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“Noi” e “Loro”: cosa vuol dire aiutare?

di Alba Verrecchia

Przemyśl, Polonia, 2 Marzo 2022 Un centro commerciale in disuso diventa alloggio di emergenza per rifugiati in attesa di altra destinazione

Ho voluto raccontare di una partenza precipitosa per il confine polacco con l’Ucraina, ho voluto scrivere d’una decisione frettolosa di fare volontariato, e poi in un certo senso anche d’un ritorno perché è tornando da lì che il tutto si metabolizza. Cerco di difendere un’altra immagine dello shock dell’incontro con i rifugiati, quello che non sta nell’eccezionalità della situazione, bensì nei dettagli meccanici che denunciano una loro frenetica ricerca di quotidianità. Nataliya e Sasha sono due rifugiati incontrati in un hub a Medyka, la prima è madre di due figli, il secondo ha nove anni e sarebbe potuto essere suo figlio. Non hanno molto in comune se non la guerra e il fatto che mi ricorderò per sempre di loro. Raccontando di loro cerco di porre parole sull’orizzontalizzazione dei rapporti al confine, al fatto che l’aiuto non solo è bilaterale, ma che si nasconde in piccole cose, gesti semplici, e forse nella stabilità della ripetizione. 


Che cos’è un rifugiato? Secondo l’articolo 1A della Convenzione di Ginevra1, è colui che viene costretto a lasciare il proprio paese e che, «temendo a ragione di essere perseguitato (…) non può o non vuole tornarvi». Sembra da tale definizione che ci sia un punto di partenza A – il soggetto aveva una vita supponiamo assai stabile; un punto d’arrivo B – il soggetto ritrova una stabilità altrove ; e un roller coaster in mezzo. Ci sono tuttavia attimi di familiarità nel caos e la gente li afferra tutti, non ne perde neanche uno, e una volta raccolti questi momenti li ripete metodicamente. Forse occorre parlare di questo roller coaster e di questa cura ai dettagli per sottolineare l’eterogeneità della migrazione. Migrare vuol dire anche aspettare. Spostarsi è anche pensare dove andare e fermarsi perché non si sa ancora. Questo migrare è anche quello della quotidianità che viene strappata dal suo contesto e che deve anch’essa partire alla ricerca di altri orizzonti dove realizzarsi. E allora cosa vuol dire aiutare? La settimana scorsa, mi sono ritrovata in uno dei luoghi in cui accadono queste pause.

Vi è forse una forma dubbiosa di curiosità, perlomeno una ricerca d’adrenalina, quando si va ad aiutare sul confine di una zona di guerra. Sul concetto di rifugiato invece, non sembra che ci siano domande. Io non m’ero mai chiesta “ma che cosa vuol dire essere sul confine?“. Non avevo nemmeno ben assimilato la costellazione di stereotipi che attribuivo al rifugiato, ma sicuramente un grande fattore che gli ascrivevo era quello dell’aiuto. Il rifugiato ha bisogno d’aiuto. Il volto leviniassiano2 per eccellenza, io mi ritrovo responsabile di migliaia di sconosciuti il cui volto mi ricorda che i diritti umani sono innanzitutto i diritti degli altri. E allora gli aiuti umanitari atterrano sul confine con le idee in verticale, Noi aiutiamo Loro. Un’esperienza. Questo è il termine che usiamo. A Medyka, la realtà afferra le migliori intenzioni per il colletto, Medyka orizzontalizza e tira fuori tanto il meglio quanto il peggio.

Sono salita sull’aereo, la testa come una porta blindata, e forse è sempre così la prima volta. Mi ero preparata, credo. Preparata per le percezioni, gli antipodi, i colori, gli odori; e per preparata intendevo forse ermetica. Sali in macchina, guidi per ore, e di nuovo non ti rendi conto che ti sei costruita uno scenario polarizzante, un clivaggio, in cui tu aiuti chi ha bisogno di essere aiutato, e anche lì tutti ti diranno che non si è mai abbastanza preparati, ma nessuno ti dice che lo schiaffo verrà dall’altra parte.

Quando sono arrivata a Medyka nella scuola in cui eravamo stati mandati per una missione di volontariato umanitario, mi aspettavo di vedere tante cose brutte. Mi aspettavo il roller coaster. Ma la prima parola a venirmi in mente è stata Vestiti. Pile di vestiti, vestiti come monti, dal pavimento al soffitto, da qui alla fine del corridoio; lì la prima ondata che ti travolge è di tessuto. Apri una porta e la scena sembra tratta da un cartone animato, pacchi di piumini che ti cadono in faccia. Vestiti. Una marea di vestiti.

La seconda ondata che ti travolge è quella d’una lenta tempistica. Sarà magari una particolarità dei confini, lì sembra che il tempo si distenda. Tutto si ripete, nessun gesto è singolo. Al confine sei in un loop. Scatolone dopo scatolone, l’acqua del secchio da cambiare ogni cinque letti, ci beviamo un tè e torniamo a lavorare, poi ricominciamo. Aspetti in coda in dogana, primo sportello fai vedere il passaporto e non ti assomigli più perché da quando hai fatto la fototessera sei cresciuta e ti sono venute le occhiaie, ti lanciano due occhiate, seconda porta, hai l’Unione Europea alle spalle. Esci ed attraversi la zona neutra, terza porta. Fai vedere il passaporto ed è come se camminando per quei due cento metri fossi invecchiata ancora di più, stavolta quattro occhiate. Quarta porta, sei in Ucraina e pensi che ormai sia finita ma dopo dovrai tornare indietro, e ricomincerà la coreografia degli sguardi perché da quando hai fatto la fototessera sei cresciuta e ti sono venute le occhiaie.

A Medyka siamo dal lato polacco, ma la situazione non cambia. Le due palestre della scuola sono state requisite per l’accoglienza dei rifugiati. Una è diventata un dormitorio di trecentocinquanta lettini, l’altra un magazzino. Lì ‘noi’ siamo quattro volontari che puliscono il pavimento del dormitorio. Io provo ad osservare ma c’è gente e mi vergogno. Incrocio qualche sguardo, altri invece non ci riesco proprio perché hanno un altro modo di guardarsi intorno; capisco che forse hanno visto troppo e adesso hanno bisogno di riposo.

Si avvicina una donna – Nataliya, si presenta portando la mano al cuore – e lei è un paradosso del linguaggio corporeo. Con le sue spalle stressate e malgrado il suo passo un po’ discreto, prende il mocio dalle nostre mani e ci mostra come usarlo. Nella frenesia del suo movimento tuttavia c’è molta fiducia – anche nei suoi rimproveri, di cui si capisce solo il tono. Altre due donne raggiungono Nataliya e s’avvia un ballo coordinato e anonimo, in cui nessuna parla ma tutte si muovono in un’imperturbabile sincronia. In quel momento c’era qualcosa di solenne nella loro devozione al lavaggio dei pavimenti, qualcosa di meccanico, qualcosa di alienante, una crepa da cui si poteva intravedere un senso di casa. Uno scorcio di normalità che si distingue di traverso. Nataliya dagli occhi umidi e dallo sguardo perso mi racconta poi dei suoi incubi ma io non parlo né il russo né l’ucraino e quindi me li racconta Google Translate. Mi parla della sua ansia perché deve ricominciare la sua vita da capo, e a proposito ci chiede quale paese sarebbe il migliore fra la Svezia e la Svizzera ma noi non abbiamo idea allora le raccontiamo delle montagne e lei sorride.

Il percorso di migrazione sembra anche disseminato di spazi di niente. Colui che migra sembra oscillare tra momenti in cui si chiede dove andare e altri in cui si domanda quando si andrà via. Al caos si contrappone subitaneamente la noia — e così integrandosi alla forza centrifuga del loop arriva nella palestra un ragazzino e ci lancia un pallone da calcio. Si autoindica si chiama Sasha mi autoindico mi chiamo Alba, e iniziamo a giocare. A lui importava poco dei monti di vestiti, aveva una collana che a volte cadeva a terra e allora si fermava il gioco il tempo che se la legasse di nuovo attorno al collo. Quando non giocavamo a calcio, mi chiedeva di giocare. Durante tutto il primo giorno rimane sempre accanto a me, prende il mio cellulare e usa il traduttore, mi sorride e mi dà il cinque. Gli chiedo quanti anni ha, scrive nove, mi dico che io a nove anni facevo la mia prima gara a cavallo e mi si spezza il cuore. Non parliamo mai dell’altro lato del confine. Non parliamo neanche di confini, gli chiedo come sta, gli chiedo dei suoi calciatori preferiti, mi risponde ‘super’ e ‘Messi’. Mi chiede di giocare ancora, gli dico che devo lavorare ma giocherò domani, mi dice che domani probabilmente parte per la Germania, a me dispiace ma lui mi sorride e mi da il cinque. Il secondo giorno, siamo tornati ad aiutare nella scuola, lui non era partito per la Germania. Mi ha abbracciata ed è l’unico gesto che non si ripeterà.

Il terzo giorno Sasha e Nataliya sono partiti per altri orizzonti, altri confini. Probabilmente a loro due importava ben poco dei tir, non che non fossero importanti ma avevano sopratutto bisogno di essere loro stessi, di pulire uno spazio, di giocare a calcio. Di ritrovare la propria identità nei gesti comuni di ogni giorno quando ancora si viveva nel punto A. Andare a Medyka non è di certo una vacanza. Il tempo lì lo si spende le braccia cariche di pannolini e di lattine a riempire furgoncini. Forse tornare da Medyka è ancora peggio. Arrivando lì, concepivo l’aiutare loro come un far del tutto perché scappassero dalla quotidianità, ma la quotidianità loro non è la guerra e non lo è mai stato. Il rifugiato è temporaneo, il rifugiato è chi ha perso la quotidianità e cerca di ricostruirla. Un po’ di casa c’è ovunque se si è attenti ai gesti semplici e alla ripetizione stabile di essi. Un po di casa c’è nel mocio, c’è nel pallone da calcio. L’aiuto nasce anche partecipando a ricreare tali momenti, aiutiamo imparando a ripetere gesti che nello scompiglio creano ordine, una bolla che sembra un po’ più sicura. Aiutiamo parlando di cose normali, di cose di tutti i giorni. Il sole, il freddo, vuoi un caffè?, bella questa maglietta!, mi passi la scopa per favore?

Mentre guidavamo verso casa ho pensato che probabilmente lo schiaffo era venuto da quel lato inaspettato. Aveva preso i sentieri quotidiani, il percorso più semplice. Mi ero preparata sforzandomi ad immaginare una realtà tutt’altra. Una realtà che mi prendesse, che mi rovesciasse, una realtà lontana ; lontana da me. Ero preparata per l’effervescenza, l’imprevedibilità, il cambiamento, la corsa, la fretta, pensando a mille cose contemporaneamente. Ho incontrato Sasha e Nataliya e lo schiaffo è arrivato dalla calma e dal gioco. È arrivato piano, mentre pulivamo il pavimento. Il tempo di cambiare l’acqua del secchio.

  1. UNHCR, definizione tratta dalla Convenzione di Ginevra; 1951
  2. Levinas, E. Totalità e Infinito, Saggio sull’esteriorità; 1961