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Il disastro umanitario del regime migratorio australiano

di Eleanor Devay*, Other news (19 gennaio 2022)

Vent’anni di crudele politica anti-immigrazione hanno lasciato migliaia di richiedenti di asilo in un limbo, detenuti in prigione offshore o in hotel commerciali sulla terraferma.

I problemi di visto del famoso tennista Novak Djokovic in Australia hanno conquistato i titoli dei giornali internazionali, ma dietro questa storia di trattamento speciale riservato all’élite, si nasconde un vero disastro umanitario: per anni, il governo australiano ha utilizzato isole-prigioni e hotel commerciali, incluso quello in cui Djokovic è stato detenuto, come prigioni a lungo termine per immigrati.

Le persone detenute in queste strutture sono intrappolate in un limbo, ostaggi di una politica di sicurezza delle frontiere intransigente che maschera la detenzione a tempo indeterminato e l’elusione della protezione internazionale dei rifugiati con la deterrenza usata come risposta umanitaria. I leader politici affermano di voler “fermare le barche“, smantellareil business dei “trafficanti di esseri umani” e “porre fine alle morti in mare“, ma la realtà smentisce la loro retorica. Come Djokovic, ai rifugiati e ai richiedenti d’asilo viene detto che sono “liberi di lasciare [il paese] in qualsiasi momento“, ma a differenza di Djokovic, non hanno un posto sicuro dove andare.

Per anni il governo australiano ha usato prigioni sulle isole e hotel commerciali come carceri per immigrati.

Le radici di questa vergogna risalgono a vent’anni di crudele e sempre più assurda politica anti-immigrazione in Australia. Nel settembre 2001, durante le settimane successive agli attentati dell’11 settembre negli Stati Uniti, il parlamento ha approvato una legge che “escludeva” diversi territori australiani dalla zona di immigrazione del paese.

Questa strategia giuridica limitava la possibilità delle persone che arrivavano in questi luoghi di chiedere asilo e, secondo il governo australiano, permetteva ai funzionari dell’immigrazione di trasferire, per la detenzione e l’elaborazione dei documenti, i migranti arrivati in barca e arrestati in queste zone, nelle prigioni sulle isole di Papua Nuova Guinea e Nauru, paesi un tempo governati dall’Australia, ma ora indipendenti.

Negli anni successivi a queste politiche, un numero maggiore di migranti ha iniziato ad arrivare via mare verso la terraferma australiana e nel 2013, con una assurda mossa per preservare lo schema di offshoring, il governo ha rimosso la stessa terraferma australiana dalla zona di immigrazione.
Di conseguenza, più di 3.000 persone sono state trasferite a Nauru e Papua Nuova Guinea.

Più o meno nello stesso periodo, il governo ha anche intensificato l’impegno della marina per scoraggiare gli arrivi via mare nel continente con l’ ”Operation Sovereign Borders”, che ha respinto almeno diverse centinaia di migranti dal 2013.
Nel frattempo, il Parlamento ha ripetutamente approvato leggi che aumentano il potere ministeriale sulle persone detenute e riducono drammaticamente il numero di visti per i quali i richiedenti di asilo sono eleggibili – sforzi compiuti con l’obiettivo esplicito di garantire che nessun richiedente d’asilo arrivato via mare venga ricollocato nel paese.

Questi schemi, scrive la geografa politica Alison Mountz nel suo recente libro “The Death of Asylum” (2020), sono “tra le pratiche più severe e rigide di offshore nella storia moderna dell’esternalizzazione.
(Quest’ultimo termine si riferisce all’estensione o “esternalizzazione” dei controlli sull’immigrazione oltre i confini terrestri nel tentativo di impedire ai migranti di mettere piede in territori che farebbero scattare tutele legali – una pratica eseguita anche dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea).

Il costo umano è immenso.

Quando l’organizzazione umanitaria Medici senza frontiere (MSF) ha aperto una clinica a Nauru alla fine del 2017 ha scoperto che il 60% dei rifugiati e richiedenti asilo aveva pensieri suicidi, una percentuale simile aveva depressione moderata o grave, e il 30% aveva tentato il suicidio, compresi bambini dell’età di nove anni.

La sofferenza psichica a Nauru è tra le più gravi che MSF abbia mai visto”, ha affermato l’organizzazione, “includendo anche i progetti di assistenza alle vittime di tortura”.

Questa situazione è il risultato diretto delle posizioni intransigenti dei due principali partiti politici del paese: Il Partito Liberale conservatore e il Partito Laburista del centro-sinistra.
Entrambi hanno appoggiato misure estreme volte a scoraggiare le richieste d’asilo, rendendo quasi impossibile aumentare le protezioni per i migranti, malgrado il dissenso dei Verdi e di alcuni indipendenti.

Un raro, anche se piccolo, passo avanti è avvenuto nel febbraio 2019 quando il membro del Parlamento Kerryn Phelps, un medico ed ex capo dell’Australian Medical Association, ha introdotto quello che è diventato noto come il “Medevac Bill“, che ha rivisto le procedure per portare i migranti detenuti al largo sulla terraferma Australiana per cure mediche, rafforzando il ruolo dei medici e indebolendo il ruolo dei funzionari governativi. La coalizione liberal-nazionale al governo ha criticato la proposta, dicendo che avrebbe posto fine al controllo sovrano dei confini della nazione, ma una manovra strategica ha contribuito a far passare il disegno di legge nel marzo 2019 e nei dieci mesi successivi centinaia di rifugiati detenuti a Nauru e in Papua Nuova Guinea sono stati trasferiti in Australia sotto i suoi auspici. A dicembre, tuttavia, i venti politici erano già cambiati e il governo ha abrogato la legge.

Le radici di questa vergogna risalgono a vent’anni di crudele e sempre più assurda politica anti-immigrazione in Australia.

È questa mossa perversa che ha portato alla situazione attuale. Prima della legge Medevac, centinaia di rifugiati detenuti al largo dell’Australia erano stati trasferiti per ricevere cure mediche. Alcuni sono stati riportati lì dopo le cure, mentre altri sono stati collocati in una “detenzione comunitaria” un po’ meno rigida sulla terraferma o, con l’aiuto di team legali e campagne pubbliche, hanno avuto accesso a visti temporanei. Oggi, con le condizioni politiche che non favoriscono i ritorni offshore (in parte a causa del COVID-19 e in parte a causa del recente fallimento degli accordi di detenzione offshore con la Papua Nuova Guinea), e con il governo australiano amareggiato dalla sconfitta iniziale del Medevac, le rivalità parlamentari stanno guidando la politica: lasciando la moltitudine di rifugiati Medevac intrappolati nel limbo dei complessi alberghieri.

La storia che ha rivelato questa pratica è stata pubblicata nel dicembre 2019 con il titolo: “La maggior parte delle persone trasferite secondo la legge Medevac ora vive in hotel e appartamenti“, veicolando in modo errato un senso di comfort, libertà e generosità pubblica. Nei mesi successivi sarebbe stato confermato che gli hotel avevano ricevuto contratti stabili a lungo termine per la detenzione a tempo indeterminato e non per brevi soste o accordi transitori. Alla fine del 2020 Mardin Arvin, autore e traduttore curdo, ha descritto in modo toccante come fosse questa detenzione. All’epoca della stesura del testo, era rinchiuso contro la sua volontà in un hotel a Melbourne da circa dieci mesi. Avrebbe trascorso altri tre mesi lì, e cinque settimane in un altro hotel, prima di essere rilasciato. Questa reclusione è avvenuta dopo più di sei anni di detenzione in Papua Nuova Guinea, prima sull’isola di Manus e poi nella capitale, Port Moresby.

Questo regime di immigrazione è allo stesso tempo un disastro umanitario, una politica di deterrenza fallita e un affare costoso: si stima che detenere i rifugiati in hotel sul continente costi 471.500 dollari australiani all’anno, a persona, e i costi annui della detenzione offshore hanno sistematicamente superato 1 miliardo di dollari australiani. Tuttavia, questo regime sembra non avere una conclusione all’orizzonte. Attraverso una richiesta di libertà di informazione, l’avvocato per i diritti dei rifugiati Alison Battisson ha scoperto che, nei diciotto mesi trascorsi da uno dei suoi clienti in un hotel-prigione, erano state inviate solo due e-mail sulla possibilità del suo rilascio. “Si stanno vendicando l’uno dell’altro sacrificando le nostre vite“, ha detto Farhad Rahmati, rifugiato iraniano e attivista schietto che fino a febbraio 2021 è stato detenuto con questo sistema. Da allora ha ottenuto un visto di protezione dagli Stati Uniti, ma il destino di altri è stato meno sicuro. A ottobre 2021, 228 persone erano ancora detenute in Papua Nuova Guinea o Nauru, mentre altre centinaia avevano un visto temporaneo o erano detenute sul continente. Altre 30.000 persone intrappolate in questo sistema hanno un futuro altrettanto incerto.

La maggior parte di coloro che sono detenuti al largo dell’Australia sono stati formalmente riconosciuti come rifugiati grazie alla determinazione del loro status in base al diritto internazionale. Il loro bisogno di protezione permanente è stata quindi riconosciuto, ma l’Australia non sta rispettando l’obbligo internazionale di fornirla.

Nel linguaggio burocratico del codice dell’immigrazione australiano, gli hotel-prigioni per rifugiati vengono definiti come “luoghi di detenzione alternativi” (APOD). Già nel 2008, lo studioso Joseph Pugliese aveva messo in evidenza “l’inventiva del Dipartimento per l’Immigrazione nella sua capacità di trasmutare diverse modalità di alloggio di civili in strutture simili a carceri”. Sebbene la classificazione AOPD sia stata applicata a vari edifici per decenni, i limiti legali rimangono vaghi. Secondo il Dipartimento per l’immigrazione, gli APOD sono «luoghi che sono stati specificamente autorizzati per la detenzione dei migranti che non sono un IDC [centro di detenzione per immigrati], IRH [alloggi residenziali per immigrati] o comunità detentive», come scuole, ospedali, hotel e persino strutture correzionali. Attraverso un gioco di parole, gli APOD sono quindi luoghi «per» la «detenzione» che tuttavia non sono «centri di detenzione» e sono definiti senza limiti sulla loro natura o durata di servizio.

Le condizioni precise di detenzione dipendono dall’hotel. Alcuni hanno letti a castello, altri letti matrimoniali. Vi sono stanze condivise e private. Alcuni hanno stanze con balconi, mentre altri non hanno accesso all’aria fresca. Un grattacielo avrebbe detenuto rifugiati nei suoi settanta piani.

Il Mantra Bell City Hotel, nella periferia nord di Melbourne, è un esempio di come, come dice la criminologa Claire Loughnon, «si creino luoghi e pratiche di violenza comuni» negli spazi quotidiani. Il Mantra è un imponente e anonimo edificio grigio composto da diverse ali, come un gigantesco sottopentola di cemento e vetro. Ex ospedale, è circondato da un parcheggio e si affaccia su quattro corsie di traffico intenso. I rifugiati hanno dovuto condurre una campagna di mesi per avere il permesso di aprire di quindici centimetri le loro finestre. Dopo essere stato usato come APOD per circa 18 mesi, il contratto del Mantra è scaduto nel dicembre 2020 e tutti i detenuti lì ospitati sono stati trasferiti in altri hotel-prigioni.

A differenza del Mantra, il Kangaroo Point Central Hotel and Apartments a Brisbane offriva a rifugiati e richiedenti asilo la possibilità di essere visti dall’esterno. Quando il contratto di detenzione dell’hotel è iniziato nel 2019, l’uso per detenzione costituiva solo una parte di questo “motel del tutto ordinario“.

Successivamente, quando le misure anti COVID-19 hanno richiesto la riduzione dell’occupazione di un’altra struttura di detenzione, il dipartimento dell’immigrazione ha preso in consegna l’intero complesso e i sostenitori dei rifugiati hanno istituito un blocco di protesta. Un balcone ha dato ai rifugiati la possibilità di stare dove i sostenitori potevano vederli con i loro striscioni e cartelli di protesta. Un uomo, Saif Ali Saif, salutava sua moglie e il figlio di tre anni, che vivevano a soli venti minuti dall’hotel-prigione. L’uso dell’hotel come struttura di detenzione è terminato drammaticamente lo scorso aprile, quando i proprietari dell’edificio hanno contestato l’accordo di Kangaroo Point con Serco, la società di sicurezza privata che gestisce la detenzione degli immigrati australiani.

Mentre la maggior parte dei casi Medevac erano uomini non accompagnati, diverse coppie e famiglie erano state trasferite a Darwin, nell’estremo nord dell’Australia, dove erano detenute in container. Di fronte a queste condizioni una coppia ha chiesto il ritorno a Nauru, denunciando la mancanza di “dignità e rispetto”. Un’altra coppia è stata detenuta per oltre un anno in una stanza di nove metri quadrati con un letto a castello, sul quale non potevano salire a causa delle loro condizioni mediche salire, per cui uno di loro dormiva per terra.

Il più grande hotel-prigione rimasto sembra essere il Park Hotel di Melbourne, dove è stato detenuto Djokovic. I contagi da questo edificio quando fungeva da struttura di quarantena per il COVID-19 sono stati responsabili di oltre il 90 percento della seconda ondata dello stato del Victoria. Si trova, con le finestre oscurate, all’angolo nord-est di una piazza verdeggiante a pochi minuti dal centro città e accanto al campus della principale università australiana. È forse il più impenetrabile dei siti qui descritti, anche se potrebbero essercene altri ancora più nascosti alla vista.

Quando il contratto di detenzione del Park è entrato in vigore nel dicembre 2020, conteneva circa 65 uomini, trasportati in autobus dal Mantra con un’imponente scorta della polizia; nell’aprile 2021 ne erano rimasti 11, ma un mese dopo, con la chiusura del Kangaroo Point e il trasferimento di altri rifugiati detenuti per lo più ad Adelaide, il numero è salito a 35. Questi spostamenti sono diventati una routine. Nell’arco di 18 mesi Ramati è stato trasferito otto volte all’interno di due stati; in tutto il sistema di detenzione per immigrati, ci sono stati 8.000 trasferimenti forzati tra luglio 2017 e maggio 2019. Questi spostamenti spesso avvengono senza preavviso e nel cuore della notte.

L’Australia non è l’unico paese ad aver utilizzato gli hotel per la detenzione dei migranti. Nel luglio 2020 è emerso che l’Immigration and Customs Enforcement (ICE) degli Stati Uniti aveva utilizzato hotel commerciali per detenere i bambini e le famiglie presi in custodia al confine con il Messico, mettendoli sotto la supervisione di appaltatori privati. Secondo un’inchiesta del New York Times, almeno 860 persone, ancora una volta per lo più minori non accompagnati o genitori con figli, erano state detenute in hotel di aziende come Best Western, Hilton, Quality Suites, Hampton Inns, Choice Hotel, Econo Lodge e Hotel Comfort Suites. Seguì una reazione forte. Le petizioni e l’azione sindacale hanno esercitato pressioni e l’American Hotel and Lodging Association (AHLA) ha rilasciato una dichiarazione in cui condannava le detenzioni negli hotel. Il gruppo Hilton, del quale erano state utilizzate diverse sedi negli Stati Uniti, ha incolpato i titolari di franchising per i contratti di detenzione. “Questa non è un’attività che supportiamo o che vogliamo in alcun modo associata ai nostri hotel“, ha dichiarato.

In Australia non vi sono state reazioni simili. La Accommodation Association of Australia, che afferma di rappresentare oltre l’80% di tutti i fornitori di alloggi conosciuti nel paese, è rimasta in silenzio. A volte sono scoppiate proteste sia all’interno che all’esterno degli hotel-prigione, sfociate in aspri scontri con la polizia e in ripercussioni più oscure e sicuramente più minacciose per le persone detenute all’interno. Il Park Hotel è stato periodicamente pitturato con graffiti: ‘carcere per rifugiati’, ‘Centro di tortura’, ‘Vergogna’. I manifestanti fuori tengono cartelli: “Liberate i nostri amici“, “Non ci fermeremo finché non sarete tutti liberi“. Laddove le proteste sono state più sostenute – al Kangaroo Point di Brisbane e al Mantra di Melbourne – sembrano aver avuto successo nel generare pressioni pubbliche per la chiusura dei contratti di detenzione, ma la più grande mobilitazione si è verificata non per la fine della reclusione arbitraria e a tempo indeterminato dei rifugiati ma in difesa del loro accesso ai telefoni cellulari.

Dall’altra parte delle proteste c’è una schiera di potenti interessi. Uno dei pilastri principali della rete originaria degli hotel-prigione, il gruppo Accor, è anche uno dei più grandi nel settore alberghiero australiano e tra i più influenti nell’associazione stessa. Multinazionale con sede in Francia, Accor possiede le catene Mantra e Mercure. Simon McGrath, CEO di AccorHotels Pacific, è vicepresidente del consiglio nazionale della Accommodation Association, oltre ad essere vicepresidente del Tourism and Transport Forum of Australia, il principale gruppo industriale nei settori del turismo, dei trasporti e dell’aviazione. È stato premiato tre volte come “Albergatore australiano dell’anno” dalla rivista di settore HM Magazine: nell’agosto 2020, quando i rifugiati hanno segnato un anno intero di detenzione in uno degli hotel di Accor, la rivista ha persino festeggiato “Accor’s Era of Extraordinary” con una storia di copertina effusiva – e nel 2019 è stato nominato Membro dell’Ordine dell’Australia, tra le più alte onorificenze ufficiali della nazione.

Allo stesso tempo, il profilo di Accor è stato talvolta utilizzato per sensibilizzare l’opinione pubblica. Ho aiutato a coordinare una lettera aperta firmata da circa 250 persone, da attivisti di base e avvocati internazionali al capo del movimento sindacale australiano, facendo appello al CEO globale di Accor Sébastien Bazin “per garantire che il Gruppo Accor, i suoi marchi e i partner non siano più complici della violazione dei diritti umani delle persone che hanno cercato protezione in Australia”. Altri hanno chiesto il boicottaggio delle catene Mantra e Mercure, ma accordi contrattuali poco chiari hanno reso difficile per le autorità indagare o sanzionare gli imprenditori per potenziali violazioni delle leggi municipali o di altro tipo. Il Consiglio di Darebin, dove ha sede il Mantra Bell City Hotel, ha avviato un’indagine su “qualsiasi possibile violazione del permesso di pianificazione del Mantra Bell Hotel, dato che l’hotel si è ora trasformato in un centro di detenzione o in una prigione virtuale“. In risposta a tali campagne, Accor ha insistito sul fatto che “questi ospiti vengono trattati in modo equo” e “non crediamo che il nostro contratto con Serco Asia Pacific violi i principi dei diritti umani“.

Molte persone che hanno chiesto asilo in Australia lo hanno fatto nella convinzione che, in quanto società democratica, avrebbe rispettato e sostenuto la loro libertà di espressione e gli altri diritti umani. Invece hanno incontrato un governo deciso a metterli a tacere. Tra la mancanza di trasparenza del governo, l’intimidazione dei giornalisti in nome della sicurezza nazionale e un panorama mediatico dominato dai monopoli, riferire sulle questioni relative all’asilo è terribilmente difficile in un paese che il New York Times ha recentemente descritto come “la democrazia più segreta del mondo“.

Come mostra il circo generato dal caso Djokovic, anche quando c’è il riconoscimento, è spesso limitato e quasi sempre fugace. I giornalisti in cerca di informazioni sulla star dello sport, si sono rivolti a rifugiati e richiedenti asilo. Nelle parole di Mehdi Ali, ora detenuto al Park Hotel dopo essere stato mandato a Nauru all’età di quindici anni: “È così triste che così tanti giornalisti mi abbiano contattato ieri per chiedermi di Djokovic. Sono in gabbia da nove anni, oggi compio ventiquattro anni e tutto ciò di cui volete parlarmi è questo. Lo scandalo può richiamare attenzione, ma è inaffidabile e troppo spesso passa. Indagini giornalistiche forti e coerenti in un numero limitato di fonti di informazione sono regolarmente venute alla luce in canali più tradizionali. Ma molti media seguono semplicemente la linea del governo o ignorano del tutto la situazione, limitando la pressione pubblica che può essere mobilitata per il cambiamento.

Parte del problema deriva dalle restrizioni all’accesso da parte dei media alla detenzione per immigrati, che hanno costantemente e significativamente eroso la libertà di stampa in Australia. Mentre le clausole di riservatezza sono state a lungo parte dei contratti di fornitura di servizi di detenzione, il Border Force Act del 2015 ha ulteriormente aumentato le sanzioni per chi parla. La condivisione di informazioni sulla detenzione offshore, ad esempio da parte dei lavoratori nelle strutture, è criminalizzata e punibile con una reclusione fino a due anni. Molti hanno parlato nonostante queste minacce. Tuttavia, quando Amnesty International ha cercato di indagare sulle condizioni della detenzione offshore nel 2016, i loro ricercatori hanno scoperto un’atmosfera simile a “una specie di stato fascista in cui le persone potrebbero ascoltare qualsiasi conversazione e potremmo essere gettati in prigione per aver chiacchierato“.

Reporter senza frontiere, che gestisce il World Press Freedom Index, definisce l’ambiente mediatico australiano come un “modello oligarchico” in cui “quasi tutti i media di proprietà privata sono ora di proprietà di due giganti, News Corp di Rupert Murdoch e Nine Entertainment, l’erede di un consorzio creato dalla famiglia Packer”. Nel 2020, a seguito delle incursioni della polizia negli organi di informazione e a singoli giornalisti, l’Australia è scesa di cinque posizioni fino al ventiseiesimo posto nell’indice. In risposta all’intensificarsi delle pressioni, una straordinaria coalizione di organizzazioni di media che lavorano insieme nella campagna “Australia’s Right to Know campaign for media freedom” ha cercato di sensibilizzare l’opinione pubblica, ma le condizioni rimangono preoccupanti.

Il razzismo e la crudeltà gratuita di questo regime non sono caratteristici soltanto del sistema di immigrazione australiano; pervadono le istituzioni del paese a più livelli, comprese le forze dell’ordine. (Per esempio, le persone dei popoli nativi costituiscono il 3% della popolazione australiana, ma costituiscono quasi il 30% della popolazione carceraria.) Il romanziere Richard Flanagan ha parlato della “malattia del conformismo” che ha preso piede in Australia, diffusa, sostiene , da “una corrosione dell’idea della verità e da un attacco prolungato a coloro le cui opinioni differiscono da quella del potere”.

Come prova, indica il trattamento dei richiedenti asilo e dei rifugiati: “una ferita sanguinante nel cuore della nostra vita pubblica“. Molti hanno lottato instancabilmente per porre fine alla crudeltà, a cominciare dagli stessi rifugiati. Eppure la vita pubblica per lo più va avanti, imperturbabile dinanzi alla detenzione ad oltranza di persone vulnerabili e perseguitate – negli hotel-prigione e in altre strutture sul continente e nelle isole del Pacifico, lontane dalla vista – e alla più grande parodia dei diritti umani che è il regime di immigrazione australiano.

Il fatto semplice e scandaloso è che il governo australiano semplicemente non ha un piano umano per le persone che vengono via mare per chiedere asilo.

Il fatto semplice e scandaloso è che il governo australiano semplicemente non ha un piano umano per le persone che arrivano via mare per chiedere asilo. Languiscono, per anni, su isole lontane e ora, da vicino, nelle sterili stanze degli hotel-prigione. “Non so se riesci a capirlo“, ha scritto Arvin da uno di loro. “Puoi?” Il potere di liberare i profughi spetta, amministrativamente, al ministro dell’Immigrazione, Alex Hawke, ma spetta ai cittadini fare pressioni su di lui perché lo faccia, rifiutandosi di tollerare le violenze compiute in suo nome. Le persone non possono opporsi a un’ingiustizia che non vedono. La sfida odierna resta quella di convertire l’attenzione in rifiuto e il rifiuto in azione.

*Eleanor Davey è una storica dell’umanitarismo e dell’attivismo. Il suo libro «Idealism beyond Borders: The French Revolutionary Left and the Rise of»