Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
Una veduta aerea del campo di Lipa, nel Cantone di Una-sana, nel Nord-Ovest della Bosnia ed Erzegovina (Fonte: Altreconomia)
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Di emergenze e amnesie: i campi di confinamento lungo la Rotta Balcanica

Riflessioni dal Convegno di RiVolti ai Balcani

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Il sette e l’otto maggio, presso il Centro Ernesto Balducci di Zugliano, si è discusso dei campi per migranti presenti nella regione balcanica e in Grecia. È stato possibile grazie a numerosə attivistə, avvocatə, studiosə ed altrə, chiamatə a raccolta dalla rete di RiVolti ai Balcani. Lo abbiamo fatto in un luogo di frontiera – una di quelle aree in cui è possibile assaporare le contraddizioni del limite, della vicinanza alla diversità – e in uno spazio di per sé ibrido: casa di accoglienza per stranieri, luogo di promozione culturale, centro convegni. Un microcosmo che accoglie le suggestioni eterogenee del territorio e le trasforma in qualcosa da cui prendere esempio.

La produzione dell’eccezione

Tendoni, containers, sovraffollamento, assenza di servizi, isolamento: queste sono solo alcune delle caratteristiche tipiche dei campi presenti nella regione balcanica e in Grecia. Essi sono largamente finanziati da istituzioni – quali l’UE o UNHCR – che utilizzano discorsivamente i diritti umani come uno dei fondamenti della loro esistenza, aprendo una contraddizione che risulta tale solo se non si prende in considerazione la logica sottostante all’esistenza stessa del campo. Le condizioni strutturali e comuni dei diversi campi presenti nella regione sarebbero infatti, innanzitutto, la manifestazione concreta di una specifica logica legata al flusso migratorio, fondata sull’idea di una mobilità eccezionale. Un’eccezionalità legata, per lo meno nella narrativa pubblica, alla quantità di persone coinvolte, alle motivazioni che spingono tali soggettività a muoversi, alle condizioni contingenti di un dato luogo o momento storico. E se da un lato è innegabile che specifici eventi abbiamo portato alla crescita esponenziale del flusso migratorio – primo tra i quali lo scoppio del conflitto siriano nel 2011 –, dall’altro la migrazione, in quanto mobilità, è un atto che racconta dell’uomo da sempre. Ma allora perché ostinarsi a incorniciarlo nei termini dell’eccezione, dell’emergenza? E soprattutto, quali sono le conseguenze dirette e materiali di tale concettualizzazione?

Il campo tipico che si trova lungo la Rotta Balcanica e non solo sembra proprio essere espressione di questo tipo di logica. Esso diventa la soluzione a un fenomeno emergenziale e preoccupante, una mobilità per la quale è necessario difendere il territorio verso cui tende; un flusso di corpi assimilati da caratteristiche razziali – in primis il colore della pelle – che formano una massa al suo interno indistinta ma contemporaneamente ben riconoscibile dal resto della popolazione. Di conseguenza, una somma di corpi che vanno controllati, identificati, a cui è necessario dare un ordine preciso e per tuttə uguale, a prescindere dalla storia personale, dalle condizioni presenti, dalle necessità soggettive. Il campo risulta essere allora la soluzione migliore per poter attuare tutte queste pratiche: un luogo di raccoglimento e confinamento, di definizione, dove è possibile esercitare controllo, analisi, categorizzazione – guidati dal discorso securitario così caro ai territori europei. Un campo dunque che discerne e che, come afferma Martina Tazzioli nel suo intervento, «confina per proteggere».

Non solo idee

Quest’ottica emergenziale sta dunque alla base della possibilità stessa di pensare il campo come l’unica soluzione davvero possibile, anche laddove si potrebbe attuare un sistema di accoglienza diffusa; allo stesso tempo, tale idea non si limita a produrre i luoghi di confinamento, ma agisce anche nella loro struttura ed organizzazione specifiche. La possibilità di intendere il campo come un luogo temporaneo, infatti, – laddove l’emergenza è costitutivamente provvisoria – impone, ad esempio, l’implementazione di materiali adibiti a tale uso, che vanno dunque a creare uno spazio in cui la vita delle soggettività che lo abitano è necessariamente ridotta alla sopravvivenza – proprio per la mancanza di tutti quei servizi, come l’istruzione o la possibilità di praticare la propria fede in mancanza di spazi adatti, che vengono ritenuti necessari per affermarci e definirci come esseri umani. Nonostante l’agency delle persone – della quale è sempre bene ricordarsi per non scivolare in uno sguardo passivizzante e vittimizzante –, il campo è quel luogo che, alla fine, deruba i soggetti del loro tempo di vita. I campi non sono luoghi di per sé privi di relazioni, di attività, ma piuttosto luoghi in cui a tali azioni è privato il diritto di riconoscimento e di affermazione – ed è in questa negazione del diritto che risiede l’atto del furto: del tempo presente e del sé, a cui viene imposta una sospensione.

(Ma la consapevolezza collettiva della deumanizzazione che attuiamo sulle persone in movimento non può che ritardare, essendo vivo il discorso dell’emergenza e divenuta normale la riduzione dell’altro a una vita d’eccezione.)

L’emergenza sanitaria e l’asilo come detenzione

Se tali condizioni di vita possono essere legate in primis alla logica dell’eccezione, gli interventi del convegno hanno messo in evidenza come determinate pratiche emergenziali si siano aggravate durante il periodo pandemico. Le soluzioni alla diffusione del virus si sono tradotte in un generale aumento della privazione di libertà personale dei soggetti all’interno dei campi. Una soluzione che, seppur sia stata molto vicina anche a noi, nei campi è stata protratta nel tempo e, in diversi casi, si è trasformata in prassi quotidiana. È il caso ad esempio della Grecia, dove a Corinto l’impossibilità per le persone di uscire liberamente è tutt’ora in vigore, a causa di un’estensione giuridica delle misure adottate durante il primo lockdown.

In questi casi si rafforza quel nesso già presente – paradossale se analizzato con uno sguardo critico, inevitabile se accompagnato dal discorso dell’emergenza – tra detenzione e asilo, un nesso che ha come conseguenza diretta la necessità di militarizzazione costante, sia nel luogo fisico del campo, sia negli spazi altri, di frontiera, di transito, dove è possibile intercettare coloro che sono destinati ad essere confinati. Questa necessità di militarizzazione trova una sua prima soluzione nell’agenzia di Frontex, adibita specificamente al controllo delle frontiere esterne europee. Anche in questo caso, come ricorda Jane Kilpatrick di Statewatch, all’esistenza stessa dell’agenzia sottostà l’idea della migrazione come minaccia. I dati che Frontex raccoglie, soprattutto quelli biometrici, diventano la prova oggettiva di quel pericolo da cui è necessario difendersi. La ricercatrice parla di «dataficazione del controllo delle frontiere», un processo di raccolta di dati quantitativi utilizzati tuttavia in modo decontestuale, e adibiti principalmente a giustificare l’aumento dei controlli e delle spese ad essi connesse, in un quadro nel quale il ruolo Frontex risulta indispensabile. Da una questione di tipo tecnico, la raccolta dei dati e l’analisi dei rischi muta, dunque, in atto politico, funzionale al mantenimento della presenza attiva dell’agenzia nei vari territori in cui opera. Ma le conseguenze sulle vite delle persone in movimento sono di tutt’altra natura: nel corso degli anni diversə studiosə, come ad esempio De Genova, hanno mostrato come l’aumento della securitizzazione abbia spinto le persone su rotte sempre più precarie e rischiose, spesso controllate da sistemi di trafficanti. Ecco, dunque, che emerge un altro paradosso: l’illegalizzazione della mobilità umana da parte delle diverse autorità coinvolte implica spesso un aumento dell’illegalità; un meccanismo che si autoalimenta e che, in ultima analisi, ripercuote i suoi effetti più nefasti sulle persone che si muovono.

La responsabilità data

Un altro effetto riconducibile idealmente alla prospettiva dell’emergenza è la creazione dei cosiddetti “Paesi contenitore”, come la Bosnia ed Erzegovina o la Grecia. In questi luoghi, anche grazie allo strumento del campo, le persone in movimento vengono trattenute spesso in assenza di protezione giuridica e tendenzialmente in assoluta mancanza di integrazione sociale.

(Siamo di fronte a una nuova contraddizione: l’azione di depoliticizzazione a cui sono soggette le persone in movimento si interseca con l’utilizzo della folla migrante come strumento politico – si veda il recente caso della Bielorussia.)

Il meccanismo dell’esternalizzazione delle frontiere non si riduce dunque unicamente ai controlli, ma implica il dovere per Stati terzi di trattenere quante più persone possibili sul proprio territorio, in vigore di accordi presi con l’Unione Europea – come, ad esempio, lEU–Turkey Deal – oppure di dinamiche geopolitiche che pongono al centro la questione della migrazione. È questo il caso della Bosnia ed Erzegovina, che non è stata ancora inserita nella lista dei paesi candidati all’ammissione in UE e per la quale la gestione della migrazione è diventato un elemento di valutazione fondamentale. Ecco che la responsabilità per la gestione del flusso migratorio viene ceduta a governi che spesso, come nel caso della Bosnia ed Erzegovina, sono in una situazione di instabilità politica ed economica, come ricorda l’intervento della ricercatrice Gorana Mlinarević. Attraverso i meccanismi di finanziamenti outsourcing, si va a creare una situazione di duplice abbandono strutturale: da un lato, dell’Unione Europea nei confronti dei Paesi terzi, che vengono ritenuti necessari per la gestione dei flussi ma allo stesso tempo inadeguati ad affrontarne la complessità, e che vedono dunque i finanziamenti passare nelle mani di organizzazioni umanitarie internazionali piuttosto che dei governi stessi. Dall’altro, si creano quelle condizioni di precarietà alle quali le persone in movimento vengono abbandonate. Tale abbandono non è tuttavia dettato dalle contingenze del momento, ma è piuttosto il risultato di una costruzione contemporaneamente politica e ideale della migrazione, ancora una volta fondata sul concetto dell’eccezione: alle soggettività è fornito quel poco necessario alla sopravvivenza, essendo loro nello status dell’emergenza e trasformandosi quest’ultima in condizione quotidiana normale – e normativa.

Amnesia collettiva e possibili soluzioni

Quest’esternalizzazione che impregna le pratiche e le decisioni portate avanti dalle istituzioni dell’Unione Europea influenza non solo le politiche migratorie e le vite delle persone da esse coinvolte – che siano in movimento o locali. Essa contribuisce a plasmare il senso di responsabilità rispetto alle azioni mirate a controllare la mobilità: azioni spesso violente, illegali e disumane come quelle raccolte dalla rete Border Violence Monitoring Network (BVMN) circa i respingimenti illegali. Ci troviamo di fronte a un meccanismo di amnesia collettiva, come viene definita dalla professoressa Monica Massari nel suo intervento, che non si riduce all’impossibilità di riconoscere il proprio ruolo indiretto – ma non troppo – nella violazione dei diritti umani, ma che trova le sue antiche radici nell’attitudine della popolazione “europea” – e certamente quella italiana – di portare avanti un processo di dimenticanza attiva rispetto alle proprie responsabilità storiche. Uno dei casi di maggiore evidenza è quello, ad esempio, della colonizzazione italiana che, seppur di breve durata, ha delle implicazioni storiche, morali, geopolitiche che non dovrebbero essere tenute a distanza, ma che anzi dovrebbero essere forgiate da un senso di consapevolezza collettiva per comprendere quella che è effettivamente la storia di un Paese che ha portato avanti una colonizzazione e che tuttora adotta atteggiamenti neocoloniali verso Paesi considerati altri, distanti.

Nel caso specifico della migrazione, la lontananza dallo sguardo del cittadino sembrerebbe essere sufficiente alla possibilità di produrre atrocità sostanzialmente contrarie all’accordo di non violazione dei diritti umani che dovrebbe stare alla base della comunità di cui si fanno rappresentanti le istituzioni europee. L’esternalizzazione non è dunque solo dei confini, ma anche dei nostri doveri e delle nostre colpe.

C’è chi però direbbe e chi ha detto, durante il convegno, che tuttavia l’amnesia non esiste: non è possibile annegare completamente i ricordi; essi rimangono impregnati al nostro inconscio, e agiscono nel plasmare le nostre persone. Anche a livello collettivo, dunque, le esperienze negate continuano a lavorare sulla nostra società, definendola; la non rielaborazione relega la violenza a luoghi nascosti, ma non può eliminarla. Partendo da questo presupposto, si rende evidente la necessità di una sorta di psicoanalisi collettiva, che parta dalla possibilità di parlare e riflettere del nostro ruolo all’interno di dinamiche più ampie. Per fare ciò, risulta fondamentale avvalersi degli studi multidisciplinari, del dialogo, della comparazione tra realtà de facto e normativa istituzionale, spesso separate da abissi di incomprensioni. È fondamentale guardare alla realtà in modo critico e riconoscere quali sono i processi politici che, come quello dell’emergenza, producono possibilità di intervento distruttive, piuttosto che costruttive.

A tal proposito, in questo momento storico è fondamentale riflettere sulla seguente contraddizione: se l’Europa si sta dimostrando capace di accogliere in modo tempestivo milioni di persone provenienti dall’Ucraina, perché non lo si può fare anche con il resto della popolazione in movimento? Questa domanda apre un dibattito ipoteticamente infinito, ma ciò che conta, ad oggi, è innanzitutto il fatto che l’Europa si sia dimostrata capace di attuare un certo tipo di accoglienza, che è dunque possibile. Con un grande lavoro di decostruzione collettiva dei paradossi che attraversano la nostra società, questa possibilità che è già realtà per altrə, potrebbe diventare tale anche per chi, ad ora, viene esclusə dall’interesse politico di concedere loro una vita dignitosa.


I video del convegno

Lidia Tortarolo

Quasi antropologa e aspirante ricercatrice. Vivo a Milano ma vorrei spesso essere Altrove. Mi interesso di migrazione perché non posso non farlo: è qualcosa che mi prende lo stomaco, me lo rigira. Al momento mi sto occupando principalmente di temi legati all’antropologia della violenza e all’antropologia medica, in relazione al contesto migratorio della Rotta Balcanica.