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Un campo informale appena poco dopo uno sgombero
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Le incongruenze alla base degli sgomberi a Bihać al confine tra Bosnia e Croazia

Una riflessione sulle strategie attuate dalle autorità che tramite intimidazioni ed espulsioni tentano anche di limitare le pratiche solidali

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Nelle ultime settimane a Bihać sono avvenuti i primi sgomberi. Dopo due mesi invernali di apparente silenzio nella cittadina al confine croato SFA (Service for Foreigners’ Affairs), polizia locale e OIM tappezzano la città alla ricerca di POM (people on movement) da portare nei campi governativi. Sono iniziate all’alba del 29 marzo le prime eviction: la polizia fa irruzione nei campi informali e negli squat e costringe, anche attraverso un uso sistematico di violenza, le persone ad uscirne, senza lasciare il tempo di recuperare nessun oggetto personale. Porta infine tutti nel campo di Lipa, a 25 km dalla città.
Sono state contate circa quattro eviction sino ad ora. Azioni che entrano nella più ampia strategia che mira al contenimento dei flussi, e a riempire il campo di Lipa che conta una capienza di 1.500 posti, vedendone occupati all’incirca solo 300. Organizzazioni indipendenti e associazionismo locale sono finiti nello stesso mirino, com’è stato il recente caso dell’espulsione di sei attivisti del Labàs di Bologna.

Scoraggiare ogni forma di supporto a squat e campi informali criminalizzando ogni forma di solidarietà non istituzionalizzata, risponde ad un bisogno molto chiaro: quello di monopolizzare la gestione dell’immigrazione utilizzando il confinamento come unico strumento amministrativo.

C’è poi “l’affare Lipa”, il nuovo campo governativo che ha visto un investimento di oltre tre milioni di euro, di cui si mostrano immagini orgogliose e per cui si spendono parole d’elogio e d’assenzo. Quel campo definito dal rappresentante UE in Bosnia ed Erzegovina, Johann Sattler, “centro migranti all’avanguardia”, di cui l’Europa si mostra fiera e gratificata.

Troppe parole sono già state spese per rendere chiaro quanto l’idea stessa che si posiziona alla base dell’esistenza del campo siano di per sé figlie di una logica coloniale e violenta, per cui non mi dilungherò sull’illogicità di tale orgoglio da parte della comunità europea. D’altronde, come ci ricorda Carlo Tecce, “il futuro assomiglia sempre al passato. Anche se prova a camuffarsi.
L’esempio del campo di Lipa ci offre però una prospettiva perfetta attraverso la quale osservare come la gestione dell’immigrazione si sia macchiata di logiche imprenditoriali e facciate d’occasione, intrise di sensazionalismi e immagini sempliciste della realtà.

Per ogni persona accolta nel campo vengono inoltre investiti soldi da parte della Commissione europea. Sembra chiaro che l’interesse da parte dell’Europa nell’investimento di un campo di confinamento al di fuori dei confini europei, che non si presta né ad essere un centro di prima accoglienza, né un centro presso il quale poter procedere con la richiesta d’asilo, mostra l’intenzione di voler delegare ancora una volta il problema a paesi terzi, partecipando il giusto e solo in materia di investimenti ai campi e alle frontiere. Se da un lato c’è quindi un Europa che se ne lava le mani, dall’altro c’è un paese extra-europeo, lacerato da crisi interne, ed incapace di gestire il fenomeno.

Il sistema politico bosniaco, con il suo ordinamento tripartitico, è infatti assolutamente inadatto alla definizione di strategie adatte e funzionali che richiederebbero invece una certa centralizzazione dell’orientamento gestionale. Lipa prolifera sotto la spinta di queste forze in opposizione.
Un misto di malagestione e contraddizioni che ha bisogno di alimentarsi attraverso le stesse incongruenze di cui è generatore e da cui è generato, nascondendo sotto un velo omertoso ogni evidenza che ne minacci l’autorità.

La collaborazione dell’OIM con l’SFA, l’Ufficio degli Affari Esteri che tra le altre cose, si occupa del controllo delle attività dell’associazionismo indipendente a cui riserva continuamente avvertimenti punitivi, è un esempio di questa contraddizione. Tra gli obiettivi dell’OIM configura quello di “una migrazione ordinata e nel rispetto della dignità umana (che) porti benefici sia ai migranti sia alla società”, di “difendere la dignità e il benessere dei migranti” e infine quello di “sostenere la solidarietà internazionale attraverso l’assistenza umanitaria agli individui in condizioni di bisogno”. Eppure è stata l’OIM a denunciare la presenza di volontari non ufficiali nei campi informali a Bihać lo scorso 24 marzo, quando durante un trattamento anti-scabbia l’SFA è stata chiamata ad irrompere nel campo, impedendo la fine di un trattamento sanitario e costringendo sanitari e volontari a seguirli negli uffici giudiziari dove sono stati emanati obblighi d’espulsione.

Quotidianamente in Bosnia organizzazioni umanitarie indipendenti sono oggetto di continua attenzione da parte delle autorità che tentano, tramite intimidazioni ed espulsioni, di limitare le loro attività. La legalizzazione di forme di razzismo burocratizzato, come il divieto di offrire un passaggio a persone senza documenti, l’impossibilità per POM di prendere mezzi pubblici, il divieto e la stigmatizzazione di azioni di solidarietà da parte di personale indipendente o locali, sono tutte misure che alimentano quel senso comune che razzializza le diversità e criminalizza, discriminandola, ogni forma di aiuto umanitario.

Curiose sono poi le accuse mosse a chi agisce in nome della solidarietà. Dai verbali si legge che le azioni sono in contrasto con la costituzione dello Stato bosniaco.
Il 24 marzo ero tra i volontari e le volontarie che hanno ricevuto il foglio di espulsione. Le nostre azioni sono state considerate come reati che necessitano della punizione che più di tutte mostra i limiti di una logica perversa ed insensata: la punizione riservata a chi si sottrae al controllo sistematico di azioni solidali. La solidarietà non burocratizzata in Bosnia è un atto illegale, come tale va punito e bandito. Il semplice supporto sanitario a soggetti privi di documenti da parte di personale medico “non autorizzato” è un atto che si configura come contrario all’ordinamento bosniaco. L’assurdità che rende reati politici semplici azioni come il dono di cibo e vestiti, si è trasformato in un reato politico. Sistemi detentivi orientati da logiche securitarie e punitive, sono i pilastri su cui si fonda il campo, così come il controllo di ogni attività al di fuori dei luoghi cui è riservato il monopolio anche dell’atto di cura.

Business e immagini di un’Europa che costruisce sistemi d’accoglienza efficaci sono motivazioni che da sole bastano per consolidare pratiche come sgomberi ed espulsioni. Ogni traccia che minaccia l’immagine di un’Europa capace di gestire il fenomeno della mobilità deve essere eliminata. Ecco la necessità di riempire il campo, ecco gli sgomberi, ecco la normalizzazione di pratiche de-umanizzanti che criminalizzano l’umanitarismo indipendente per scoraggiare la presenza di stranieri sul tessuto urbano.

Sarebbe interessante chiedere alla Commissione europea, all’OIM e all’SFA perché nonostante il nuovo campo di Lipa sia un campo “all’avanguardia”, le persone continuino a preferire squat, case abbandonate e tende nelle jungle anche durante gli inverni rigidi in cui la temperatura scende a sotto zero e in cui anche l’accesso all’acqua è spesso limitato.

Il campo di Lipa è l’ennesimo tentativo di confinamento che vive di una contraddizione ingombrante: se non è un centro temporaneo di ricollocamento nei vari Stati, se non è un centro di prima accoglienza in grado di assimilare i suoi residenti nel tessuto nazionale, se non è un centro presso il quale poter presentare richieste d’asilo, cosa si pensa di fare delle persone che abitano al suo interno?

L’unica risposta accettata dalle autorità europee è quella che spera che le persone decidano di tornare indietro nei loro paesi d’origine, attraverso sistemi di rimpatri assistiti e gestiti direttamente dall’OIM. Una risposta che non soddisfa ovviamente una realtà animata da soggetti in viaggio da anni e che scappano per sottrarsi alla violazione delle loro libertà fondamentali.

L’altra è quella che non si dice, che tutti all’interno del campo di Lipa conoscono senza tuttavia manifestarlo apertamente. È quella che aspetta che le persone semplicemente spariscano. Che riescono a passare il confine illegalmente consumando il loro “game” oltre i limiti che sorpassano la giurisdizione bosniaca, e quindi la sua responsabilità. D’altronde ce lo insegna la Bosnia: l’atto di cura deve essere una pratica localizzata e istituzionalizzata sotto la sorvegliata di un apparato burocratico che mostra tutta l’illogicità e i limiti di una sovranità territoriale coatta e violenta.

Laura Della Peruta

Laureanda alla magistrale di antropologia culturale ed etnologia. Vivo a Bologna e mi occupo di immigrazioni e diritti umani dal 2018; ho lavorato a Lesbo in Grecia in un campo auto-gestito per persone vulnerabili. Ho partecipato ai progetti dell'associazione "Il cerchio di via Libia" che si occupa di sostegno e pratiche di inclusione virtuosa per chi esce dai classici percorsi di accoglienza. Sto svolgendo un progetto di ricerca su Stato frontiere e migrazioni illegali e partecipando alle iniziative del collettivo "Burn" per supportare le persone in movimento nei Balcani.