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Refugees in Libya: rastrellati e incarcerati con il beneplacito dell’Unione europea

Dopo 100 giorni di sit-in, a Tripoli scatta l’aggressione delle milizie libiche: le voci di protesta devono tacere

L'accampamento bruciato dalla milizie libiche. Foto tratta dal video di Refugees in Libya.

Domenica notte i rifugiati che da 100 giorni si trovavano accampati nei pressi dell’UHNCR a Tripoli sono stati attaccati dalle milizie libiche. A renderlo noto sono stati gli stessi rifugiati attraverso il loro canale twitter che quasi in diretta sono riusciti a comunicare quanto stava accadendo. 

Le milizie su preciso ordine delle autorità libiche hanno aggredito con violenza centinaia di persone inermi, bruciato le loro tende, picchiato donne e bambini, usato le armi contro alcuni leader della comunità sudanese.

L’aggressione si è trasformata in un rastrellamento in piena regola: le persone sono state trasportate al carcere di Ain Zara, conosciuto per le condizioni orribili in cui le persone vengono illegalmente detenute. 

Pochi giorni fa, dal sito web di Refugees in Libya era stato pubblicato un nuovo appello che ricostruiva la loro storia e chiedeva di ascoltare le loro richieste:

“Veniamo da tanti Paesi diversi (Sud Sudan, Sierra Leone, Ciad, Uganda, Congo, Ruanda, Burundi, Somalia, Eritrea, Etiopia e Sudan) e fuggiamo da guerre civili, persecuzioni, cambiamenti climatici e povertà. Siamo stati tutti spinti da circostanze al di là della sopportazione umana.

Volevamo raggiungere l’Europa cercando una seconda possibilità per le nostre vite e quindi siamo arrivati in Libia. Qui siamo diventati la forza lavoro nascosta dell’economia libica: posiamo mattoni e costruiamo case libiche, ripariamo e laviamo auto libiche, coltiviamo e piantiamo frutta e verdura per i contadini libici e le tavole libiche, montiamo satelliti sui tetti alti per gli schermi libici…

Apparentemente questo non è abbastanza per le autorità libiche. La nostra forza lavoro non è sufficiente. Vogliono il pieno controllo dei nostri corpi e della nostra dignità. Quello che abbiamo trovato al nostro arrivo è stato un incubo fatto di torture, stupri, estorsioni, detenzioni arbitrarie… abbiamo subito ogni possibile e inimmaginabile violazione dei diritti umani.

Siamo stati intercettati con la forza in mare dalla cosiddetta guardia costiera libica – finanziata dalle autorità italiane ed europee – e poi riportati in prigioni e campi di concentramento disumani. Alcuni di noi hanno dovuto ripetere questo ciclo di umiliazioni due, tre, cinque, fino a dieci volte.

Abbiamo cercato – conclude l’appello – di alzare la voce e di diffondere le nostre storie. Le abbiamo raccontate alle istituzioni, ai politici, ai giornalisti, ma a parte pochissimi interessati, le nostre storie sono rimaste inascoltate. Siamo stati deliberatamente messi a tacere.

Da parte nostra, vogliamo continuare a sostenere queste voci, a denunciare insieme le politiche mortifere, a fare tutto il possibile affinché il nostro impegno sia un sostegno diretto, mentre quelle catene, anello dopo anello, siano spezzate del tutto.

Le responsabilità e i silenzi delle forze politiche su quanto accade in Libia non ammettono scusanti. Le istituzioni europee e i singoli stati membri, se solo lo volessero, potrebbero intervenire e “liberare” le circa 13.000 persone che sono intrappolate in Libia, prevedendo un agile piano di evacuazione e ricollocamento. Gli strumenti giuridici per farlo ci sono, i fondi per l’attuazione sarebbero irrisori se paragonati ai soldi che sono stati spesi per addestrare le milizie e strutturare il sistema di cattura e detenzione1, oppure a quanto ammonta il NextGenerationEU (oltre 800 miliardi di euro). Ma la “guerra asimmetrica” nel confronti delle persone migranti non ammette che si alzino voci dissonanti, che si possa creare un precedente. 

  1. Per un dettaglio dei costi si può leggere l’inchiesta del giornalista Giacomo Zandonini “The Big Wall“. Qui una nostra intervista: https://www.meltingpot.org/2021/04/the-big-wall-il-neocolonialismo-europeo-in-africa-un-paradigma-che-puo-cambiare/

Redazione

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