Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Ottiene la cittadinanza italiana ben dopo 7 anni di attesa per un illegittimo rigetto, ma il TAR non riconosce le spese della ricorrente

Per ottenere giustizia il nucleo ha affrontato spese per i ritardi ingiustificati e i provvedimenti illegittimi di rigetto

Nel mese di maggio dell’anno 2015 la cittadina albanese ed il coniuge presentavano, presso la Prefettura di Bari, l’istanza tesa ad ottenere la concessione della cittadinanza, ai sensi dell’art. 9 comma 1 lett. F) della legge 5.02.1992 n. 91, in quanto residente in Italia da oltre 10 anni; il coniuge otteneva la cittadinanza in data 25.08.2017 mentre, la ricorrente solo a seguito di sollecito in Prefettura, riceveva nel 2020, ossia ben cinque anni dopo l’inoltro della predetta istanza, una comunicazione ai sensi dell’art. 10 bis L. 241/90 nel quale il Ministero contestava due circostanze, asseritamente ostative al conseguimento della cittadinanza, del tutto:

a) “a suo carico risultava una segnalazione notizia di reato all’A.G. In data 17/5/2006, emessa dalla Tenenza della Guardia di Finanza di Gioia del Colle, per il reato di cui agli artt. 483 c.p. (falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico) e 640 c.p. (truffa)”;

b) “da accertamenti a campione emergeva che il reddito percepito dalla ricorrente, per l’anno fiscale 2017, era inferiore rispetto ai parametri di riferimento adottati e in vigore (pari a € 8.263,31 richiesti per nucleo familiare composto da una persona, incrementato fino a € 11.362,05 di reddito imponibile in presenza del coniuge a carico ed in ragione di ulteriori € 516,00 per ogni figlio a carico).

La ricorrente, a mezzo di questo difensore, presentava tempestivamente una memoria ex art. 10 bis della legge n. 241/90 nella quale precisava l’estraneità dei fatti penali contestati invitando la p.a. ad approfondire, richiesta rimasta priva di riscontro, e che il coniuge presentava una sua dichiarazione dei redditi nella quale per accordo tra i coniugi, possibilità prevista dalla normativa fiscale, i figli, anch’essi cittadini italiani, risultavano a carico del coniuge, e che quindi la capacità reddituale da prendere in considerazione sarebbe quella della sola istante.

In data 12.05.2021, ossia ben 7 anni dopo dalla richiesta, veniva notificato il decreto di rigetto della cittadinanza, nel quale il Ministero, disattendendo quanto sostenuto e documentato da questa difesa, riproponeva le medesime censure già formulate con il preavviso di rigetto.

Il provvedimento di rigetto veniva impugnato dinnanzi al Tar Lazio – sede di Roma ed il ricorso veniva affidato ai seguenti motivi di censura.

  • Violazione dei termini della conclusione del procedimento
  • Violazione degli artt. 8 c. 2 e 9 della legge n. 91/92;
  • Violazione dell’art. 3 del DPR 18.04.1994 n. 362;
  • Violazione degli artt. 2 e 4 della legge n. 241/90;


La legge 5.2.1992 n. 91, all’articolo 9, comma 1 lett. F, prevede che “La cittadinanza italiana può essere concessa con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell’Interno: … … f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della
Repubblica.
”.

Originariamente, il termine per la conclusione del procedimento amministrativo per la concessione della cittadinanza italiana era definito in settecento trenta giorni dalla data di presentazione della domanda (2 anni) come previsto dall’art. 3 del DPR 362/1994 “Per quanto previsto dagli articoli 2 e 4 della legge 7 agosto 1990, n. 241, il termine per la definizione dei procedimenti di cui al presente regolamento è di settecentotrenta giorni dalla data di presentazione della domanda”.

A sua volta il D.M. 24.3.1995 n. 228 disponeva che “La tabella A, allegata al D.M. 2 febbraio 1993, n. 284, del Ministro dell’interno di adozione del regolamento di attuazione degli articoli 2 e 4 della legge 7 agosto 1990, n. 241, riguardanti i termini di conclusione ed i responsabili dei procedimenti imputati alla competenza degli organi dell’Amministrazione centrale e periferica dell’interno, nella parte relativa ai procedimenti di competenza della divisione cittadinanza del servizio cittadinanza affari speciali e patrimoniali della Direzione generale per l’amministrazione generale e per gli affari del personale, è modificata nel senso che i termini finali per la definizione dei provvedimenti di conferimento e di concessione della cittadinanza italiana, di cui rispettivamente agli articoli 5 e 9 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, sono fissati in settecentotrenta giorni.”.

Senza che tali disposizioni fossero abrogate o sostituite, il D.L. 113/2018 (c.d. decreto Salvini) con l’introduzione dell’art. 9 ter L. 91/92, modificava tale termine portandolo a 4 anni e prevedendo che si applicasse a tutte le domande pendenti al momento dell’entrata in vigore della disposizione citata, così determinando un’estensione del termine a tutte le domande non ancora definite.

Ad essa, però, è seguita la pronuncia della Corte di Cassazione che ha ritenuto il D.L. 113/2018 (c.d. decreto Salvini) non retroattivo. Alla stregua delle predette disposizioni il Ministero dell’Interno aveva l’obbligo di pronunciarsi entro il richiamato termine di 730 giorni dalla data di presentazione della domanda ovvero nel termine di 4 anni (1.460 giorni) secondo il Decreto Salvini.

Orbene, entrambi i termini non sono stati rispettati poiché dalla presentazione della domanda avvenuta il 21.05.2015 sino al giorno della decisione avvenuta il 31.01.2020, tralasciando la data di avvenuta notifica (12.05.2021), sono trascorsi 1716 giorni ovvero 4 anni 8 mesi e 10 giorni.

Preme evidenziare che successivamente, ma sempre prima della emissione del decreto avvenuta il 19/11/2020, con decreto-legge 21 ottobre 2020, n. 130 (in Gazzetta Ufficiale 21 ottobre 2020, n. 261), coordinato con la legge di conversione 18 dicembre 2020, n. 173 il predetto termine di cui all’art. 9 ter L. 91/92 veniva riportato a 730 giorni.

Quindi il termine perentorio per la definizione del procedimento è di 730 giorni dalla data di presentazione della domanda, oltre il quale l’emanazione del decreto di rigetto dell’istanza è preclusa (art. 3 d.P.R. 362/1994, art. 8 c. 2 l. 91/1992).

  • Violazione di legge.
  • Violazione del principio di ragionevolezza e di proporzionalità;
  • Difetto assoluto di istruttoria.

La ricorrente ed il coniuge vivono in Italia da oltre vent’anni; qui si sono realizzati, il marito è artigiano e costruttore di muretti a secco e la ricorrente è occupata nel settore dell’agricoltura come operaia florovivaista; il nucleo familiare con i loro tre figli, tutti nati in Italia, i quali vivono serenamente e svolgono con profitto il loro precorso formativo e scolastico, la primogenita iscritta alla facoltà di Biotecnologie Mediche dell’Università di Ferrara, il secondo genito iscritto al 4 anno dell’Istituto Tecnico Economico di
Santeramo in Colle al corso di “Relazioni Internazionali per il Marketing” la terzo genita iscritta al primo anno del Liceo Scientifico.

A dimostrazione della loro capacità reddituale, messa in discussione dal Ministero, i coniugi con i risparmi del loro lavoro, come vuole la buona tradizione delle famiglie italiane, oltre a far studiare i figli hanno anche acquistato un’abitazione di proprietà. Mentre, a dimostrazione della “disponibilità di adeguati mezzi economici di sostentamento nonché il regolare adempimento degli obblighi fiscali e la possibilità di adempiere ai doveri di solidarietà economica e sociale”, così come richiesto nel provvedimento impugnato, i coniugi hanno sempre reso regolare dichiarazione fiscale, all’uopo si depositavano le dichiarazione dei redditi degli anni 2019, 2020 e 2021.

In ordine alla sussistenza di una segnalazione della Guardia di Finanza datata addirittura 2006, si ribadiva che non risultava nulla a suo carico nemmeno dalla certificazione prodotte al Ministero e al Tar.

Dalla lettura del provvedimento impugnato, quanto del preavviso di rigetto, appariva chiaro che si era inteso applicare, un surrettizio automatismo (segnalazione notizia di reato – diniego di cittadinanza) che non teneva conto del comportamento rispettoso, ligio ed osservante delle norme civili e penali, avuto costantemente e per tutto il periodo di permanenza in Italia dall’intero nucleo familiare.

Orbene, affinché l’ampio potere discrezionale del Ministero in subjecta materia non si trasformi in mero arbitrio e le motivazioni addotte possano essere sindacate, seppur nei ristretti ambiti del controllo estrinseco e formale, che si traduce in un apprezzamento di opportunità, circa lo stabile inserimento dello straniero nella comunità nazionale, sulle ragioni che lo inducono a chiedere la nazionalità italiana e riguardo alle sue possibilità di rispettare i doveri che derivano dall’appartenenza alla comunità nazionale, rilevando tutti gli aspetti da cui è possibile desumere l’integrazione del richiedente nella comunità nazionale, sotto il profilo della conoscenza e osservanza delle regole giuridiche, civili e culturali che farebbero dello straniero un buon cittadino, così come sostenuto dall’Ecc.mo Consiglio di Stato; si ritiene necessario ampliare il campo visivo dell’amministrazione sull’interno nucleo familiare della ricorrente e sull’assenza di qualsivoglia condotta negativa giudizialmente accertata.

Era evidente che il Ministero, attraverso i suoi organi periferici, Prefettura e Questura di Bari, non aveva svolto un’adeguata istruttoria del caso concreto, soffermandosi al solo dato testuale riveniente da una presunta segnalazione, peraltro non visibile negli atti rilasciati dalla Procura della Repubblica; nella specie, non aveva fatto un uso congruo, della discrezionalità propria della P.A., essendosi limitata ad effettuare una semplice equazione tra segnalazione di notizia di reato = rigetto dell’istanza!
Tali dati potevano essere già presi in considerazione da parte del Ministero in quanto erano tutto messi a sua disposizione e, ciò dimostrava solo la carenza ed il difetto di istruttoria.

Sotto questo profilo il provvedimento di rigetto risultava del tutto ingiustificato, irragionevole e sproporzionato rispetto alla reale situazione giuridica della ricorrente e del suo nucleo familiare.

Solo a seguito della notifica del decreto di fissazione di udienza si costituiva il Ministero dell’interno che chiedeva un ulteriore termine per riesaminare la situazione della ricorrente alla luce della presentazione del ricorso ed il GA riconosceva un rinvio di ulteriori due mesi per la riapertura dell’istruttoria; alla seconda udienza cautelare il Ministero depositava il decreto di concessione di cittadinanza e chiedeva la cessazione della materia del contendere per aver definito positivamente l’istanza.

Con ordinanza, che qui allego, il Tar Lazio sede di Roma, preso atto della concessione della cittadinanza in favore della ricorrente dichiarava cessata materia del contendere senza provvedere alla condanna alle spese che la ricorrente ha dovuto affrontare per ottenere il beneficio che le spettava di diritto da molto tempo.

Una nota certamente negativa per il privato che ogni volta deve combattere per ottenere giustizia affrontando spese per i ritardi ingiustificati nella valutazione della domanda e nei provvedimenti di rigetto che se non impugnati avrebbero fatto perdere il diritto in via definitiva.

Sarebbe auspicabile, nei casi come questo in esame, che l’amministrazione quanto meno venisse condannata in virtù del principio di soccombenza virtuale ed al rimborso del contributo unificato, per un giudizio originato esclusivamente dal comportamento della P.A. la quale ben poteva adottare il provvedimento nei termini previsti per legge e con le stesse modalità che ha adottato il decreto di conferimento della cittadinanza solo alla data dell’udienza nel mese di febbraio dell’anno 2022, ossia dopo sette anni!

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