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Photo credit: Michał Mitoraj
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I confini della leggibilità

Esistono confini visibili ed altri più sottili e parlare di frontiere non significa far riferimento solo a spazi fisici

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Quando penso ai confini mi vengono subito in mente i colori delle mappe geografiche che disegnano i contorni di un paese, distinguendolo dall’altro. Un mosaico di forme e sfumature che si concatenano l’un l’altro offrendoci una spettacolare rappresentazione delle diversità globali. Ma a cosa corrisponde questa raffigurazione se non ad uno strumento naturalizzato attraverso cui poter leggere il mondo?

Cosa rappresentano queste zone se non linee immateriali artificialmente costruite?

I colori sulle mappe geografiche non esistono, e nemmeno le linee che disegnano tali contorni, non sono così netti, definititi, assoluti ed eterni. I confini sono in effetti delle semplici convenzioni che delimitano, tracciandole, entità diverse. Nella loro ambizione classificatoria costruiscono categorie esprimendo allo stesso tempo limiti e possibilità. Disegnano margini e bordi dell’intellegibilità e della chiarezza definendo dove finisce ciò che si conosce e separandolo così da tutto il resto, l’ “oltre” dell’alterità.

I latini delle società agricole utilizzavano il termine “finis”, da cui deriva “confine” per riferirsi ad un limite, quello del territorio, della propria regione, o della propria proprietà. Questo termine stava a indicare anche la fine di qualcosa, il termine ultimo di uno spazio o di una condizione, come la morte. Ma “con-finis” indicava invece il punto di adiacenza, di connessione. Una linea comune, condivisa che mostra l’identicità dello spazio a prescindere dalla prospettiva che si adotta per guardarlo. Il confine secondo quest’ottica diviene punto di giunzione e disgiunzione con una sua precisa utilità pratica che riconduce le basi della sua esistenza ad un bisogno ordinatore, dividendo spazi propri e separandoli dagli altri.
Tale bisogno innesca al contempo un tipo di restituzione nei termini delle influenze che ne derivano sui processi cognitivi e di lettura della realtà. Se da una parte tali opere di demarcazioni nascono da una necessità puramente umana di definirsi attraverso una logica che fa dell’appartenenza il principio fondatore della propria identità, un principio che si realizza tramite una relazione d’opposizione (io sono perché sono diverso da…), dall’altro tali artifici appaiono piuttosto come il prodotto di una casualità culturale che con il tempo, attraverso specifici rapporti di forza ha creato dei rafforzativi a tali concetti, sostenendoli attraverso l’ausilio di supporti materiali.
In entrambi i casi possiamo notare come i confini si iscrivano sui corpi delle persone, come interagiscano sulle singole percezioni e sui modi cui guardiamo al mondo, come dialoghino con i nostri vissuti, come siano rafforzativi tesi a disegnare i margini delle identità definendo i limiti oltre i quali esiste un’alterità distinta e separata ma visibile, perché è grazie ad essa che possiamo riconoscerci come unità.

L’instaurazione di tali confini sembra così funzionale alla definizione di categorie attraverso cui poter leggere il mondo.

Che si pensi alle nazioni, alle classi o ai partiti, tutte queste categorie fanno dell’appartenenza l’emblema stessa di un’identità referenziale, rafforzandola attraverso un principio separatista e d’opposizione. Sono in definitiva processi di significazione che danno senso all’utilizzo strumentale dei confini, colmandolo di significati impliciti e riferimenti allegorici.
Pensare quindi ai confini vorrebbe dire pensare non a qualcosa di esistente di per sé ma come delle delimitazioni costruite ed alimentate attraverso pratiche sociali quanto simboliche che producono l’insieme delle differenziazioni e delle categorie, i vari colori delle mappe geografiche.

Photo credit: Michał Mitoraj

Viene da domandarsi a questo punto se l’esistenza dei confini sia funzionale alla riproduzione identitaria nei termini di equazione che fa dell’appartenenza ad un territorio il binomio perfetto, o se invece sia piuttosto vero l’opposto, ovvero se la necessità a preservare la propria identità sia funzionale alla produzione di confini. La risposta è nella metà, in un limbo in cui i confini si definiscono come necessari a stabilire dettagli identitari differenziandoli da altri; questi vengono alimentati proprio dalla rigidità con cui tali confini vengono alimentati attraverso un’enfatizzazione dei tratti identitari. La conservazione dei tratti identitari perciò non sono la causa ultima dell’esistenza dei confini, ma concorrono a produrli attraverso un processo di enfatizzazione della differenza. È come se tali identità venissero percepite su dati oggettivi della somiglianza o dell’unità, qualcosa di dato naturalmente e che viene accentuato dall’alimentarsi di una narrazione originaria che fa di quest’unità un’ideologia determinante, un “dogma”, così come definito da S.F. Nadel.

Nell’era della globalizzazione in cui sempre il rapporto tra persone e luoghi sembra indebolirsi a favore di una sensibilità più ampia, il ruolo dei confini sembra affievolirsi sempre di più. Questo nuovo tipo di attitudine ha però generato un paradosso. La globalizzazione ha dato origine a nuove ondate migratorie, alimentando la mobilità, indebolendo così il rapporto che lega l’individuo ad un territorio. La globalizzazione porta con se la minaccia di un omogeneizzazione culturale che alimenta nuove forme di incertezza individuale e comunitaria, generando forme di contestazione che trovano un risvolto pratico sotto la spinta di un tipo di nazionalismo in cui la conservazione dei proprio tratti identitari si manifesta attraverso una generalizzata paura e diffidenza nei confronti del diverso. Irrigidimento dei confini, esaltazione dei propri tratti identitari, naturalizzati e storicizzati, rivendicazione dei propri spazi, sono tutte conseguenze funzionali ad un processo di differenziazione visto come unico strumento di sopravvivenza identitaria minacciata dalla contaminazione di un’alterità pericolosa. L’irrigidimento dei confini come pratica simbolica che alimenta questi tratti, sino a produrli e manipolarli, definisce allora uno spazio, fisico quanto simbolico, entro il quale pensarsi ed inserirsi come soggetto membro di un’unità definita e visibile.

Photo credit: Michał Mitoraj

Lo stesso concetto di cittadinanza si fonda sull’idea di appartenenza, un’idea che non contempla la legittimità di forme di vita fondate ad esempio sul nomadismo o sul meticciato. Delegare la possibilità di avere diritti a parametri quali l’appartenenza ad una nazione, rende chiaro il principio escludente alla base di quest’attribuzione. Non si hanno diritti in quanto uomini o donne, ma solo in quanto cittadini.
Ma se il riconoscimento della cittadinanza sancisce diritti e doveri e la possibilità di un individuo di poter partecipare alla via politica del paese cosa rimane a quanti, come gli immigrati regolari o residenti non cittadini, escono fuori da parametri che sono alla base di quest’attribuzione? Sebbene infatti godano di alcuni diritti e usufruiscano di servizi pubblici, rimangono di fatto esclusi dalla possibilità di partecipare politicamente alla vita della comunità di cui in teoria dovrebbero far parte.
Ancora una volta è evidente come i criteri che sanciscono la possibilità di poter reclamare diritti nascano da un’idea in cui è l’appartenenza ad un territorio, cioè ad una nazione, a determinare la legittimità per essere riconosciuto come portatore di diritti.
Il binomio cittadino-nazione nasce durante il XX secolo come base su cui si fonda lo stato moderno, che rafforzando l’equazione tra popolo e nazione, stabilisce quest’identificazione come determinante sul piano politico ai fini della creazione di un corpo elettorale. In questo modo lo stato moderno del XX secolo, su cui ancora si fonda la nostra amministrazione statale, determina un potenziamento del valore della cittadinanza. In questo quadro l’appartenenza, nei termini di una comprovata residenza, è vista come termine ultimo cui rivendicare la propria legittimità nelle vesti di cittadino. Allo stesso tempo la cittadinanza agli stranieri viene data in forma di concessione, solo previa verifica della permanenza sul territorio per almeno dieci anni sulla base di decisioni prese dall’amministrazione statale. L’idea di concessione risale ancora una volta a chiari principi di conservazione identitaria che mira all’assimilazione senza tuttavia contemplare un diverso grado di integrazione fondato sulla trasversalità.

La cittadinanza basata su questi criteri è una visione antiquata che andrebbe superata. Un altro tipo di frontiera da aggiungere a quelle più evidenti e tangibili.
Stiamo assistendo all’emergere di un nuovo tipo di nazionalismo tribale che nutrito da ondate di populismo e sovranismo rivendica un riconoscimento unitario ed identitario. Ma lo sforzo di ristabilire un corpo unitario non può far altro che alimentare nuove tensioni, come è successo e sta succedendo rispetto a tutte le questioni irrisolte dei Balcani occidentali, come i territori post-Sovietici, tanto della Russia con l’Ucraina. Come potrebbe essere il caso dello spazio Shengen che indebolendo i confini interni ha nel frattempo irrigidito quelli esterni. Come è ancora il caso dei rifugiati senza cittadinanza ucraina che in questi giorni stanno avendo difficoltà a lasciare il paese perché la priorità è stata data ai titolari di cittadinanza, donne e bambini ucraini.

Photo credit: Michał Mitoraj

Parlare di frontiere non significa far riferimento solo a spazi fisici. Le frontiere sono quei limiti che disegnano margini d’azione, di esclusione, di discriminazione continuamente perpetuate ogni giorno e legittimate sotto la spinta di una burocrazia violenta e sistematizzata. La stessa regolamentazione della mobilità imposta dalle frontiere rappresenta un processo di filtraggio che stabilisce indici selettivi in grado di valutare il grado di desiderabilità sulla base di una classificazione etnica e razziale. Il passaporto è uno strumento selettivo che gestisce, attraverso il controllo e l’ispezione, la mobilità, naturalizzando così un discorso sulla legittimità degli spostamenti su territori che si considerano propri.

Esistono confini visibili ed altri più sottili. Forme discriminatorie quotidiane che si sommano alla concretezza di muri e frontiere. Sono linee immateriali che gerarchizzano esistenze e stabiliscono privilegi sulla base di una visione che si dichiara post-etnica ma è ancora intrisa di nazionalismo e colonialismo velato. Sovvertire le frontiere non significa solo aggirarle fisicamente, significa capovolgere antropologicamente una logica perversa che fa della segregazione e del rifiuto l’unico strumento per preservare la propria integrità.

Laura Della Peruta

Laureanda alla magistrale di antropologia culturale ed etnologia. Vivo a Bologna e mi occupo di immigrazioni e diritti umani dal 2018; ho lavorato a Lesbo in Grecia in un campo auto-gestito per persone vulnerabili. Ho partecipato ai progetti dell'associazione "Il cerchio di via Libia" che si occupa di sostegno e pratiche di inclusione virtuosa per chi esce dai classici percorsi di accoglienza. Sto svolgendo un progetto di ricerca su Stato frontiere e migrazioni illegali e partecipando alle iniziative del collettivo "Burn" per supportare le persone in movimento nei Balcani.