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La violenza della detenzione nei CPR: due testimonianze

La detenzione senza reato e senza diritti. La violenza in questi centri è all’ordine del giorno

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I Centri di Permanenza per il Rimpatrio (C.P.R.) sono la roccia su cui si infrangono i sogni di tanti immigrati che arrivano in Europa, e i cui sogni finiscono invece nelle profondità del mare. Per chi sopravvive, la gioia di raggiungere il sogno europeo non durerà a lungo. L’Italia, negli ultimi anni, con l’aumento del numero di persone che arrivano sulle sue coste (nella totale assenza di canali di ingresso legali), e delle sfide economiche, culturali e di sicurezza, ha deciso di avviare misure legali, amministrative e persino di sicurezza per fermare il loro flusso e così impedire a chi arriva di rimanere sul territorio nazionale. In questo contesto ha ripreso vigore con la legge Minniti-Orlando (L 46/2017) l’idea dei centri detentivi e di espulsione.

Attualmente esistono dieci centri distribuiti1 in varie città italiane. La funzione di questi centri è quella di trattenere gli immigrati per verificare la loro identità e smistare le loro pratiche per poi venire espulsi. Questi centri dovrebbero essere per coloro che sono in Italia senza documenti o reddito illegale, che non hanno chiesto asilo o persone a cui è stata rifiutata la richiesta, ma quello che prevedono le leggi e quello che invece c’è scritto sui fogli è lontano dalla realtà. Infatti, in questi centri si trovano malati e persone con disturbi mentali e fisici, sofferenze psichiche, ossia persone fragili che per una serie di motivi non hanno ricevuto alcun tipo di diagnosi e supporto.

Si tratta di persone che sono state male informate o manipolate a causa della loro non conoscenza della lingua italiana e, di conseguenza, dei loro diritti. Nella maggior parte dei casi nessuno ha spiegato loro che hanno il diritto di chiedere asilo e come fare per richiederlo, oppure quali diritti sono garantiti dal diritto italiano e da quello internazionale. Invece, viene detto loro di firmare documenti che li attestano come migranti economici.

Come animali in un recinto: la testimonianza di Kamal

Tra questi casi abbiamo contatti con Kamal (nome di fantasia per tutelare la sua sicurezza n.d.R.), un giovane sui vent’anni marocchino, le cui circostanze personali, per le quali non poteva continuare a vivere nel suo paese, lo hanno spinto ad emigrare. Dapprima ha raggiunto le Isole Canarie in Spagna e da lì si è trasferito in Francia. Con l’aiuto di un amico di famiglia è arrivato in Italia, a Brescia. Viveva in un edificio abbandonato e lavorava di tanto in tanto, fino a quando il proprietario di un bar vicino ha chiamato la polizia, la quale ha scoperto che non aveva documenti. Da Brescia è stato portato in un CPR nel nord Italia, dove è stata confermata la sua identità tre mesi fa. Il ragazzo non è riuscito a capire né i suoi diritti né nessuna delle domande che gli sono state poste. Hanno anche sbagliato a scrivere il suo nome, data di nascita e la sua nazionalità. I funzionari predisposti non si sono nemmeno preoccupati di chiamare un interprete. È stato collocato in un luogo destinato alla quarantena all’interno del centro, e dopo due giorni gli hanno permesso di contattare la sua famiglia, che non sapeva dove fosse o cosa gli fosse successo. Al termine del periodo di quarantena, ha ottenuto il suo telefono personale, che gli era stato ritirato al momento del trattenimento. 

Kamal, raggiunto telefonicamente ci ha detto: «Non ho potuto chiedere protezione internazionale, perché nessuno mi ha parlato di tale diritto. Non capisco perché sono qui, ho sentito dire che ho un avvocato, ma non l’ho visto e non ho visto i risultati dei suoi interventi per garantire i miei diritti di essere umano, non ho commesso alcun reato, tranne che non avevo nessun pezzo di carta che provasse il mio diritto a rimanere in suolo italiano».

Il ragazzo descrive le condizioni di vita nel centro in cui è trattenuto: «Il CPR è un luogo inadatto per gli esseri umani; infatti, siamo tenuti in celle chiuse con porte di ferro. Ci sono circa sette o otto persone in ogni reparto, i letti dove dormiamo sono di ferro, di solito senza materasso e coperte a sufficienza perché si sporcano e si rovinano e non le cambiano. 

Riguardo ai servizi igienici o l’impianto di aria condizionata, sono considerati dei lussi della cui scarsa qualità non ci è consentito parlare, né lamentarci… .

Tutti i lavoratori qui sono arroganti, anche gli stranieri. Sembrano essere contro di noi, ci trattano malissimo. Le celle dove dormiamo sono completamente isolate e molto distanti da dove si trovano i lavoratori. Eravamo abituati a comunicare con loro tramite un campanello che premevamo, ma si è rotto da un po’ e non l’hanno riparato. Attualmente, per attirare la loro attenzione o richiedere una presenza in situazioni di emergenza, ad esempio se uno di noi non si sente bene, oppure deve chiedere di contattare il suo avvocato, sbattiamo fortissimo la porta e solo dopo molto tempo gli operatori ti rispondono. Tardano sempre a soddisfare le nostre richieste anche se molto semplici e legittime.

Quanto alle pulizie, le facciamo noi, ma ci mancano sempre gli strumenti necessari per farlo, e a loro non importa di fornirceli, perché secondo loro siamo animali in un recinto a cui viene fornito cibo di scarsa qualità. Ma forse gli animali sono trattati meglio di noi in Italia.

Queste circostanze spingono molti detenuti a protestare pacificamente, ma poi le forze di sicurezza intervengono e picchiano brutalmente tutti. Per uscire da questa tragica situazione, molti di noi cercano di scappare, infatti quasi ogni giorno c’è un tentativo di fuga o di suicidio da parte di chi proprio ha perso la speranza».

L’unico pasto del giorno

La storia di Ayman

Ciò che ci ha raccontato Kamal non è molto diverso dalla storia di Ayman, un giovane tunisino che ha vissuto per la prima volta “l’avventura” di attraversare il mare verso l’Italia. «Stavo pregando Dio in silenzio mentre contemplavo quei volti disperati e accigliati seduti accanto a me», ci dice al telefono.

Dopo essere arrivato in Italia, è stato trattenuto in una nave quarantena per 15 giorni. Ma fortunatamente ha chiesto protezione internazionale, e le autorità italiane hanno riconosciuto il suo diritto a chiedere protezione. Purtroppo però non è stato trasferito nei centri di accoglienza designati per richiedenti asilo, con il pretesto che non aveva capito le disposizioni: c’era mancanza di posti nei centri di prima accoglienza, lui è tunisino, e la Tunisia per via dell’accordo sottoscritto con l’Italia2 è considerata un paese sicuro secondo la classificazione dell’Italia. Ci sono procedure diverse per chi proviene da quei paesi. 

Purtroppo è stato trasferito in un CPR nel sud Italia e dopo la prima seduta la sua domanda di protezione è stata respinta, perché non conosceva le procedure e non ha trovato l’assistenza legale necessaria. Il termine autorizzato a ricorrere in appello è scaduto senza poter presentare ricorso in Tribunale avverso alla decisione della Commissione. 

«A causa della difficoltà a sopportare le condizioni della reclusione, dei tanti giorni d’attesa per la mia deportazione e di tutto quello che ho rischiato per lasciare il mio paese, ho deciso di scappare di notte e ho provato a scalare le pareti del centro, che sono alte 6 metri». Quando è saltato da quell’altezza, una delle sue gambe si è rotta e l’altra si è ferita.

Ha ricevuto i primi soccorsi necessari, e il 21 febbraio 2022, cioè a pochi giorni dall’infortunio, la polizia lo ha portato via di notte, sostenendo che veniva trasferito in un altro centro in modo che lui o i suoi colleghi non potessero fare obiezioni o opporre resistenza. È stato ammanettato, per poi ritrovarsi di nuovo in Tunisi, tornando al punto di partenza e con le gambe rotte. Nemmeno di fronte alle sue precarie condizioni di salute e nemmeno per il tempo delle cure gli hanno permesso di rimanere in Italia.

Quando è arrivato in Tunisia nel cuore della notte, insieme con altri giovani, è stato preso in consegna dalla sicurezza tunisina, che lo ha caricato sull’autobus che aveva organizzato per ricevere i deportati.
«La polizia ci ha fatti scendere a gruppi di una o due persone, a circa 10 km di distanza gli uni dagli altri per non riunirci in un unico luogo, per non attirare così l’attenzione dei cittadini e della stampa locale e per impedire ai giovani di manifestare», ci spiega Ayman.

Le condizioni della detenzione hanno influito poi sulla salute mentale di molti detenuti e li ha trasformati in persone violente. Quasi nessuna giornata trascorsa nei CPR è esente da violenze e scene di sangue, come dimostrano i video che riceviamo. I giovani reclusi sono pronti a tutto tranne che ad essere rimpatriati nel paese da cui sono partiti pagando e affrontando i pericoli del viaggio migratorio. Ma questo sogno si infrange anche per colpa di un accordo che è oggetto di obiezioni e critiche da parte di molti attivisti per i diritti umani italiani e tunisini, convinti che quell’accordo è tutto a scapito dei diritti degli immigrati.

  1. Si trovano a Torino (C.so Brunelleschi), Milano (Via Corelli), Gradisca d’Isonzo (Gorizia), Ponte Galeria (Roma), Palazzo San Gervasio (Potenza), Macomer (Nuoro), Brindisi-Restinco, Bari-Palese, Trapani-Milo, Caltanissetta-Pian del Lago.
  2. “La via del ritorno”: i lati oscuri dell’intesa Italia-Tunisia sulle politiche migratorie

Nagi Cheikh Ahmed

Sono un rifugiato politico, giornalista mauritano e mediatore culturale. Impegnato nella tutela dei diritti umani e nella lotta alle diseguaglianze.
Dal febbraio 2022 faccio parte della redazione di Radio Melting Pot.