale – come dimostrato dal Tribunale Amministrativo – per rinchiudere persone la cui richiesta d’asilo era in corso. Non si trattava di una svista burocratica, infatti l’aumento del numero di detenzioni era connesso a una direttiva dell’ex direttore generale della polizia, che istruiva gli agenti di confinare direttamente i richiedenti asilo nel Centre for Foreigners, per facilitarne il rimpatrio o il ritorno al paese di entrata (la Croazia) in seguito al diniego della protezione. Era quindi un modo per “efficientare” il sistema di deportazione, riservato a chi ne avesse passato indenne il primo livello, ovvero il pushback

Nel frattempo, venivano introdotte su più larga scala procedure decisionali accelerate per le richieste d’asilo, per poter rifiutare le domande di protezione entro 3 mesi, la durata della suddetta detenzione. Mentre la pratica di detenzione di massa è in parte cessata, anche grazie alle dure proteste delle persone migranti rinchiuse a Postojna, il centro rimane oggi un punto nevralgico dell’apparato statale di reclusione e respingimento. Gli abusi della polizia continuano, così come la repressione delle resistenze dei detenuti, etichettati come instabili mentalmente e letteralmente sedati per prevenire forme di protesta come danneggiamenti e autolesionismo. Inoltre, si consolidano i tempi ristretti per l’analisi delle domande d’asilo – nel 2021 si sono viste domande essere diniegate in 2 settimane – e i dinieghi collettivi basati sulla nazionalità, che non tengono conto né delle reali condizioni del paese di provenienza né del dovere di analizzare le domande su base individuale. A tal proposito, è emblematico il caso degli eritrei spiegato nel report. 

La restrizione del diritto d’asilo

Importanti modifiche legislative sono state approvate dal parlamento sloveno nel 2021, volte sostanzialmente alla legalizzazione del non-diritto d’asilo, e a metterlo al riparo da carte e convenzioni – dopo che nel 2016 la Corte Costituzionale era già intervenuta per fermare simili atti normativi. Il governo infatti sta cercando di sbrogliare l’ambiguità giuridica delle sue pratiche, che lo ha visto condannato dalla Corte Suprema per aver violato l’articolo 18 (Diritto d’asilo) e l’articolo 19 (Protezione dall’espulsione collettiva e dalla tortura) della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Ciò nonostante, in altre occasioni lo Stato sloveno è stato assolto grazie alla direttiva europea sulle procedure comuni per il rimpatrio di cittadini di paesi terzi illegalmente soggiornanti (2008/115/CE) e soprattutto grazie al non assodato riconoscimento nella giurisprudenza slovena della Croazia come paese violante l’articolo 4 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Ue, ossia quello sulla tortura.

Di particolare rilevanza sono alcuni emendamenti al Foreigners Act che permettono la sospensione del diritto di protezione in caso di “complessa crisi migratoria”, stato di emergenza che deve essere proposto dal ministro degli interni e votato dal parlamento a maggioranza assoluta. In caso di approvazione, la polizia acquisirebbe speciali poteri per chiudere i confini ed espellere i richiedenti asilo, così legittimando e rafforzando ciò che di fatto già avviene. Ancora, tra le altre misure razziste e classiste citate da Infokolpa, vengono resi più difficili i ricongiungimenti familiari e ridotte le possibilità per studenti non europei di iscriversi all’università. Le modifiche all’International Protection Act, in aggiunta, eliminano il terzo grado di giudizio dal processo d’asilo, contraggono i sussidi per l’affitto e i corsi di lingua per gli aventi protezione, limitano la libertà di movimento per i richiedenti asilo al comune di residenza, allargano le basi giuridiche per la detenzione nel centro di Postojna. La lista potrebbe continuare, e tutto sembra dire, a chi scappa da guerre ed ingiustizie, in Slovenia non c’è posto per te.

Confini sempre più invalicabili 

«L’UE dovrebbe sostenere i gli Stati membri che proteggono le sue frontiere esterne co-finanziando tutte le misure, comprese le barriere fisiche lungo il confine, perché prevengono la violenza e il passaggio illegale dei confini e rimpiazzano l’utilizzo di misure più invasive» – così il primo ministro Janša si è espresso qualche settimana fa, da presidente di turno del Consiglio dell’Unione europea, offrendo poliziotti al collega polacco per presidiare il confine con la Bielorussia. Bisogna riconoscere alle guardie di frontiera e alle istituzioni slovene un certo know-how e una certa esperienza, che generosamente possono mettere a disposizione. Infatti, dal 2015 ad oggi sono stati eretti in Slovenia circa 200 km di barriere su 670 km di confine sud-orientale – che è anche il confine dell’area Schengen – e la polizia ha una certa familiarità coi pushback e con i dispositivi tecnologici di sorveglianza. A dire il vero, la stessa Slovenia beneficia dell’aiuto delle polizie di altri paesi (anche della stessa Polonia), così come la Croazia, data la presenza di ufficiali tedeschi e di Frontex. È il rovesciamento del concetto di solidarietà, promosso anche nella proposta di Patto per la Migrazione e l’Asilo, che si definisce come cooperazione europea contro le minacce esterne, ovvero contro le persone migranti, invece che in senso universalistico. 

Le reti sul fiume Kolpa, lato sloveno, nei pressi del villaggio di Fara.

Per quanto riguarda l’Italia, sebbene si siano fermati i respingimenti a gennaio 2021, dal 30 di luglio sono in corso pattugliamenti congiunti italo-sloveni sulle zone di confine, apparentemente anche all’interno del territorio italiano. Il 15 luglio a Roma e il 21 luglio a Lubiana è infatti stato firmato un accordo di cooperazione tra la polizia italiana e quella slovena, accordo che rimane ancora opaco, poiché non sono stati forniti dalla Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere italiana – braccio operativo del ministero dell’Interno – né il protocollo di intesa né le indicazioni operative date alle forze dell’ordine sul campo. Non sono emersi dall’estate ad oggi casi di pushback effettuati direttamente da agenti italiani, ma i risultati del pattugliamento misto si sono visti nell’aumento vertiginoso delle testimonianze di respingimento dalla Slovenia (raccolte da BVMN) – probabilmente connesse anche ad un aumento dei dispositivi tecnologici utilizzati, come i 55 nuovi droni che spuntano anche in alcune foto con poliziotti italiani. Le testimonianze spesso parlano di catture nelle zone vicine al confine italiano, in particolare Trieste. Secondo il Ministero degli Interni, “l’attuale delicato momento nella gestione delle frontiere interne all’Unione europea non consente la divulgazione di accordi di cooperazione”, ma nei fatti persiste l’impegno diretto delle forze italiane a supporto di un paese – la Slovenia – che è già stato giudicato dai tribunali italiani stessi come responsabile di respingimenti verso la Croazia e di trattamenti inumani e degradanti contro i richiedenti asilo. Insomma, anche l’Italia può ben dire di fare la propria parte.

L’Europa tra stato di emergenza e stato di eccezione

Ampliando lo sguardo, partendo dal piccolo paese alpino a nord delle rotte balcaniche occidentali, si notano numerose ed inquietanti linee di continuità con le politiche migratorie attuate da altri paesi europei, soprattutto quelli periferici e semi-periferici. Tanto da far pensare, a dispetto di chi reclama a gran voce la necessità di politiche migratorie comuni, che un disegno comune sia di fatto già in essere da tempo. Lo ritroviamo nei pushback dal mar Egeo alla Polonia, quando non direttamente appaltati ad autorità esterne, come la famosa guardia costiera libica. Lo ritroviamo nella brutalità della polizia utilizzata come arma di deterrenza. Lo ritroviamo nei più di mille chilometri di muri eretti e nel massiccio apparato tecnologico di sorveglianza e identificazione mobilitato nelle zone di frontiera. Lo ritroviamo nella sempre più diffusa politica di detenzione, dai nuovi centri delle isole greche al campo bosniaco di Lipa, passando per Postojna e i CPR italiani. Lo ritroviamo anche nelle politiche d’asilo: nelle procedure accelerate volte all’espulsione, nella fine del trattamento individuale in favore dello screening collettivo su base nazionale, nella riduzione del welfare riservato ai richiedenti asilo ed aventi protezione, nelle limitazioni geografiche a cui sono sottoposti i richiedenti, nell’investimento in rimpatri e deportazioni in presunti “paesi terzi sicuri”. Lo ritroviamo nella criminalizzazione delle persone migranti e della solidarietà. Lo ritroviamo nei fondi europei che spesso sostengono tutto ciò. È il disegno tracciato dallo stesso Patto Europeo per la Migrazione e l’Asilo, la cui negoziazione è senza dubbio anticipata dalla prassi, sovvertendo capisaldi giuridici come i già citati diritto di non respingimento, diritto d’asilo, diritto di protezione dalla tortura.

Nello scenario europeo contemporaneo, in termini di migrazioni, vediamo come il politico anticipi il giuridico, come “l’autorità dimostra di non avere bisogno di diritto per creare diritto” (Schmitt et al., 1972), attraverso la sospensione e il superamento continuo della legge. Ricorda lo “stato di eccezione”, quella terra di nessuno fra l’ordine giuridico e il fatto politico, che coincide con un cambiamento di paradigma rispetto al diritto costituzionale precedente, cambiamento attuato da chi di quel diritto dovrebbe essere garante – cioè da chi è già dominante nei rapporti sociali. Questo concetto è spesso presentato in opposizione allo “stato di emergenza”, considerato come sospensione del diritto in particolari circostanze, per poi tornare alla normalità precedente. L’emergenza e la crisi sono categorie spesso utilizzate dalle istituzioni nell’affrontare il fenomeno migratorio per giustificare azioni non costituzionali, come dimostrano le recenti deroghe concesse a Lettonia, Lituania e Polonia, e lo stesso stato di “complessa crisi migratoria” recentemente istituito dal parlamento sloveno. Tuttavia, sembra che l’emergenza serva a nascondere l’eccezione, poiché pratiche che sembravano impensabili si sono stabilizzate e progressivamente si stanno affermando anche  sul piano normativo. 

È di fatto uno stato di eccezione permanente, in cui il diritto è violato quotidianamente da anni, con gli stati e l’Ue che attaccano le persone migranti con ogni mezzo necessario, tanto da farci mobilitare anche il concetto di guerra, in questo caso asimmetrica – ovvero tra due parti con forze impari, gli stati da una parte e le persone migranti dall’altra. A Bruxelles invece hanno iniziato ad utilizzare le parole “guerra ibrida”, per ricollocare le migrazioni all’interno dei conflitti geopolitici, con le persone migranti usate come arma nelle schermaglie tra paesi. Ma questa riconcettualizzazione appare a sua volta strumentale: in realtà, l’implementazione in tutta Europa di politiche tanto simili quanto mortifere risponde ad una visione europea unitaria e condivisa, quella del migrante come minaccia, come nemico attentatore del privilegio bianco, pericolo per lo “stile di vita europeo” – sempre per usare termini cari alla Commissione. E così, nel cambio di paradigma dello stato di eccezione, il confine e il sistema d’asilo si ridefiniscono (o si rivelano) come sistema organico e coerente volto ad escludere, gerarchizzare e selezionare le vite – in base a criteri occidentali, assicurandosi il necessario di manodopera a basso costo (E. G. Rodríguez, 2018). In definitiva, il confine e il sistema d’asilo diventano uno strumento coloniale di riproduzione e difesa dei rapporti di potere esistenti, che gestisce i danni collaterali del dominio occidentale nel mondo, soffocando – una volta di più – la richiesta di una vita migliore di chi ostinatamente si muove da territori resi invivibili dallo sfruttamento e dalla guerra. In Slovenia come altrove, chi osa violare la nostra fortezza sarà punito. 

Bibliografia

  • Schmitt, C., Miglio, G., & Schiera, P. (1972). Le categorie del politico: saggi di teoria politica. Il mulino
  • Rodríguez, E. G. (2018).  The coloniality of migration and the ‘refugee crisis’. Refuge 34, n.1 

Giovanni Marenda

Studente magistrale di Sociologia e Ricerca Sociale all'Università di Trento. Ho trascorso la maggior parte del 2020 ad Atene, in Grecia, impegnato nel lavoro di solidarietà. Sono un attivista del Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino, che promuove la libertà di movimento e supporta le persone migranti lungo le rotte balcaniche e sui confini italiani.