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Festa Nagar Kirtan, Sabaudia - Foto di Selene Lovecchio

Mani che conoscono la terra: dai veneti agli indiani Sikh

Un reportage di Selene Lovecchio dall'Agro Pontino alla Piana di Gioia Tauro

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Selene Lovecchio, studentessa universitaria e attivista, sarà presente, nel mese di agosto, in alcuni luoghi dove “l’abitare illegale”, definizione dell’antropologo Andrea Staid, si unisce allo sfruttamento bracciantile. Un reportage dall’Agro Pontino alla fertile Piana di Gioia Tauro.


In alcune zone dell’antica terra laziale prima paludosa e inospitale non nasceva niente. L’infertilità di questo territorio caratterizzava la maggior parte della zona circostante, fino al 1927, momento in cui la dittatura di Mussolini volle, in sella al suo trattore FIAT, tracciare i confini della bonifica del territorio di Latina, l’antica Littoria.

Da quel momento in poi, tra fallimenti ancor oggi raccontati come vittorie1 e modelli sempre più all’avanguardia di trattori e macchine agricole, inizia lo spostamento dei coloni, le cosiddette migrazioni interne.

Una sorta di antico decreto flussi che provvedeva il Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione interna con l’incarico di regolamentare i trasferimenti della manodopera disponibile dalle province ad alta intensità demografica; tali trasferimenti erano stabiliti dal Commissariato in base allo stato di bisogno o in base all’anzianità di disoccupazione e l’Agro Pontino divenne la meta per migliaia di operai che, spinti dalla necessità di lavorare, si presentavano anche privi del necessario nulla osta. La manodopera incontrava la necessità e dunque, come diremmo noi oggi – in maniera irregolare – le persone lavoravano lo stesso.

Ogni servizio loro offerto, da quello abitativo agli spostamenti, doveva essere pagato all’impresa 50 centesimi al giorno.

Queste famiglie coloniche arrivavano per la maggior parte da Veneto e Emilia Romagna ed erano selezionate in base allo stato di necessità, capacità e grado di forza lavoro (numero di figli maschi per ciascuna famiglia, in quanto il grado andava da 1 per gli uomini, 0.55 per le donne da 18 a 65 anni, 0.25 per i ragazzi e le ragazze da 8 a 13 anni, 0.25 per le ragazze da 14 a 17 anni e 0.20 per chi aveva più di 65 anni). Non è difficile pensare che le famiglie, pur di soddisfare il minimo requisito (0.25 di unità lavorative per ogni ettaro di terra) si componessero artificialmente di elementi di altre famiglie.

Oggi, al 2022, ancora non tutti i frutti e gli ortaggi si possono raccogliere meccanicamente, alcuni hanno bisogno di braccia, o di mani piccole e attente, minuziose e delicate. Hanno bisogno che il momento della raccolta sia lento e attento, una dolcezza armoniosa che spesso non viene accompagnata dai tempi rapidi richiesti dal settore agricolo, e necessari per i lavoratori per guadagnarci qualcosa, da quei frutti.

“Centro per l’impiego”

Appena si esce dalla stazione di Sezze Romano, si viene accolti da un edificio di media altezza, di un giallognolo che ha decisamente esagerato con l’esposizione ai raggi UV, e una scritta a caratteri cubitali: “Centro per l’impiego”, ed è emblematico, perché molti dei problemi legati al lavoro agricolo nascono da questo.

Tra le cause dell’avanzamento sempre più rampante dell’utilizzo di manodopera straniera nei campi agricoli c’è anche l’inefficacia di questo servizio pubblico. Il Centro per l’Impiego è apparso a me un po’ come un enorme Mulino a Vento cervantiano, con grate arrugginite che serrano la porta d’ingresso, mancherebbe solo un grosso lucchetto per coronare l’immagine.

La maggior parte del lavoro in Italia è reclutato in maniera informale, se parliamo poi di lavoro agricolo l’informalità si innalza e tocca l’apice, raggiungendo la vetta che più di tutte tolgono la dignità e disumanizzano: schiavitù vera e propria. Questa si consuma nei campi quotidianamente, alla luce del sole, che filtra la sua fin troppo ardente luminosità attraverso la plastica rigida e bianca delle serre, che trattiene ogni forma di libertà, ogni forma d’aria.

La scarsa efficienza dell’intermediazione lavorativa pubblica porta i datori di lavoro, per soddisfare la manodopera necessaria a portare in tavola il cibo che mangiamo, a rivolgersi ad intermediari illeciti. Oltre ai ritmi rapidi del lavoro agricolo e i tempi brevissimi in cui necessitano di essere soddisfatti, ci sono altre cause che portano a fenomeni quali il caporalato di ingigantirsi e radicarsi fortemente. Diviene un mostro sempre più potente da sconfiggere, un mostro sempre più pretenzioso da sfamare. 

L’enorme scritta “Centro per l’impiego” che accoglie il mio arrivo in questa terra mi pare un’allegoria che si materializza, una figura retorica lampante. Ancor di più perché c’è un albero davanti all’edificio, e un ramo un po’ dissestato, un po’ irregolare, copre la parola “impiego”.

Oltre al bianco delle serre, ad irradiare questo verde pregno di sofferenza e fatica è l’arancione. Dai tempi della bonifica e dalle migrazioni interne di veneti e romagnoli, col tempo, si è assistito ad un lento passaggio del testimone e le migrazioni sono divenute internazionali. Sono gli indiani Sikh, oggi, con i loro pag spesso arancioni, a coltivare queste terre e a conoscerle minuziosamente.

Con la loro migrazione sono riusciti a creare una comunità totalmente a se stante, portando con sé le capacità tecniche e le radici di un popolo legato al settore primario: l’agricoltura e l’allevamento. Sono riusciti a riproporre la loro manodopera in questa zona, diventandone protagonisti.

Secondo una stima di CGIL, riportata da un articolo di OpenMigration, gli indiani Sikh che abitano questo luogo sono circa 25 mila, rendendo questa comunità la seconda più grande in Italia (dopo quella dell’Emilia Romagna). La maggior parte proviene dal territorio del Punjab, una regione dell’India che fin dal 1947 – anno dell’indipendenza dal dominio inglese, è interessata in diversi processi di modernizzazione. Un processo non indolore e che si è rivelato artefice di profonde tensioni e fratture fra comunità. Le politiche messe in atto, la “Rivoluzione Verde”, non hanno sortito l’effetto desiderato: lo sviluppo socio-economico. Tali politiche intensificarono l’uso di fertilizzanti non organici, quali pesticidi, ed una grande quantità di macchinari agricoli. Molti studiosi enfatizzarono quanto queste tecniche non fossero utilizzabili da tutti se non da una ristretta “élite” agraria con un certo capitale iniziale da investire e una disponibilità di terra. Solo il 10% degli agricoltori (che rappresentavano circa il 75% del totale degli agricoltori punjabi) sono stati coinvolti in questi nuovi processi. 

Le tensioni si riversarono principalmente tra Sikh Jat (cosiddetti landlords) e i braccianti agricoli. Possiamo dunque asserire che questa popolazione migra per sfuggire a una disuguaglianza che contrappone ricchi e poveri per approdare in una realtà, potremmo dire, ancora peggiore.

Nel 2020 si è tenuto il referendum in favore dell’indipendenza del Punjab, con l’obiettivo di creare una nuova regione indipendente con il nome di “Khalistan”. L’iniziativa si è tenuta tra tutti i Sikh della diaspora, presenti soprattutto in Inghilterra, in Canada e in Italia, per poi chiedere alle Nazioni Unite di ratificare il risultato.

Facendo di nuovo un passo indietro nella storia, durante l’arrivo dei coloni negli anni ’30, sorsero diversi problemi quali l’impreparazione di alcuni braccianti nell’allevare bestiame, opere idrauliche ancora da ultimare, colture su terreni prima mai coltivati o difficoltà di socializzazione. Tutto questo portò le famiglie a vivere in uno stato di indigenza che ancora oggi caratterizza le comunità straniere in Italia.

Sono i lavoratori di questo territorio. E come vengono ricambiate le loro fatiche? Schiavizzandoli, non rendendo neanche minimamente accettabile la condizione nella quale lavorano, e lavorano per noi, per il cibo che mangiamo.

Parlando con Gurpreet S. di Caritas Latina, alla domanda «cosa spinge la migrazione verso questa zona, sanno ciò che li aspetta?», la risposta è che sì, spesso sanno della situazione, ma che la voglia di realizzarsi e di produrre di più vince sul timore di quanto si sente sulla vita in Italia. Si decide di esorcizzare la paura di partire facendo finta che non sia vero, o «un modo lo si trova per cavarsela lo stesso». La voglia di lavorare è la spinta principale.

E noi come ripaghiamo queste braccia, queste vite? 

Con pagamenti che funzionano a cottimo e che pagano 0,02 centesimi per un mazzetto di 10 ravanelli e 0,03 per un mazzetto da 15. Con contratti grigi che non contano le ore effettivamente lavorate e che sono orchestrati per fare in modo che la persona lavoratrice non abbia accesso ai diritti legati all’assistenza sociale e sanitaria. Sono 51 le giornate lavorative annue necessarie ad ottenere l’accesso a tali servizi ma i contratti sono creati in funzione del non raggiungimento di tali criteri.

Ci abbiamo provato con la sanatoria, art.103 del d.l. 34/2020 e il risultato è stato fallimentare ed ha portato alla disillusione e a gesti estremi quali quello di Joban Singh. Un bracciante agricolo di 26 anni che, non trovando più modalità per far fronte al debito insanabile contratto alla partenza dal suo Paese, ha deciso di togliersi la vita. Il suo è un caso in cui il suicidio diventa un atto sociale estremo di denuncia. Una denuncia ad un sistema mafioso che porta persone come Joban a vivere in uno stato di dipendenza e vulnerabilità, alla stregua di un vincolo associativo che ammazza se si fugge.

Quando si è aperta la via per un secondo tentativo di regolarizzazione dopo quello del 2012, si sono accese speranze per molti per uscire dalla condizione di irregolarità che coincide con totale assenza di diritti. Studi e ricerche identificano un tempo di oltre 30 anni per poter risolvere tutte le pratiche presentate. A due anni dalla sanatoria sono stati rilasciati 1.480 permessi di soggiorno (0.71% del totale).

Ci proviamo facendo incontrare istituzioni e dando loro piazze per festeggiare le feste religiose tradizionali.

Il 24 luglio Piazza Santa Barbara a Sabaudia era stracolma di persone. Noi li preferiamo invisibili, sì, ma invisibili non sono. Migliaia di indiani Sikh a festeggiare la festa di Nagar Kirtan, un’intera piazza dedicata al loro momento, con stand di cibo tipico e un palco dedicato al momento di preghiera. Un palco dove successivamente si sono incontrati la comunità Sikh e il sindaco della città. Un Comune che si racconta e si mostra disponibile, un momento altissimo di integrazione in cui si promette di lavorare insieme, di riconoscere la loro comunità, almeno formalmente, come una comunità di lavoratori fondamentali nel substrato della manodopera della zona.

Una comunità riconosciuta nel loro valore e nel loro lavoro, un lavoro che però corrisponde in termini di fatica ed equa retribuzione? In termini di accesso ai diritti e alle parole propositive di integrazione che si echeggiano in piazza Santa Barbara in questo rovente 24 luglio?

No!

Alcuni riferimenti per approfondire:

  • Corsi, M., “Il Separatismo Sikh Nel Punjab.” Rivista Di Studi Politici Internazionali 63, no. 3 (251) (1996): 399–408, http://www.jstor.org/stable/42737682
  • Omizzolo M., Romanelli M., Mizzi B., (2022), Lo sfruttamento lavorativo delle donne migranti nella filiera agroalimentare, il caso dell’Agro Pontino, WeWorld.
  • Chiaromonte W., (2018), «Cercavamo braccia, sono arrivati uomini». Il lavoro dei migranti in agricoltura fra sfruttamento e istanze di tutela, Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 158: 321.356.
  1. Su come il regime sull’opera delle bonifiche dell’Agro Pontino riuscì a costruire una narrazione fortissima consigliamo il libro dello storico Francesco Filippi: «Mussolini ha fatto anche cose buone» ndR.

Selene Lovecchio

Laureata in Linguaggi dei Media, attualmente attivista e studentessa magistrale di Scienze Internazionali, Human Rights and Migration Studies. Aspirante ricercatrice e giornalista.
Sono interessata alle migrazioni, all'agribusiness e ai temi politico-sociali. Viaggio tra i confini, mi sporco le mani e scrivo.