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Salute mentale e migrazioni: l’urgente necessità di servizi di supporto

Intervista a Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà - Ufficio rifugiati onlus

Photo credit: Vanna D'Ambrosio

L’Italia è un paese di transito e di approdo di numerosi flussi migratori. I migranti che intendono stabilirsi nel paese fanno richiesta di asilo presso le autorità competenti e attendono per mesi o anni una regolarizzazione del proprio status giuridico nella speranza di realizzarsi in Europa.

Molti di loro subiscono le conseguenze devastanti della rotta e del proprio vissuto nelle terre d’origine: traumi a cui si sommano le attese e i cortocircuiti burocratici del complesso iter giudiziario per la regolarizzazione.

Si tratta di persone dotate di una grandissima resilienza, ma che sopportano il peso esperienziale di violenze, torture, respingimenti, incertezza giuridica, durante e dopo il viaggio.

Il loro inserimento nelle società occidentali (in termini umani, giuridici, lavorativi, sociali) è parte del percorso di riabilitazione.

Eppure, in Italia mancano servizi di supporto psicologico e psichiatrico per rifugiati, richiedenti asilo e migranti in genere. Le istituzioni, mancando di riconoscere questo bisogno essenziale, si rendono complici del loro malessere.

In merito a questo abbiamo avuto l’opportunità di intervistare Gianfranco Schiavone. Studioso delle migrazioni internazionali, già vicepresidente nazionale dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione e presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà ICS, Schiavone è tra i fondatori del sistema SPRAR (Sistema nazionale di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), poi rinominato SAI (Sistema di Accoglienza e Integrazione) e autore di numerose pubblicazioni in tema di diritto dell’immigrazione e protezione internazionale. In numerose occasioni si è schierato politicamente nei temi legati alle scelte europee in materia di migrazioni, respingimenti illegittimi alle frontiere e violenze delle polizie di frontiera.

Dr. Schiavone, lei negli ultimi anni si è occupato della stesura di programmi di supporto psichiatrico e psicologico per i richiedenti asilo e rifugiati. Quali sono i requisiti di rifugiati e richiedenti asilo per poter accedere ai servizi di supporto psicologico e psichiatrico?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo andare un po’ a monte: la Convenzione ONU contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti del 10.12.1984 (entrata in vigore per l’Italia nel 1989) garantisce alla vittima di tortura una riparazione e una “riparazione la più completa possibile” rispetto ai danni subiti e impone agli stati l’obbligo di predisporre servizi medici e psicologici, ma anche percorsi specifici di assistenza sociale per fare in modo che le vittime di tortura possano essere sostenute in modo adeguate nel percorso di rielaborazione dei traumi subiti. Il nostro Paese è rimasto del tutto inerte per oltre vent’anni disattendendo di fatto quanto disposto dalla citata Convenzione; solo con il D.Lgs 21.02.2014 n. 18 alla cui stesura ho avuto modo di contribuire, il Legislatore ha disposto che il Ministero della Salute emani “Linee guida” per gli interventi di assistenza e riabilitazione delle vittime di tortura con particolare attenzione al trattamento dei disturbi psichici di chi ha subito violenze estreme. A seguito del dettato normativo il Ministero della salute costituì un Tavolo tecnico con lo scopo di elaborare le previste linee guida che sono state emanate con decreto dello stesso Ministero in data 3.04.20171 per tutte quelle persone straniere che per il loro percorso migratorio potevano aver subito situazioni di grave violenza. Uno degli obiettivi prioritari delle Linee Guida è quello di dare indicazioni affinché ogni azienda sanitaria organizzi una equipe multidisciplinare in grado di seguire le vittime di violenza tra i migranti e i rifugiati del territorio, di produrre dei report delle attività svolte in modo da permettere uno scambio di esperienze tra equipe a livello regionale e nazionale.

Le linee guida sono rimaste finora purtroppo in gran parte inattuate. Da un lato il Ministero della Salute non ha stimolato particolarmente le direzioni regionali della Salute e, a cascata, le aziende sanitarie, e dall’altro dal territorio sono partite pochissime iniziative confermando lo storico disinteresse e sottovalutazione che il nostro Paese continua ad avere su questi temi. Certo, alcune regioni hanno fatto delle sperimentazioni e, dove qualche movimento in tal senso c’era già, il sistema si è un po’ irrobustito; ma dove non c’era nulla, il progetto non ha attecchito. È il caso del Friuli-Venezia Giulia, per esempio dove non c’era e non c’è nulla tuttora pur essendo un territorio dove arrivano, dalla rotta balcanica, migliaia di persone ogni anno, gran parte delle quali hanno alle spalle percorsi di violenza pluriennale.

Del resto, purtroppo gli interventi previsti dalle linee guida debbono essere attuati senza oneri aggiuntivi e quindi senza l’assunzione di nuovo personale dedicato prevedendo di redistribuire il lavoro tra il personale esistente in modo da includere anche le nuove attività. Noi non pensavamo certo che tutto questo si potesse fare a costo zero, anzi: eravamo consapevoli che il limite imposto dalla legge riduce la possibilità di agire e che, a stretto rigore, tale previsione andrebbe cambiata. Nonostante ciò, nulla giustifica l’inerzia di questi anni dal momento che molti percorsi di formazione avrebbero comunque potuto essere attivati e almeno parte delle attività previsti dalle linee guida sono realizzabili attraverso delle revisioni organizzative interne alle aziende.

Presentando le linee guida ha parlato di riabilitazione dei migranti vittime di violenza. Quali sono i presupposti di questa riabilitazione?

Qui entriamo nella questione più spinosa: le persone destinatarie degli interventi riabilitativi pensati nelle linee guida non devono presentare necessariamente, specie nel campo della salute mentale, delle patologie molto gravi o particolarmente strutturate; piuttosto va riconosciuta l’esistenza di problematiche di sofferenza nella rielaborazione dei traumi vissuti che richiedono un supporto specialistico perché le conseguenze dell’esperienza di tortura sulla destrutturazione della personalità possono essere profonde anche quando non visibili e possono compromettere la capacità della persona di tornare ad una vita normale in termini relazionali e di organizzazione della propria vita quotidiana e lavorativa. Senza un percorso di presa in carico delle conseguenze che sulla vita psichica ha avuto l’esperienza di tortura, i servizi di salute mentale finiscono per occuparsi di questa peculiare categoria di persone solo quando la loro sofferenza sfocia in manifestazioni patologiche acute e spesso neppure in quella circostanza si riesce per una pluralità di fattori (tra cui la rimozione dei fatti da parte della vittima) a risalire alle origini del trauma e a impostare un percorso adeguato, limitandosi a interventi farmacologici che tamponano la situazione.

Una forma di medicalizzazione della sofferenza del migrante?

Esatto. Al contrario, l’approccio delle linee guida non era strettamente medicalizzante: non si parlava solo di salute mentale, ma anche di servizi psicologici, di assistenza sociale, di integrazione sociale: l’accompagnamento della persona in un percorso di inserimento lavorativo è parte di un percorso terapeutico. Oltre che chiaramente previsto all’interno delle convenzioni del diritto internazionale per i diritti umani, lo scopo degli interventi previsti nelle Linee Guida è anche preventivo: evitare che situazioni inizialmente gestibili si cronicizzino e finiscano per richiedere in seguito una forma più consistente di supporto psichiatrico.

I migranti con problematiche di salute mentale che giungono in Italia sono spesso portatori di traumi vissuti prima e durante la rotta; tuttavia, qui sono costretti a fare i conti con forme di sofferenza non meno invalidanti: assenza di una dimensione familiare, incertezza della propria condizione giuridica. In che modo questo può contribuire al già grave quadro psicologico di rifugiati e richiedenti asilo?

Nella letteratura scientifica si parla di traumi migratori e di traumi post migratori: forme di trauma date dallo scarto non solo tra quello che si trova e quello che si era immaginato e idealizzato, ma anche tra i diritti garantiti nei fatti e quelli che dovrebbe essere in ogni caso garantiti ma non lo sono. Tutto questo porta a una forma di ri-traumatizzazione che rende necessario un coordinamento tra tutti gli attori al fine di minimizzarne gli effetti. Le equipe pensate nelle linee guida avrebbero dovuto interagire con i servizi di accoglienza, con le istituzioni, con la commissione territoriale, con le prefetture, in modo tale da seguire le persone più fragili nella consapevolezza che il sistema che viene offerto in Italia in termini di protezione e accoglienza ha molte lacune.

E viceversa, il mancato accesso ai percorsi di presa in carico e supporto può compromettere il procedimento del riconoscimento di protezione internazionale?

Certo. Nei casi più eclatanti, avviene che, non sapendo da parte dell’intervistatore di trovarsi di fronte a una vittima di tortura la domanda viene negata per via di dichiarazioni che possono essere attribuite a una infondatezza nella narrazione. Uno dei tratti più ricorrenti nelle vittime di tortura e di traumi estremi è quella che gli specialisti chiamano “memoria traumatica”: una memoria spezzettata, piena di rimozioni e contraddizioni, esattamente l’opposto di ciò che viene richiesto al momento dell’esame delle domande, che si giudicano fondate in base a un principio di coerenza, di credibilità nella descrizione dei fatti e nella consapevolezza della persona.

Non è infrequente che le persone che hanno subito i trattamenti peggiori vengano giudicate incoerenti, contraddittorie, pertanto non credibili, perché non ricordano episodi rilevanti nella loro vicenda. Ma talvolta non li ricordano perché nella loro memoria sono rimossi, ridimensionati, rivisti. Insomma, questa mancanza di attenzione al vissuto psicologico della vittima si può ripercuotere anche in sede di esame della domanda, con esiti paradossali: il rigetto delle domande proprio dei casi più importanti.

Veniamo al tema dell’impunità. Denunciare la violenza subita su un confine, puntare il dito contro una specifica persona, attribuire finalmente la responsabilità del dolore non al trauma del migrante ma a quello che ha vissuto a causa di altri può rappresentare una forma di riscatto “politico” per i migranti vittime di violenza? La denuncia, che è innanzitutto un atto politico, è anche un atto terapeutico?

Lo è, lo è essenzialmente. La riabilitazione delle vittime di tortura passa dal riconoscimento delle violenze subite, e questo riconoscimento è innanzitutto sociale e politico. Una delle azioni fondamentali di riabilitazione della vittima di tortura è il riconoscimento giuridico della violenza che essa ha subito; non c’è riabilitazione senza il riconoscimento. Riabilitare non vuol dire distribuire medicine, fare terapie, counseling, incontri psicomotori. Riabilitare è essenzialmente riconoscere ciò che è avvenuto. e attraverso ciò dare alla persona la possibilità di un ritorno a una condizione di dignità.

A Trieste minori e titolari di protezione internazionale vengono accolti in appartamenti sparsi per la città. Questo modello di accoglienza diffusa si contrappone all’accoglienza in grandi edifici, che può essere ghettizzante ed escludente. Cosa ne pensa?

L’accoglienza diffusa l’abbiamo pensata per questo! Molto più che una modalità organizzativa finalizzata a garantire un elevato livello di servizi, l’accoglienza diffusa è lo strumento attraverso il quale inserire le persone in una condizione di vita normale fin dal loro arrivo restituendo loro il senso di uno spazio e di un tempo, oltre che di una relazione con l’esterno: la normalità è assolutamente terapeutica.

  1. Linee guida per la programmazione degli interventi di assistenza e riabilitazione nonché per il trattamento dei disturbi psichici dei titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale: https://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_2599_allegato.pdf

Rossella Marvulli

Ho conseguito un master in comunicazione della scienza. Sono stata a lungo attivista e operatrice nelle realtà migratorie triestine. Su Melting Pot scrivo soprattutto di tecnologie biometriche di controllo delle migrazioni sui confini europei.