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Foto: Sara Prestianni, Melilla (enclave spagnola in Marocco)
Foto: Sara Prestianni, Melilla (enclave spagnola in Marocco)
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La Spagna approva il piano di autonomia marocchino nel Sahara Occidentale

Si ridisegnano le relazioni con il Marocco, soprattutto in materia di migrazioni

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Cambiano le carte in tavola nelle relazioni tra Spagna e Marocco e si risolve così la crisi diplomatica che durava da oltre un anno. Con la recente riapertura degli accessi terrestri alle enclavi di Ceuta e Melilla, dopo che già erano stati ristabiliti in aprile i collegamenti aerei e marittimi, ha riaperto ufficialmente la frontiera ispano-marocchina. Chiusa dal marzo 2020 fino al 2022 in seguito alle restrizioni per il contenimento del Covid e poi a causa della crisi politico-diplomatica tra i due paesi, che ha avuto come sfondo principale la questione del Sahara Occidentale.

I nuovi accordi siglati da Spagna e Marocco inaugurano una “nuova tappa” nelle relazioni tra i due Paesi, che si basa principalmente sul riconoscimento spagnolo della legittimità dell’occupazione marocchina nel Sahara Occidentale. Pedro Sanchez ha dichiarato in visita a Rabat lo scorso aprile che “riconosce l’importanza della questione del Sahara per il Marocco“, pertanto “la Spagna considera il piano di autonomia marocchino, presentato nel 2007, come la base più seria, realistica e credibile per la risoluzione della controversia“.

Questa decisione “strategica” della Spagna implica gravi conseguenze non solo sulla pelle del popolo saharawi, che da oltre 40 anni lotta per l’autodeterminazione, ma anche sulla pelle delle persone migranti. È già entrato in vigore infatti un nuovo accordo di cooperazione tra Spagna e Marocco in materia di sicurezza e lotta alla criminalità, ovvero in materia di detenzioni e deportazioni.

Quel che sembra è che Sanchez abbia ceduto al ricatto del re Mohammed VI al fine di proteggere i prioritari interessi della Spagna, che coincidono con quelli dell’Ue: respingere quanto più possibile il flusso migratorio e difendere ed ampliare i progetti estrattivisti nel territorio nordafricano. Infatti, se politicamente il governo spagnolo si è sempre posizionato a favore dell’autodeterminazione del popolo saharawi – il che non ha mai realmente costituito un appoggio concreto e determinante – ha sempre continuato a dialogare con il Marocco per lo sfruttamento delle risorse presenti nel Sahara occupato, nonostante anche la Corte di Giustizia europea si sia più volte espressa sull’illegalità di questi accordi commerciali.

La questione del Sahara Occidentale

Questa controversia inizia nel 1975, con la decolonizzazione del Sahara Occidentale. Con gli accordi di Madrid la Spagna lascia la partita a Marocco e Mauritania, che rivendicano la sovranità sul territorio, negando la via del referendum di autodeterminazione. Nello stesso anno le forze militari marocchine invadono il Sahara, con la cosiddetta “Marcia verde” e danno inizio all’occupazione che tutt’oggi divide il territorio in due, lasciandone solo un terzo alla Repubblica Araba Democratica Saharawi. A dividere il territorio è un muro lungo 2.200 km, costruito nel 1980. La guerra ha costretto la maggior parte delle persone che vivevano nei territori occupati a spostarsi. La maggior parte di loro ha trovato rifugio nei campi profughi a Tindouf in Algeria, unico paese alleato del Fronte Polisario (rappresentante del popolo saharawi).

La guerra tra le forze di occupazione marocchine e il Fronte Polisario durò fino al 1988 quando le due parti, con la mediazione dell’Onu, raggiunsero un accordo che prevedeva “un cessate il fuoco e lo svolgimento di un referendum senza restrizioni militari o amministrative, che consenta al popolo del Sahara Occidentale di esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione, di scegliere tra l’indipendenza o l’integrazione nel Marocco”.

Da allora l’Onu è impegnata nel Sahara con la missione MINURSO (Missione delle Nazioni Unite per il Referendum nel Sahara Occidentale), tuttavia questo referendum non si è mai fatto, per i continui sabotaggi del Marocco e per la mancanza di reale interesse delle nazioni occidentali. Il Marocco infatti ha sempre goduto del sostegno politico ed economico di potenze occidentali come Spagna, Francia e Stati Uniti, che hanno legittimato de facto la sovranità che il Marocco non possiede de iure sul Sahara Occidentale.

Crisi nelle relazioni tra Spagna e Marocco

Per comprendere le cause della crisi tra Spagna e Marocco e analizzare le sue conseguenze sulla frontiera, è necessario fare un passo indietro, almeno fino all’ottobre del 2020, quando decine di attivisti saharawi lanciano una protesta pacifica e organizzano un blocco al valico di Guerguerat per chiederne la chiusura. Si tratta di un territorio strategico nel sud-ovest del Sahara Occidentale al confine con la Mauritania, dove le forze d’occupazione marocchine hanno aperto un varco illegale nel muro, attraverso il quale trasportano merci derivanti dal saccheggio delle risorse naturali saharawi, violando le convenzioni internazionali sotto lo sguardo passivo delle Nazioni Unite. A novembre le forze marocchine intervengono militarmente per reprimere la protesta, violando gli obblighi previsti dall’accordo di cessate il fuoco.

Blocco al valico di Guerguerat

Si rompe così la tregua che durava da oltre trent’anni e riprendono le azioni militari lungo il muro, rinominato “de la verguenza”, mentre la Spagna – come il resto della comunità internazionale – mantiene il suo profilo neutrale sulla questione, senza appoggiare l’azione marocchina ma senza neanche condannarla.

La tensione tra Spagna e Marocco scoppia nell’aprile 2021, quando il leader del Fronte Polisario, Brahim Ghali, viene ricoverato in Spagna in un ospedale di Saragozza per Covid. La reazione di Mohamed VI non si fa attendere e a metà maggio sospende i controlli sulla frontiera di Ceuta per 48 ore, facilitando il passaggio di circa 8 mila persone migranti, con lo scopo di ricattare la Spagna e l’Europa e ottenere il loro sostegno ai progetti espansionistici marocchini. Da allora i rapporti tra i due paesi erano rimasti tesi, tant’è che le frontiere sono rimaste chiuse e la macchina dei respingimenti e delle deportazioni ha subito un forte rallentamento, cosa che ha costretto il governo spagnolo a elaborare un nuovo piano di accoglienza. Le deportazioni durante questo periodo (2020-2021), drasticamente diminuite, sono state regolamentate attraverso specifici accordi per i rimpatri con i paesi d’origine, come Mauritania, Gambia, Senegal.

Photo credit: Mattia Iannacone

Ripercussioni sulla frontiera

A partire dall’estate 2020 le Isole Canarie hanno assistito ad un rapido aumento degli arrivi sulle proprie coste. Questo aumento di arrivi non è stato dovuto ad un aumento del flusso migratorio dalle coste africane alla Spagna, ma dalle deviazioni dei percorsi di questo flusso. Tuttavia la retorica emergenziale costruita dal governo spagnolo ha presentato questo aumento di arrivi alle Canarie come una anomalia, giustificando trattamenti disumani con la logica istituzionale della ricerca di soluzioni rapide, come ha dimostrato la vicenda del molo di Arguineguin a Gran Canaria, dove oltre due mila persone sono state trattenute per settimane o mesi sulla darsena senza accesso ai servizi basici.

L’impossibilità di deportare le persone che arrivavano a causa del blocco dei collegamenti – inizialmente per il covid, successivamente per il deterioramento delle relazioni tra Spagna e Marocco – ha portato all’apertura di vari campi, principalmente a Tenerife e Gran Canaria, con l’obbiettivo di trattenere le persone migranti sulla frontiera e regolarne il flusso diretto alla penisola.

In questo modo le Canarie si sono trasformate per diversi mesi in una trappola per migliaia di persone che si sono trovate bloccate per molti mesi sulla frontiera, costrette alle dure condizioni dei campi e alla continua repressione della polizia.

Photo credit: SaraPrestianni – Uno dei nuovi campi costruiti nella scuola di León, nel quartiere di El Lasso, a Las Palmas de Gran Canaria (https://euromedrights.org/canaries-report)

A febbraio 2021 ha aperto a Tenerife il primo campo, Las Raíces. Fin dai primi giorni un gruppo di migranti ha costruito un accampamento informale di protesta di fronte ai cancelli del campo per negarsi all’assoggettamento istituzionale, che realmente offriva poco di più rispetto alla situazione di strada che avevano scelto. Questo accampamento è rimasto in piedi fin oltre l’estate, mesi durante i quali chi ci ha abitato ha sofferto quotidianamente l’azione intimidatoria della polizia.

La repressione delle proteste si è spesso svolta anche all’interno della struttura, soprattutto all’inizio e durante i primi mesi, con l’evidente intenzione di silenziare la denuncia, e mettendo i bastoni tra le ruote alle reti solidali che la rendevano visibile, in modo da permettere il normale svolgimento della (necro)politica migratoria adottata. Las Raíces non è ovviamente l’unico dispositivo dove si è intervenuto in questa maniera, si tratta infatti di un modus operandi attuato anche negli altri centri di Tenerife e Gran Canaria.

La repressione della polizia non è un elemento irrilevante, infatti mentre i CIE si svuotavano per l’impossibilita di effettuare i rimpatri e migliaia di persone venivano trattenute nei campi, si riempivano anche le carceri di persone migranti, colpevoli del solo fatto di essere migranti.

Photo credit: Mattia Iannacone

Nelle Isole Canarie molte decine di migranti hanno scontato o stanno scontando pene per traffico di esseri umani, in molti casi arrestati direttamente all’arrivo per il semplice fatto di possedere una bussola, un GPS o il timone. La maggior parte delle volte i diritti della difesa non sono garantiti nei processi, così come i diritti dei detenuti sono di più difficile accesso ai migranti. Molte altre persone sono invece detenute a causa di arresti sommari avvenuti in risposta alle proteste all’interno dei campi, denunciate dalla polizia nazionale e condannate con prove false.

I nuovi accordi entrati in vigore ad aprile in termini di sicurezza e lotta alla criminalità tra Spagna e Marocco enfatizzano una visione, ormai consolidata, che collega sistematicamente criminalità e immigrazione. Di fatto non sono altro che un nuovo strumento di repressione razziale di cui le forze dell’ordine possono servirsi per colpire le persone migranti.

Teo e Modou rendono memoria viva ai compagni senegalesi scomparsi e tutti i naufraghi nell’indifferenza del mondo (foto di Caravana Abriendo Fronteras)
Teo e Modou rendono memoria viva ai compagni senegalesi scomparsi e tutti i naufraghi nell’indifferenza del mondo (foto di Caravana Abriendo Fronteras, agosto 2021)

Dallo scorso aprile, dall’inizio della “nuova tappa” tra Spagna e Marocco, il paradigma della “accoglienza” è nuovamente cambiato. Il CIE di Barranco Seco di Gran Canaria è già in funzione da più di un mese, da qui ogni settimana fino ad oggi sono stati deportati gruppi di almeno 20 persone marocchine, in molti casi nonostante fossero in possesso di protezione internazionale. Il 2 maggio la rete di Gran Canaria Somos Red ha pubblicato un comunicato in cui riferiva dello sciopero della fame di un gruppo di persone detenute nel CIE di Barranco Seco, per denunciare le condizioni disumane e degradanti della loro detenzione.

La violenza della polizia non è un elemento irrilevante, bensì un elemento fondante della politica migratoria spagnola e dell’Ue in generale, che da anni investe ingenti somme in un sistema della frontiera sempre più armato. La criminalizzazione e la persecuzione dei migranti sono fattori che hanno un’influenza decisiva sulla mortalità.

Negli ultimi due anni, secondo le ricerche dell’ong Caminando Fronteras, sarebbero 6.574 le persone che hanno perso la vita cercando di raggiungere le coste spagnole, la maggior parte di queste nel tentativo di raggiungere le Canarie. Nonostante il numero di morti e sparizioni, non esistono registri o canali per richiedere informazioni o denunciare una scomparsa. Anzi centinaia di famigliari, secondo quanto riporta la stessa ong, hanno denunciato di essere state criminalizzate quando si sono avvicinate alle stazioni di polizia spagnole per denunciare una scomparsa in mare.

Mattia Iannacone

Mi chiamo Mattia, vengo da Novara e mi sono laureato in scienze politiche a Padova. Ho avuto diverse esperienze in frontiera come attivista in Italia, Spagna e nei Balcani. Attualmente vivo a Bologna dove studio antropologia.