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Braccia rubate

Riflessioni dal dibattito con Domenico Perrotta e Timothy Raeymaekers

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Si può definire il caporalato come schiavitù? Giovedì 19 maggio a Bologna, all’interno della Sala Anziani di Palazzo d’Accursio, Domenico Perrotta e Timothy Raeymaekers insieme a Karin Pallaver (e al pubblico presente) hanno provato a effettuare un ragionamento su quelle persone che lavorano in agricoltura, nelle “nuove piantagioni”, e che normalmente vengono definite come “nuovi schiavi”.

Si tratta di espressioni molto comuni quando si tratta di descrivere le condizioni di lavoro e di vita dei braccianti migranti nella produzione agroalimentare nell’Italia degli ultimi trent’anni.

Il riferimento è naturalmente alla tratta atlantica degli schiavi e al modo di produzione che caratterizzava le Americhe nel periodo coloniale.

L’evento infatti, non a caso, è inserito in un calendario di manifestazioni di approfondimento sui temi della mostra sulla tratta atlantica degli schiavi Schiavitù e tratta: vite spezzate tra Africa e Americhe, organizzata dalla Biblioteca Cabral dal Settore Biblioteche del Comune di Bologna presso la Sala d’Ercole di Palazzo d’Accursio terminato il 28 maggio 2022.

La domanda da cui partire, appunto, è la seguente: si può definire il caporalato come schiavitù?

Domenico Perrotta (professore associato in Sociologia dei processi economici e del lavoro presso l’Università degli Studi di Bergamo) e Timothy Raeymaekers (ricercatore presso l’Università di Bologna) sono i curatori del volume «Braccia rubate dall’agricoltura».

Tale testo risulta essere un’ottima raccolta di spunti per discutere circa la validità di questo accostamento, esaminando similitudini e differenze tra i due contesti storici e mostrando come, con il contributo attivo delle politiche dei governi italiani, il caporalato e i “ghetti” rurali dell’Italia di oggi siano diventati una infrastruttura necessaria per la produzione agricola in un mercato globalizzato.

È indubbio ormai che un pezzo importante dell’agricoltura si basa sullo sfruttamento, e che il problema chiaramente non interessa solo l’Italia, ma è globale. E proprio all’interno di questo meccanismo globale l’agricoltura industriale non può materialmente e strutturalmente permettersi di avere i braccianti in regola.

Gli autori, riportando le proprie esperienze passate, sottolineano come le eventuali soluzioni a questo problema possono essere la ricerca e l’attivismo. 

A Bologna esiste da qualche anno la realtà di Campi Aperti, organizzazione che Perrotta cita come esempio di attivismo agricolo. Si tratta di un’associazione di produttori e cittadini che sostiene l’agricoltura biologica contadina e la sovranità alimentare, concetto che passa attraverso l’organizzazione di mercati autogestiti, punto di partenza per la costruzione di sistemi produttivi che possano costituire un’alternativa a un sistema economico di fatto insostenibile.

La strategia per favorire l’agricoltura di prossimità utilizzata dall’associazione è quella di una filiera corta basata sulla vendita diretta da parte del produttore, contenendo i prezzi e stimolando la produzione di alimenti di qualità.

Il volume “Braccia rubate all’agricoltura” invece, risulta essere un esempio di ricerca socio antropologica, che però si pone l’obiettivo di comunicare alla popolazione, con un linguaggio non accademico.

Sono diversi i contributi al suo interno, quello di Alessandra Corrado per esempio (dal titolo: Un nuovo regime alimentare), analizzando il regime alimentare, si sofferma sulle trasformazioni del sistema agricolo, cercando di spiegare, e quindi politicizzare, il ruolo strategico dell’agricoltura nella costruzione e nello sviluppo dell’economia capitalista mondiale, ponendosi la domanda: lo sfruttamento è necessario?

«Si tratta di un libro propositivo», così lo descrive Perrotta, soffermandosi sulle analisi legali che vengono fatte circa le leggi vigenti, le quali hanno influenzato la consapevolezza dei braccianti.

Dal 2016 per esempio, anno a cui risale l’ultima legge sul caporalato, ci sono più denunce, e viene evidenziato come tale fenomeno sia sempre legato ad un’azienda.

A tal proposito, molto interessante risulta essere l’intervento di Marco Omizzolo, sociologo e ricercatore Eurispes, dove emerge come il caporalato sia un fenomeno sistemico, e dunque concentrarsi sull’aspetto meramente penale spesso non risulta efficace. Ciò porta immancabilmente chi denuncia fenomeni di caporalato a sopportare sulle proprie spalle le conseguenze che ne derivano.

Il fenomeno dello sfruttamento è rilevabile anche osservando le varie situazioni abitative dedicate ai lavoratori agricoli, soprattutto durante la raccolta: ovvero i ghetti.

Ne sono un esempio il ghetto che si trova nel distretto della frutta di Saluzzo, in Piemonte, ma anche i più “famosi” localizzati a Foggia e a Rosarno. Operando direttamente sulla creazione di un’alternativa logistica del ghetto potrebbe rappresentare un tentativo di soluzione.

Ha senso quindi parlare di nuove schiavitù?

Il concetto di schiavitù storicamente ha una connotazione molto precisa, l’articolo quattro della Dichiarazione Universale dei diritti umani infatti recita: «Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma».

È dunque possibile che i braccianti si autoidentifichino nel termine schiavo?

Dal punto di vista legale va detto che i braccianti non si possono definire come schiavi, semplicemente perché sono formalmente liberi di andarsene dal posto di lavoro quando vogliono, in questo modo i caporali non hanno bisogno di ricorrere alla violenza fisica per ottenere maggiore produzione a costi bassissimi.

Cosa succede quindi se invece della parola “schiavo” utilizzassimo l’espressione “morte sociale”?

Perché lo schiavo fondamentalmente è una non-persona, non ha diritti di accesso alla società perché gli viene negata la possibilità di accedervi. I giornali e i politici, come possiamo osservare quotidianamente, abusano della parola “schiavo”, enfatizzandola, quasi per allontanare il concetto dalla vita comune, impedendo di osservare le cause strutturali che determinano tale fenomeno.

Il termine schiavo costruisce inoltre una narrazione parallela e contraria all’altra narrazione vigente in Italia, che è quella che vede il cibo come un prodotto all’occhiello del cosiddetto Made in Italy. Narrazione che ha avuto un forte impulso durante l’Expo 2015.

D’altronde come possono convivere le mille eccellenze italiane con un sistema che si basa sullo sfruttamento e la schiavitù?

Spesso le vulnerabilità dei braccianti dipendono da altre leggi che ne impediscono soprattutto la mobilità, e la negazione della libertà di movimento è alla base di quella che definiamo appunto “morte sociale”. In questo modo vengono negati i diritti di adesso alla società, e dunque viene negata la possibilità di costruire rapporti sociali.

Dal 2002, con l’introduzione della legge Bossi – Fini, che lega la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno ad un lavoro effettivo, chi è costretto ad una situazione di attesa prolungata, all’interno magari di un centro di accoglienza, spesso diventa facile preda di sfruttatori di vario genere. È dunque lo Stato stesso che diventa un generatore di vulnerabilità, salvo poi punire chi la sfrutta.

In tale contesto, idealizzando i caporali come gli schiavisti del ‘700, non si permette di affrontare il tema in maniera critica. Il caporale diventa il paravento per delle inadeguatezze strutturali, sociali e legali, di conseguenza l’atteggiamento generale diventa poi quello di stigmatizzare i caporali come unica causa del problema. Per cui la missione diventa quella di liberare i poveri schiavi dalle persone cattive.

L’emblema di questo approccio “umanitarista” e “utilitarista” trova piena espressione nella famosa conferenza stampa con lacrime del 2020 (in piena emergenza Covid) dell’allora ministra per le Politiche Agricole Bellanova, durante la quale esponeva il provvedimento (di fatto poi snobbato dagli stessi datori di lavoro) sulla regolarizzazione/emersione temporanea dei lavoratori stranieri nelle campagne, un iter tra l’altro che a distanza di due anni per molti non si è ancora concluso.

Eppure il dramma è vero, globale e di difficile risoluzione, ciò che risulta chiaro è che dietro il cibo che normalmente troviamo sulle nostre tavole c’è sempre lo sfruttamento di qualcuno.

Raffaello Rossini

Antropologo e registra dei documentari "La Merce Siamo Noi", "Across" e "You//Spring" prodotti in collaborazione con Borders of Borders e Pettirouge Prod.