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Anche il “lavoro nero” conta ai fini del soggiorno del cittadino UE: accertato il diritto al soggiorno permanente

Tribunale di Roma, ordinanza del 20 giugno 2022

Foto di Denniz Futalan da Pexels

Il Tribunale di Roma era stato adito da un cittadino U.E. affinché fosse accertato, nell’ambito della normativa di cui al d.lgs. 30/2007, il suo diritto al soggiorno permanente (art. 14), a fronte del diniego del rilascio della relativa attestazione (art. 16) da parte del Comune di Roma. Secondo quest’ultimo difettava la prova che questi avesse soddisfatto, per almeno un quinquennio, le condizioni per il soggiorno per un periodo superiore a tre mesi di cui all’art. 7 ed in particolare la dimostrazione dell’esercizio di lavoro subordinato o autonomo.

Il Tribunale ha innanzitutto stabilito che la nozione di “soggiorno legale” di cui all’art. 14, presupposto per l’acquisizione del diritto al soggiorno permanente, dev’essere rintracciata nell’art. 45 T.F.U.E. e nella dir. 2004/38/CE in materia di libera circolazione dei cittadini UE e dei loro familiari ed all’interpretazione fornita in proposito dalla Corte di Giustizia U.E.. Da tale assunto il Tribunale ha innanzitutto tratto una prima conclusione: non rileva la regolarità del soggiorno secondo la normativa nazionale, ma ne dev’essere esclusivamente accertata la conformità con le disposizioni eurounitarie in materia.

Sulla scorta di ciò, il Tribunale ha ritenuto che l’esercizio di lavoro in forma soltanto irregolare da parte del ricorrente (che aveva lungamente lavorato come manovale e muratore “alla giornata” presso diversi cantieri, senza alcuna copertura contrattuale) risultava irrilevante a fronte della considerazione per cui “il riconoscimento dello status di lavoratore, ai fini dell’applicazione del diritto dell’Unione, non può dipendere dalla qualifica data dalle parti al rapporto di lavoro né dalla conclusione di un contratto di lavoro, ma dall’analisi degli elementi fattuali. Richiamando la giurisprudenza della Corte di Giustizia U.E., il Tribunale di Roma ha stabilito la necessità di accertare la sussistenza di tre criteri oggettivi “rilevanti, quindi, sul piano dell’effettivo svolgimento del rapporto e a prescindere dalla qualificazione allo stesso eventualmente attribuita dalle parti” e secondo i quali l’attività del ricorrente doveva essere qualificata come lavoro ai fini della normativa U.E. alla luce “a) del carattere «reale ed effettivo» della prestazione (personalmente) resa; b) della soggezione al potere di direzione del destinatario della stessa (in cui si esprime il vincolo di subordinazione in senso stretto); c) della natura onerosa della prestazione (e quindi del pagamento, in qualsiasi forma, di una retribuzione come corrispettivo di essa)“.

La prova di tale attività è stata fornita mediante prova dichiarativa (l’escussione di un testimone con cui il ricorrente aveva condiviso l’attività nel settore edile) e documentale (l’accertamento di patologie invalidanti contratte in Italia a seguito dell’esercizio di attività usuranti e prive di tutela).

Il Tribunale ha sottolineato infine la ricorrenza nel caso di specie dell’ipotesi di cui all’art. 15 lett. d.lgs. 30/2007 che stabilisce che il diritto al soggiorno permanente è acquisito prima del quinquennio quando il lavoratore “cessa di esercitare l’attività professionale a causa di una sopravvenuta incapacità lavorativa permanente“. Il Tribunale ha infatti osservato che “il riconoscimento dell’invalidità civile, con perdita della capacità lavorativa dal 74% al 99%” dimostra che “l’interruzione dell’attività lavorativa è avvenuta indipendentemente dalla volontà” del ricorrente e che dev’essere tenuta in considerazione “l’impossibilità di accertare la malattia professionale dagli enti preposti, a causa dello svolgimento di attività lavorativa senza un regolare contratto“.

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Si ringrazia l’Avv. Andrea Dini Modigliani per la segnalazione ed il commento.