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Il campo di Lipa
Il campo di Lipa, febbraio 2022. Photo credit: Associazione Open Your Borders
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La nozione di «campo»

Eterotopie emergenziali: dai totalitarismi del novecento ai campi profughi

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«I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo». È da questa riflessione che è nata l’idea di una rubrica tutta dedicata alle parole. Parole che creano significati, li riproducono e, allo stesso tempo, sono il punto di partenza per comprendere il nostro mondo e decostruirne la naturalezza, l’oggettività data.


La parola «campo» è un termine generico cui ci si riferisce per connotare quell’insieme di spazi fisici confinati che ospitano temporaneamente quelle categorie di persone la cui presenza sul territorio non è ancora stata regolarizzata o, non è regolarizzabile del tutto. Il campo chiuso e recintato per rimarcare il suo stato di estraneità e lontananza rispetto ai luoghi esterni della socialità, della politica e della cittadinanza, è il frutto delle azioni dei confini Statali, produttori di uno spazio politicamente incollocabile, perché colmo di persone inclassificabili.

L’architettura e la gestione di tali strutture sembra rispondere ad un tipo di situazione emergenziale dal quale è esente ogni forma di analisi strutturale volta ad inquadrare il fenomeno all’interno di una crisi più complessa. Il carattere transitorio e imprevedibile che permea la retorica dell’immigrazione legittima l’instaurarsi di un sistema allo stesso tempo definitivo e provvisorio; riducendo la vita dei suoi residenti all’essenziale mostra così tutti i suoi limiti concettuali, insufficienti a fornire risposte adeguate ad un fenomeno che di emergenziale ha solo la sua conduzione.

Il paradosso di queste strutture infatti tende a far convivere due spinte in conflitto: allo stato provvisorio richiamato dall’attuale sistema di accoglienza, coincide in realtà un lungo processo ad ostacoli, cui non corrisponde sempre esito positivo, determinato da infinite attese e percorsi inclusivi inesistenti.

«Emergenza» allora è l’appellativo risultante dal generarsi di risposte provvisorie a questioni sistemiche più ampie in cui la violenza burocratizzata investe con tutta la sua forza la definizione di «accoglienza» per mostrare la sua reale entità di spazio di internamento produttore di una marginalità coatta e brutale.

Andrebbe richiamata la definizione di Agamben sullo Stato d’eccezione: tale stato legittima infatti la sospensione dell’ordinamento, garantendo il suo perpetuarsi all’interno di uno spazio al di fuori della legge. «Lo stato d’eccezione non è una dittatura (…) ma uno spazio vuoto di diritto, una zona di anomia in cui tutte le determinazioni giuridiche sono disattivate». (G. Agamben 2003: 66). Lo stato di emergenza, costringe, in virtù della conservazione dell’ordinamento vigente, a sorvolare sui singoli casi e ad aprire delle lacune nelle quali il vuoto viene colmato proprio dal ricorso all’eccezionalità dell’evento.

Hanna Arendt nel suo trattato «The Origins of Totalitarianism» ha sviluppato una serie di riflessioni attorno al concetto di cittadinanza attraverso l’esamina delle cause che hanno portato allo sviluppo dell’antisemitismo europeo nel XIX secolo e del colonialismo europeo, e dei totalitarismi del 900, nella Germania nazista e nella Russia comunista.

Quest’analisi è un’approfondita indagine sulle cause strutturali che hanno determinato l’emergere di strategie politiche permeate da ideologismi e nazionalismi claustrofobici.

Dalla nascita dell’anti-semitismo e delle nuove correnti nazionaliste, la Arendt ripercorre quel lento processo che ha determinato la nascita di uno spazio di confinamento in cui internare gruppi di persone prive di riconoscimento giuridico. Dai primi campi coloniali, ai lager nazisti, sino ai campi profughi odierni, il campo, inteso come «spazio altro», definisce un confine politico all’interno del quale segregare quegli individui che hanno in qualche modo varcato i limiti di un’unità definita e riconoscibile, dissacrandola e minacciando di alterarne il senso. I campi insomma rispondono di volta in volta a necessità e scopi diversi, pur conservando nel loro profondo una semantica assoluta che ne annulla «l’ipotesi inclusiva, il limite estremo di un ordine politico e l’entropia che così si produce». (F. Rahola 2013: 4).

Ritornando alle analisi della Arendt, l’instabilità a cavallo tra le due guerre ha comportato lo spostamento di milioni di persone all’interno del territorio europeo. Con la fine dell’impero austroungarico, tutti i territori vengono divisi in Stati, e quindi in minoranze che, prive di un apparato burocratico centralizzato, determinano la fine al legame tra Stato come organo di governo e nazione in quanto popolo.

Si presenta così l’urgenza di definire nuovi parametri attraverso cui gestire gli apolidi, indesiderati dalle nazioni di provenienza, e non regolarizzabili all’interno dei territori sui quali transitavano. Bisogna decidere tra l’assimilazione e la liquidazione. Queste migrazioni, fenomeno dal carattere inusuale e assolutamente nuovo, hanno costretto gli Stati a sviluppare urgentemente degli strumenti per regolarizzare la presenza di queste minoranze all’interno del territorio statale.

Sempre nel corso del XIX si assistette all’impetuosa espansione del colonialismo; con la nascita dell’imperialismo, le idee sulla razza divengono vere e proprie ideologie determinando l’aspirazione a creare più cooperazione a livello nazionale. Rifacendosi ad un tipo di nazionalismo tribale, secondo cui un popolo è stato scelto da dio per dominare sugli altri, si concepiva un tipo di organicità nazionale in cui solo la divisione del proprio popolo avrebbe potuto limitare la possibilità di porre rigide gerarchie naturalizzate dall’ordine divino.

Migrazioni e instabilità prodotte dalle guerre coloniali costrinsero lo Stato ad introdurre particolari trattati di pace e permessi d’asilo che non potevano in ogni caso essere estendibili ad intere comunità. Secondo la Arendt è in questa fase che si prende pian piano coscienza del fatto che intere classi di individui non possono essere assimilati ad uno Stato.

Il migrante, l’apolide, si trasforma in una figura indesiderata, determinando uno slittamento tra la figura quasi eroica dell’espatriato a quella del miserabile illegale connotato da un’aurea di anonimato politico e grande miseria. Il problema dell’assimilazione delle minoranze sancì in tal modo una spaccatura tra l’integrità del popolo come corpo politico unitario e tutto il resto; un processo che culminò nella rimozione della cittadinanza per tutti quelle minoranze ritenute non appartenenti allo Stato perché non ritenute non degne.

È stato il caso del Belgio ad esempio che nel 1922 rimosse la cittadinanza a tutti coloro che avevano commesso azioni “anti-nazionali”, o anche dell’Italia che nel 1926 la rimosse per tutti i dissidenti politici.

L’espressione displaced person, viene in tal modo coniata per riferirsi a quella categoria di persone senza patria. La rimozione del diritto d’asilo determinò l’insorgere di nuove riflessioni rispetto al rapporto che gli individui deterritorializzati intrattenevano con lo Stato sul quale risiedevano.

Non potendo ricorrere ad uno status giuridico per gli apolidi, diveniva complesso anche l’esilio dato che l’attraversamento dei confini senza cittadinanza diveniva di fatto un atto illegale che comportava pene detentive.

Negli anni trenta la nascita del campo come spazio temporaneo nel quale poter confinare le persone prive del titolo di cittadinanza, o comunque non assimilabili all’ordinamento, risulta funzionale alla determinazione di un assetto territoriale che sebbene si trovi all’interno dello Stato, si trova al di là del suo ordinamento costituzionale.

A dire il vero i primi campi sono sorti durante il periodo coloniale come diretta conseguenza dell’instabilità politica prodotta dalle guerre. Nel periodo nazista poi, l’eccezione temporale delle norme viene stabilmente ricondotta ad uno stato di normalità ed il campo assume le forme di uno spazio sul quale scaricare e cancellare definitivamente un’umanità innominabile.

L’analisi della Arendt sul totalitarismo nazista tenta di individuare i significati più prossimi del campo come spazio fisico e allegorico, evidenziando i processi incontrollati che avvengono al suo interno come diretta conseguenza della simbologia su cui regge la sua esistenza. L’espressione più prossima, sebbene estremizzata, dell’ideologia su cui si fondano tali luoghi vedono la loro migliore espressione all’interno dei meccanismi alla base dei totalitarismi.

Per tali regimi infatti il campo è un laboratorio per l’annichilimento della personalità; rappresenta uno spazio chiuso in cui il prigioniero fa esperienza costante di violenza e segregazione; l’inumanità attanaglia ogni aspetto della sua esistenza, definendosi come strumento attraverso cui interiorizzare la propria animalità.

De-umanizzazione del soggetto politico e del soggetto morale sono i parametri sui cui reggono le pratiche dei campi, nate da un misto di nazionalismo e razzismo incontrollato. Il processo di de-umanizzazione passa attraverso lo sviluppo di un’idea di sé che annulla ogni forma del sentire e agire umano. Nel periodo nazista la riduzione delle esistenze a nuda vita e dunque prive di diritto e personalità morale, giustificava il perpetuarsi di un uso massiccio di violenza senza tuttavia farlo apparire come un crimine. A tal proposito sembra pertinente riprendere le riflessioni di Agamben sui lager nazisti. In questi campi, per il filosofo, si consuma il paradigma della modernità che, come continua definizione di quell’eccezionalità che ne giustifica la gestione diventandone poi prassi, persegue il compito di contenere quelle minoranze che rappresentano una minaccia per l’integrità nazionale.

I lager nazisti non devono essere comparati ai campi profughi; definire i processi che hanno portato alla nascita dei primi serve da premessa per comprendere i campi del presente, per capirne le logiche di de-naturalizzazione, per inquadrare il campo all’interno di quelle premesse su cui si ergono i suoi significati più prossimi, per comprenderne le sue esigenze politiche e sociali.

Il potere di uno Stato di concedere, rimuovere o negare arbitrariamente diritti a classi di individui evidenzia in tutta la sua forza l’ambiguità nella definizione di diritti umani universali. Tolti infatti i diritti della cittadinanza che garantiscono diritti a quanti appartengano ad un determinato Stato, quel che rimane degli apolidi senza patria è la negazione di un qualsiasi status giuridico che ne riconosca un’esistenza portatrice di diritti. La legge allora per questi soggetti non-definibili racchiusi in spazi al di fuori del diritto, diviene astratta, esiste ma non può essere raggiunta.

Hannah Arendt si domanda a questo punto che diritti possono essere garantiti per la legislazione per tutti gli apolidi cui è stata sottratta o negata la cittadinanza. Insomma si mette in discussione l’inalienabilità dei diritti dell’uomo, in quanto vita, evidenziando come in ordine gerarchico tali diritti risultino essere inferiori a quelli del cittadino, in quanto soggetto appartenente ad uno territorio e quindi ad uno Stato. Questi individui sono soggetti la cui sorte ha un valore minore rispetto al cittadino appartenente ad uno Stato. Per la Arendt la morte di un non-cittadino, ha un peso minore rispetto alla morte di un cittadino all’interno della società. Infatti essendo soggetto invisibile, al di fuori della società, l’apolide, come il profugo, sono considerati come lontani dal proprio ordine morale-territoriale.

L’analisi della Arendt mostra un nesso di ineludibile causalità tra l’esclusione giuridica e sociale degli individui e quei processi di auto-percezione che comportano uno sviluppo di denaturalizzazione della propria personalità. Il campo risponde infatti alla necessità di sospendere il diritto per quanti lo abitano; è determinato dalla necessità di naturalizzare le presenze su di un territorio senza tuttavia poterle regolarizzarle per davvero.

Rappresentando uno «spazio altro», il campo si pone con l’esterno in una dialettica di esclusione; la sua posizione geografica di marginalità rispetto all’ambito sociale e del diritto indica uno stato di sospensione legislativa volta a rimarcare il carattere di non appartenenza dei suoi residenti. Nella lunghissima attesa di un riconoscimento o di un rimpatrio si è costretti ad una stanzialità forzata cui corrisponde uno stato di incertezza giuridica, identitaria ed esistenziale. I campi indica proprio questo, luoghi di segregazione spaziale, di invisibilità identitaria, di sospensione giuridica, in definitiva «surrogati di patrie impossibili» (H. Arendt 1966: 394).

Sono chiari dispositivi che dispongono di procedure disciplinari e di sorveglianza, rispondendo alla pretesa generalizzante di uniformare una pena unica, il campo, spazio chiuso che si instaura in un contesto qualunque, pur volendosi differenziare da esso e costituendosi attraverso le dovute demarcazioni, come eccezionalità rispetto all’ordinario.

L’essere confinati ai margini di un contesto sociale, lontani dalla società civile definisce, separandoli, due luoghi abitati da due classi di individui: i portatori di diritto e quelli che vivono nell’ombra di un anonimato giuridico e perciò privi di diritti. Se il concetto di persona è una definizione che può esaurirsi solo in riferimento all’esperienza sociale, e che non può prescindere né separarsi dal diritto, al quale è legato dal momento della nascita, potremmo definire questi luoghi come uno strumento per disegnare nuovi parametri attraverso i quali interfacciarci ad un’alterità de-naturalizzata dal diritto, il cui nome è stato sostituito da un numero di serie.

Laura Della Peruta

Sono un'antropologa ed educatrice con esperienza nel campo dei diritti umani e delle migrazioni. Il mio lavoro si concentra sulla ricerca e l'analisi delle dinamiche migratorie, con particolare attenzione agli aspetti legati allo stato, alle frontiere e alle rotte migratorie come quella balcanica e le migrazioni dal Medio Oriente, per cui ho svolto progetti di ricerca.
Ho collaborato con diverse ONG, contribuendo a progetti dedicati ai migranti e ai minori non accompagnati, con l'obiettivo di promuovere politiche e iniziative volte a tutelare i loro diritti fondamentali.