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Donne e nuclei familiari sul confine nord del Messico

L’impatto della traversata e delle deportazioni sulla salute mentale

Mexico 2020 © MSF/Arlette Blanco

Le procedure di espulsione dal territorio USA attuate dal governo tramite il Titolo 42 e i Migrant Protection Protocols (MPP), denunciate da Medici Senza Frontiere in un recente comunicato stampa 1, appesantiscono il già grave quadro psicologico di molti richiedenti asilo, prima sottoposti a una traversata pericolosa per fuggire a condizioni difficili nei loro paesi di origine, poi rimpatriati in Messico sull’ultimo confine, infine costretti al tempo sospeso di procedure giuridiche senza data di scadenza. La salute mentale, questa grande dimenticata dai sistemi sanitari in Europa e oltreoceano, subisce tacitamente il mal di migrare che politiche respingenti, confini esclusivi e agenti di polizia violenti alimentano nella popolazione migrante.

I servizi di salute mentale sono stati interrotti o fortemente ridotti a causa del COVID-19, non solo quelli rivolti alla popolazione “regolare”, ma anche quelli destinati alla popolazione migrante, che subisce un muro di silenzio anche quando, dopo le peripezie e i traumi della rotta, approda nelle strutture di accoglienza formale. Nonostante le difficoltà legate alla diffusione del virus, Medici Senza Frontiere ha continuato a farsi carico delle condizioni di emergenza presenti sul confine USA-Messico, cercando di mantenere quanto più possibile attivi i servizi di salute mentale e supporto psicosociale nelle aree più sensibili.

Le donne sono la categoria più vulnerabile. Nel 2020, nelle 2.126 visite mediche e nelle 2.547 consultazioni di salute mentale alle donne nei campi di Reynosa e Matamoros, MSF ha intercettato numerosi casi di violenza sessuale, l’85% delle quali erano donne 2.

Lucia, trent’anni, nel pieno delle proteste in Nicaragua contro la riforma del sistema di sicurezza sociale ha ricevuto una chiamata dall’esercito. Il rifiuto di arruolarsi avrebbe messo a rischio la sua vita, così è stata costretta a lasciare il paese. La rotta verso gli Stati Uniti è stata difficile.

Si soffre molto sulla rotta migratoria. Ho passato notti molto spaventose. Le persone approfittano della tua vulnerabilità. Quando sei una donna sola, soffri molto”,

ha dichiarato in un’intervista a Medici Senza Frontiere 3. Lucia è entrata in Messico da Tapachula, ma prima di poter chiedere asilo è stata presa e costretta a firmare dei documenti senza conoscerne il contenuto, per poi essere deportata. “Non avevo intenzione di firmare e così mi misero in detenzione”. Poi è incappata nella rete dei Migrant Protection Protocols.

I dati relativi al periodo in cui gli MPP sono rimasti in vigore 4 suggeriscono che solo il 7,5% delle persone soggette agli MPP è riuscito ad assumere un avvocato, ma questo numero potrebbe essere ancora più basso, dal momento che include persone che inizialmente sono state inserite nei protocolli e poi sono state autorizzate a entrare negli Stati Uniti. Si riporta che a dicembre 2020, delle 42.012 prese in carico nel programma MPP, solo 521 persone hanno ricevuto assistenza presso il tribunale dell’immigrazione. Ma spesso questa assistenza non è soltanto inadeguata, ma molesta e violenta. Dopo la fuga dalla prigione, durante la permanenza in Messico, Lucia ha subito violenze sessuali, abusi fisici e verbali e maltrattamenti, non solo da persone incontrate casualmente, ma anche da avvocati e operatori che avrebbero dovuto esaminare la sua denuncia e la sua richiesta di asilo. “L’avvocato si rifiutò di raccogliere la mia testimonianza, pensava che quello che mi era successo fosse una piccola cosa, una questione senza importanza”.

Come sostengono molti psichiatri delle migrazioni, il mancato riconoscimento delle violenze subite può avere dei risvolti negativi nella percezione di sé e nel processo di rielaborazione della sofferenza. La rotta crea una frattura tra la vita di migrante e la vita che avevano nella terra d’origine, nei confronti della quale molti raccontano di provare nostalgia e separazione. Patricia Betanzos, psicologa di MSF, per quasi due anni ha fornito assistenza sanitaria mentale ai richiedenti asilo a Matamoros, sul confine settentrionale del Messico, e riporta 5 quanto ha visto: “Immagino che molte donne debbano affrontare questo assurdo, quando riversano in condizioni di bisogno all’interno del campo ma ricordano che un tempo avevano una stabilità economica e una famiglia”. Come Lucia, alcune di loro avevano un lavoro nelle loro terre d’origine, molte erano mediche e infermiere. “Eppure in Messico hanno ormai perso quell’identità”, prosegue Patricia Betanzos. In alcuni casi, le rifugiate arrivano a nutrire la paura di deludere delle aspettative familiari: “Ho dovuto mentire a mia madre per non farla preoccupare, non sa cosa ho passato, pensa che sono venuta in Messico per lavoro”, racconta Lucia.

Il 19 febbraio 2021, il governo degli Stati Uniti ha annunciato che avrebbe iniziato gradualmente a trattare le domande di asilo. Messico 2021 © MSF/Ana Villanueva

Nel 2021, MSF ha condotto più di 29.000 consulenze mediche alle persone in transito in Messico, 6000 delle quali riguardavano la salute mentale, lavorando con persone colpite da ansia generalizzata, depressione, ansia acuta e disturbo da stress post-traumatico a causa delle violenze subite nei loro paesi d’origine e lungo la rotta migratoria. A Città del Messico, dove MSF gestisce un centro per vittime di violenza estrema e tortura, quasi il 60% delle persone incontrate nelle 1.638 visite mediche effettuate erano donne.

Dopo un incidente violento inaspettato, molte reazioni si innescano nei loro corpi e nei loro stati mentali”, prosegue Patricia Betanzos. “Queste donne aspettano per mesi l’esito della propria domanda di asilo, ci sono molte questioni che le appesantiscono e le preoccupano, e alcune entrano in uno stato depressivo”. Il trauma generato dalla traversata si riverbera in un presente di attese e sospensioni a ridosso degli USA. “Le donne che abbiamo visitato mostrano segni di disperazione, mancanza di interesse nel fare le loro attività quotidiane, come alzarsi, cucinare la colazione o accendere un fuoco. L’insonnia o l’ipersonnia sono delle costanti.”

Molte di loro riferiscono di aver subito violenze sessuali durante il viaggio. “Sfortunatamente”, prosegue Patricia Betanzos, “quando ci parlano di questa situazione sono passate più di 72 ore e in quelle ore non hanno ricevuto cure mediche, e non possiamo più ricorrere alla contraccezione di emergenza per prevenire la gravidanza o alla profilassi post-esposizione per prevenire l’HIV”.

Anche i nuclei familiari con bambini vivono i traumi della traversata. Hugo6, un giovane padre di famiglia delle Honduras con tre figli piccoli e sua moglie, lavorava come tecnico di sistemi in un’azienda. Ma spesso doveva lavorare in quartieri controllati da bande armate di Tegucigalpa, dove episodi di minacce ed estorsioni di denaro sono all’ordine del giorno. Una di queste lo ha torturato e minacciato, costringendolo a lasciare il paese con le ferite ancora fresche. “Non andai all’ospedale, ero terrorizzato e avevo paura che mi cercassero lì. Dopo qualche giorno, andai al lavoro a presentare le mie dimissioni. Raccontai loro quello che era successo e che dovevo lasciare l’Honduras perché la mia vita era in pericolo”.

Ma nelle condizioni fisiche in cui era partito, il viaggio è stato difficile. Hugo riferisce di essere stato intercettato più volte da corpi di polizia; a suo dire, non lo respinsero per non essere accusati di essere i responsabili delle sue ferite. “[Durante il viaggio] sentivo un dolore intenso alla testa, avevo le convulsioni, non sapevo che la mia testa era stata fratturata [a causa delle percosse subite in Honduras]”, racconta. Sul confine settentrionale del Messico, fu preso dalla polizia di frontiera. Durante la detenzione, le condizioni di salute si aggravarono e fu operato d’urgenza. Solo dopo vari mesi di riabilitazione venne a conoscenza delle minacce subite dalla famiglia rimasta in Honduras. Nonostante fosse stato inserito nel canale degli MPP per fare richiesta di asilo negli Stati Uniti, decise di saltare le udienze per la richiesta di asilo e di fare ritorno al paese per risalire insieme ai suoi. Solo dopo alcuni mesi Hugo è riuscito a parlare con uno degli psicologi di MSF. “Gli dissi che dormivo spesso, che vedevo e sentivo delle cose. Ero molto malato, a volte mi sembrava che la mia testa stesse esplodendo. Iniziai a pensare a come suicidarmi per smettere di sentire così tanto dolore”, racconta.

Al momento in cui è stata raccolta la sua testimonianza, Hugo si trovava ancora in Messico. Era ancora in attesa dell’esito della loro richiesta di asilo, ma almeno era insieme alla sua famiglia. “Dopo esserci ripresi abbiamo lasciato Città del Messico, ora aspettiamo in un rifugio sostenuti da un’altra organizzazione che si occupa di darmi le medicine. Se ho bisogno di parlare con lo psicologo di MSF posso farlo telefonicamente”.

  1. Ne ho scritto qui
  2. Sexual and gender-based violence | Doctors Without Borders – USA
  3. Stralci di una testimonianza raccolta dai membri di Medici Senza Frontiere al confine settentrionale del Messico.
  4. The “Migrant Protection Protocols” | American Immigration Council
  5. Messico: Fornire assistenza sanitaria mentale tanto necessaria ai migranti a Matamoros | Medici Senza Frontiere – USA (doctorswithoutborders.org)
  6. Stralci di una testimonianza raccolta dai membri di Medici Senza Frontiere al confine settentrionale del Messico.

Rossella Marvulli

Ho conseguito un master in comunicazione della scienza. Sono stata a lungo attivista e operatrice nelle realtà migratorie triestine. Su Melting Pot scrivo soprattutto di tecnologie biometriche di controllo delle migrazioni sui confini europei.