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Photo credit: Claudio Colotti (Micropolis)

Un gioco di ruolo: divenire rifugiato

Noi e Loro: la Retorica dell’Identità

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Quando parliamo di migrante, richiedente asilo, rifugiato, la prima immagine che ci viene in mente è quella di una persona completamente diversa e distante da ciò in cui noi solitamente ci identifichiamo, da ciò che ci definisce e ci contraddistingue come singoli individui appartenenti ad una precisa cultura. Taguieff definì questa intrinseca sensazione di differenza ed impossibilità al compromesso con i termini «razzismo differenziale». Con questa definizione lo studioso intendeva indicare la tendenza di ogni individuo a percepire sé stesso etnocentricamente unico e questa unicità è data dal fatto che «due soggetti si escludono necessariamente a vicenda». Questa irresolubile differenza funge da base ed è chiaramente visibile nei discorsi portati avanti dai leader politici di destra, particolarmente da individui come Giorgia Meloni e Matteo Salvini.

Giorgia Meloni, Il Messaggero, 2020

Questi tre semplici esempi, che sono solo alcune delle dichiarazioni presenti sulle principali pagine web dei rappresentanti dei partiti “Lega” e “Fratelli d’Italia”, sono la raffigurazione concreta di come il razzismo differenziale, o nel gergo sociologico «Retorica dell’Identità», funziona (Powell 2005). Il fulcro fondamentale di questa strategia è la radicalizzazione dell’appartenenza ad una nazione come fattore biologico imprescindibile che deve necessariamente essere protetto dalla minaccia di colui che, con il suo patrimonio culturale, può rischiare di comprometterlo. Nonostante il termine «razza» non è mai utilizzato direttamente, la dinamica di differenziazione “noi/loro” non è assolutamente distante dal becero razzismo che mosse le azioni di esclusione e ghettizzazione avvenute durante la Seconda Guerra mondiale.

Il linguaggio diviene lo specchio di un quadro fittizio in cui il migrante è dipinto: le caratteristiche di questi, da come si evince dagli esempi elencati qui sopra, sono «loro, straniero, alieno, nemico, diverso» opposte al radicale «noi, innocente, amico, naturale», ovvero il cittadino (Koselleck, 1985).

La società dell’incredulità e della «meritevolezza»

La retorica dell’identità è il risultato, ed insieme causa, di un insieme di credenze, pratiche e valori che mantengono e rinforzano la divisione “noi/loro”; alcune di queste sono rappresentate dalla forzatura a cui il migrante è costantemente sottoposto dalla società occidentale e che S. Khosravi (2010) ha definito «società dell’incredulità». In un ambiente di scetticismo e disinformazione, l’obiettivo delle autorità non è più quello di aiutare l’altro ad essere integrato e di stabilire o comprendere la sostanza dell’individuo, ma è quello di screditarne le affermazioni e capacità razionali: lacune, incongruenze e mancanza di dettagli sull’esperienza vissuta sono i mezzi utilizzati per distruggere la credibilità della persona. L’agente non è più inteso come essere pensante ma ne viene dubitata la capacità di dar senso alla propria esperienza (Fricker, 2007). Tutto ciò è comprovato dall’iter burocratico che un richiedente asilo deve affrontare per ottenere la protezione a lui dovuta di diritto: dalla presentazione della domanda alle Questure, all’interrogatorio attuato dalle Commissioni esaminatrici.

«Le ferite sono più affidabili delle parole»

Come sottolinea Anderson, i confini della «comunità di valore», ovvero il gruppo composto dai cittadini, coloro con i valori che riflettono la società accogliente e di cui fanno parte, sono permeabili. Coloro che riescono a sorpassarli è perché si sono dimostrati degni di essere accolti ed aiutati: meritevoli. Questa esclusività si verifica, infatti, perché la «cultura dell’incredulità» si basa sul presupposto della meritevolezza: un migrante merita aiuto se è in grado di dimostrarne la necessità, dunque se ha sofferto. Una delle prime azioni che un richiedente attua, infatti, nel fare la domanda di asilo o nel presentare sé stesso sia alle autorità che agli enti che lo aiuteranno a districarsi nelle catene burocratiche, è di mostrare le foto di ciò che personalmente gli è successo: il viaggio in sé, i parenti o amici uccisi in attentati o da sicari, ferite dovute alle armi più terribili, bruciature causate dall’olio bollente, e cicatrici. La sofferenza, infatti, deve essere visibile e rintracciabile, oggettivamente evidente:

«Le ferite corporee sono più affidabili delle parole» (Malkki, 1997, 232).

Non solo le cicatrici sono i testimoni di un terrore subito, ma anche il comportamento diventa un mezzo specifico utilizzato per teatralizzare la sofferenza: il soggetto deve plasmare sé stesso per corrispondere al ruolo di «persona in difficoltà», di migrante. Per far in modo che il richiedente sia accettato alle porte della Questura, deve avere la capacità di tradurre la propria storia nel linguaggio giuridico eurocentrico e recitare il ruolo che NOI ci aspettiamo da un rifugiato. «Essere un rifugiato è una questione di divenire» (Malkki, 1997, 228).

La performance del migrante è, perciò, il risultato di una mentalità che tende a vittimizzare l’altro per giustificare una forma di aiuto. Molte associazioni no profit, per esempio, si assicurano che, prima di affrontare la Commissione esaminatrice, il migrante si presenti per essere educato e preparato sul cosa dire e come parlare. Quello che deve essere detto è quello che la Commissione vuole sentire: nessuno spazio per il divertimento, l’azione, l’auto-rappresentazione o il background individuale. Il ruolo della vittima deve apparire, spogliato della specificità della cultura, del luogo e della storia (Malkki, 1995). Il tema centrale del discorso e del comportamento deve essere il dolore; il rifugiato deve dimostrare che merita di essere aiutato.

È in questo modo che la società spinge lo straniero ad agire come il «tipo ideale di migrante» accettato e, paradossalmente, allo stesso tempo escluso. La vittimizzazione priva l’individuo della sua storia, delle sue emozioni, personalità e capacità intellettuale, trasformando il migrante in un pericoloso alieno privo di umanità. Dunque, è il cittadino che categorizza il rifugiato in ciò che più viene temuto ed è proprio escludendo la differenza dell’altro che si forma e si stabilisce l’identità della comunità. È attraverso la definizione di ciò che non è che definiamo ciò che siamo.

Come ha sottolineato Sartre (1989), è attraverso la categorizzazione dell’altro come oggetto che creiamo la nostra soggettività. Criminalizzare i non cittadini è, quindi, preminentemente un modo di costituire la cittadinanza (Isin, 2002). Dunque, è tramite l’illegalizzazione dei migranti che si crea e mantiene lo status nazionale e legale che definisce il così detto “NOI”. Secondo l’ideologia nazionalista per cui tutti gli esseri umani dovrebbero appartenere a una nazione che definisce i loro valori, la loro cultura e la loro identità, al di fuori di questo spazio costitutivo non c’è spazio per l’umanità. Così, quelli al di fuori dell’ordine nazionale sono concepiti come innaturali. «Essere cittadini non è solo avere un diritto umano, ma diventa la natura dell’essere umano» (Khosravi, 2010, 133).

Anche se i programmi di integrazione europei a livello formale hanno cominciato ad essere implementati, la crescita dei partiti di destra con le loro ideologie mostra la necessità di un ulteriore sforzo nella lotta contro le tendenze razziste e xenofobe.

L’etica dell’ospitalità

In primo luogo, la mancanza di consapevolezza delle dinamiche di esclusione ed il loro mantenimento sono utilizzati per conservare ed incrementare la vulnerabilità dei migranti. Diventa, dunque, sempre più chiaro quanto sia oggi necessario mostrare la struttura oppressiva nascosta sotto la maschera della tolleranza e del rispetto.

Un possibile punto di partenza per la ricostituzione dell’umanità perduta è cambiare il modo in cui la diversità viene approcciata. Questo è possibile solo quando si comincia a ripensare il confine partendo dall’inizio della sua creazione, in senso fisico: l’Europa. Come sottolinea Agamben, «è necessario decostruire lo stato-nazione, ossia il luogo in cui i cittadini costruiscono confini che dividono il ‘noi’ dagli ‘altri’; solo allora è concepibile la sopravvivenza politica ed etica del genere umano» (2000, 25). Che cosa riguarda dunque, l’apertura all’incertezza? Essa ha a che fare con il coraggio e l’educazione all’ospitalità, intesa come «l’ethos, ovvero la residenza, la casa, il luogo familiare della dimora nella misura in cui è un modo di essere, il modo in cui ci relazioniamo a noi stessi e agli altri, come nostri amici o come estranei. L’etica è ospitalità» (Derrida, 2008, 17).

Rompere i confini è un dovere che dipende da ogni individuo il cui obiettivo sarà quello di distruggere i limiti che rinchiudono e limitano la nostra società attraverso il potere della conoscenza, della curiosità e dell’apertura.

Ovviamente tutto ciò non può essere fatto senza il supporto di politiche inclusive che creino spazi di comunicazione ed interazione.


Bibliografia:

  • Agamben G., Homo Sacer: Sovereign Power and Bare Life, 1998, Stanford: Stanford University Press.
  • Anderson B., Us and Them? The Dangerous politics of immigration Control, 2013, oxford university press.
  • Derrida J., On Cosmopolitanism and Forgiveness, (2001) 2008, London: Routledge.
  • Fricker M., Epistemic Injustice: Power and the Ethics of Knowing, 2007, Oxford: Oxford University Press.
  • Isin, E., F., Being Political: Genealogies of Citizenship, 2002 Minneapolis: University of Minnesota.
  • Koselleck R., Futures Past: On the Semantics of Historical Time, 1985, Cambridge: MIT Press, Pp. xxvi, 330.
  • Khosravi S., Illegal travellers an Auto-ethnography of borders, 2010 Series Editor: Christien van den Anker, Reader, Department of Politics, University of the West of England, UK.
  • Malkki, L., Purity and Exile: Violence, Memory, and National Cosmology among Hutu Refugees in Tanzania, 1995, Chicago: University of Chicago Press.
  • Malkki L., Speechless Emissaries: Refugee, Humanitarianism, and Dehistoricization, 1997 in Olwig, Fog and Hastrup, Kristen (eds) Siting Culture, London: Routledge, 223–254.
  • Powell G. A. Jr., Rhetoric of Identity: An inquiry into symbolic syntax and composition of Black identity in in “Bamboozled”, 2005, Journal of African Studies, Vol.9, No. 3 pp. 45-53.
  • Sartre J-P., No Exit and Three Other Plays, 1989 (1944), New York: Vintage.
  • Taguieff, P. A., The strength of prejudice, 1987, Paris: Editions la Decouverte.

Monica Gaiani

Ho una laurea in Filosofia e sono una laureanda magistrale in “Philosophy, Politics and Public Affairs”. Ricercatrice e volontaria presso il Naga Har, mi occupo prevalentemente di ciò che concerne l’analisi socio-filosofica e strutturale di alcuni fenomeni legati all’immigrazione, come le dinamiche di oppressione e de-umanizzazione.