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Richiedenti asilo protestano nel Park Hotel di Melbourne
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Australia – Dopo il caso Djokovic ora serve un’indagine su tutti i luoghi di detenzione

Lorraine Finlay*, ABC - 19 gennaio 2022

La recente detenzione di Novak Djokovic nel Park Hotel di Melbourne ha attirato l’attenzione di tutto il mondo sull’utilizzo da parte dell’Australia degli alberghi come “luoghi alternativi di detenzione”.

La permanenza di Djokovic è durata alcuni giorni, mentre per altri che si trovano ancora nel Park Hotel la detenzione si misura in anni.

Gli alberghi non sono assolutamente luoghi adatti nei quali trattenere persone per periodi prolungati. Le strutture usate per la detenzione degli immigrati non hanno ambienti e servizi per l’esercizio fisico e lo svago, e l’accesso all’aria aperta o agli spazi esterni è spesso limitato. Alcuni media hanno inoltre riportato la presenza di vermi nel cibo.

Fotografia di Mehdi Ali, un profugo iraniano che da 9 anni vive nel Park Hotel

Gli impatti della detenzione in hotel sui diritti civili e sulla salute sono pesanti e ben documentati, fra l’altro, dalla Commissione Australiana per i Diritti Umani (Australian Human Rights Commission).

Nel 2017 l’Australia si è impegnata sulla scena internazionale a istituire un sistema di ispezione coordinato e indipendente per tutte le strutture di detenzione. Questo impegno, noto come Protocollo Aggiunto alla Convenzione contro la Tortura e ogni altro Trattamento o Pena Crudele, Inumana o Degradante (Optional Protocol to the Convention Against Torture – OPCAT), è stato celebrato dall’allora ministra degli Esteri Julie Bishop come una “… importante vittoria per i diritti umani in Australia”.

La data del 20 gennaio 2022 era la scadenza entro la quale l’Australia avrebbe dovuto dar corso agli impegni presi per l’OPCAT, ma, a quattro anni dalla ratifica del protocollo, non lo ha fatto.

Perché servono sistemi di monitoraggio e controllo

Se il protocollo OPCAT fosse stato implementato, oggi sarebbero in atto, presso tutte le strutture di detenzione, ispezioni coordinate e approfondite, con l’obiettivo di identificare e prevenire i potenziali problemi legati ai diritti umani. Ci sarebbe maggiore trasparenza, grazie a rapporti pubblici sulle condizioni di detenzione, e ci sarebbero maggiori discussioni e consapevolezza in merito alle condizioni di vita all’interno dei centri di detenzione.

Si tratta di situazioni come quelle divulgate la settimana scorsa, che riguardano i detenuti nella città di Roeburne (regione di Pilbara), rinchiusi in celle senza aria condizionata mentre la temperatura toccava i 50.5 gradi.

L’attuazione del sistema di monitoraggio e controllo previsto dal protocollo OPCAT, renderebbe più difficile per le istituzioni governative far finta di non sapere, come ha fatto il Primo Ministro della Western Australia quando ha dichiarato di “… ignorare che non ci fosse l’aria condizionata”.

Inoltre, sarebbe stata possibile un’indagine più accurata sui centri di detenzione minorile, con forte impatto sul benessere e la qualità di vita di bambini di 10 anni. È emerso che nel famigerato centro di detenzione minorile di Don Dale, nel Territorio del Nord, i maltrattamenti sono continuati anche dopo che una sentenza dell’Alta Corte di Giustizia Australiana (Royal Commission) ne aveva raccomandato la chiusura. Il protocollo OPCAT aiuterebbe a prevenire i maltrattamenti nei carceri minorili, portando all’attenzione pubblica questi abusi.

E per quanto riguarda le strutture di quarantena e isolamento per COVID?

Nel rapporto che esamina la risposta governativa del Nuovo Galles del Sud dopo i primi 12 mesi di pandemia COVID-19, il Difensore Civico di quello stato sottolinea che le misure previste dal protocollo OPCAT sarebbero state determinanti per il controllo sulle strutture dedicate alla quarantena: in questi due anni, infatti, sono stati segnalati casi di persone chiuse in stanze senza finestre apribili e senza adeguati filtri di areazione, alimentate con cibo di cattiva qualità. Si riportano anche gravi impatti sulla salute mentale.

Inoltre, il sistema OPCAT avrebbe potuto aiutare i residenti delle case popolari a Melbourne, che hanno dovuto subire un lockdown fra i più duri al mondo durante la prima ondata di epidemia. L’indagine effettuata dal Difensore Civico in quel periodo adottava un modello di riferimento basato sul protocollo OPCAT per raccomandare misure di protezione e prevenzione, approccio e supporto umano, tutela della salute e del benessere. Ma tutto ciò è stato messo in campo solo a distanza di mesi, mentre un sistema di monitoraggio veramente in linea con il modello OPCAT avrebbe consentito di conoscere e seguire la situazione in tempo reale.

L’aspetto principale che rende il protocollo OPCAT davvero utile rimane la possibilità di far luce sulle condizioni nelle strutture di detenzione, in modo da consentire l’identificazione e, possibilmente, la prevenzione di maltrattamenti e abusi.

Sebbene OPCAT non stabilisca nessun nuovo obbligo relativamente agli standard minimi da applicare alla detenzione, il fatto stesso di assicurare migliori controlli e maggiori responsabilità sicuramente aiuterebbe a tutelare i diritti umani.

Photo credit: Refugee Voices

I governi locali si sono mossi troppo lentamente

Il protocollo OPCAT può essere attivato con qualche flessibilità ma è essenziale che l’Australia istituisca un Meccanismo Nazionale di Prevenzione indipendente (che conduca ispezioni regolari su tutte le strutture di detenzione) e che siano consentite le visite ispettive dell’ONU.

L’Australia ha deciso di adottare un sistema di monitoraggio affidato a diversi organi istituzionali,e ha chiesto ai singoli stati e territori di stabilire i loro specifici Sistemi di Prevenzione, in considerazione del fatto che per la maggior parte gli istituti di detenzione sono gestiti dalle amministrazioni locali. Alcuni lo hanno fatto ma altri no (come il Nuovo Galles del Sud e lo stato di Vittoria).

Gli stati inadempienti hanno indicato come principali ostacoli l’esigenza di fondi straordinari e la mancanza di un modello quadro nazionale di riferimento.

Entrambi gli schieramenti politici si sono mossi lentamente nel percorso di attuazione dell’OPCAT. C’è stato un vuoto di otto anni tra la firma dell’impegno da parte del governo Rudd (nel 2009) e la sua ratificazione sotto il governo a guida Turnbull (nel 2017). Successivamente, è stata inserita una dichiarazione aggiunta al Trattato che stabilisce una proroga fino a tre anni. La nuova scadenza è arrivata e non siamo ancora pronti. Decisamente non va bene.

Mantenere gli impegni fissati dall’OPCAT è importante, non solo per garantire la tutela dei diritti umani ma anche per dare un segnale più ampio che confermi la chiara adesione dell’Australia ad un sistema internazionale fondato su regole precise e condivise. Quando si sottoscrive un trattato internazionale è necessario mantenere la parola data. Nel caso di OPCAT, non lo abbiamo fatto.

Adesso è ora di dimostrare che le nostre azioni sono coerenti con le nostre dichiarazioni. È ora di mantenere i nostri impegni con OPCAT.

* Lorraine Finlay fa parte della Commissione Australiana per i Diritti Umani