Il dominio coloniale e la sua storia di sfruttamento, oppressione e crudeltà non sono mai terminati. Dalle condizioni in cui sono costrette a lavorare le donne in India nell’industria tessile, oppure costrette a farsi togliere l’utero per essere più produttive nelle piantagioni di canna da zucchero, fino ai braccianti costretti a lavorare in condizioni disumane nei campi di pomodori: gli esempi sono tanti.
Nonostante la decolonizzazione „formale“, ossia l’autonomia politica e in parte anche economica riconquistata a caro prezzo dai Paesi colonizzati, le strutture del colonialismo continuano a perpetuarsi, riproducendo pressoché le stesse, se non ancora più crudeli e spietate, logiche di sfruttamento e potere.
Per dirlo con le parole di Spivak, adesso quello stesso sistema di oppressione opera in remoto, generando la stessa sofferenza 1. Ufficialmente l’era storica del colonialismo è terminata, ma il capitalismo neoliberale continua a sfruttare una parte della popolazione mondiale a vantaggio dell’occidente bianco, riducendola a mero oggetto dei propri desideri e interessi.
Essendo il capitalismo un sistema che ingloba al proprio interno ogni sfera di azione dell’essere umano, anche il campo della ricerca non è escluso da tale logica. Nello studio «Decolonial Notes on How to do Research on International Migrations in the World System» 2, Yoan Molinero-Gerbeau e Gennaro Avallone, si soffermano esattamente su questo punto, mettendo in luce la prospettiva egemonica capitalista nello studio delle migrazioni e offrendo approcci di analisi in grado di sovvertire tale paradigma.
Lo studio delle migrazioni negli ultimi decenni è stato caratterizzato da un approccio stato-centrico, per cui gli interessi dello Stato ospitante prevalgono su quelli delle persone migranti, i quali, come affermano i due autori, dovrebbero, invece, occupare un posto centrale. I desideri, i bisogni, i sogni e le necessità materiali di chi migra vengono subordinati alle esigenze della società di arrivo. Gli altri, i/le migranti, non vengono considerati come delle personalità autonome e indipendenti, ma solo in relazione allo scopo utilitaristico che possono ricoprire nella società ospitante. Per dirla in altro modo, anche nel campo della ricerca, spesso non si tenta di analizzare i motivi, le storie familiari o le esigenze personali di chi migra, quanto le loro prestazioni in funzione alle esigenze dello Stato: quanti migranti ci sono? Quanti sono integrati socialmente? Quanti economicamente?
La figura del/la migrante svolge un ruolo determinante per lo Stato. Attraverso la categoria di coloro che non appartengono alla nazione, lo Stato, infatti, legittima il proprio controllo sui confini e sulla popolazione interna. Nell’era della globalizzazione dell’economia di mercato, il/la migrante è inoltre necessario allo Stato per un altro motivo: manodopera a basso costo. Anche se in tal caso gli Stati rinneghino la propria responsabilità, incolpando le aziende e le multinazionali, di fatto però, non promuovono leggi in grado di tutelare a sufficienza le categorie vulnerabili dallo sfruttamento, favorendo così la riproduzione di logiche coloniali.
Sovvertendo i rapporti egemonici di potere, l’approccio decoloniale pone il/la migrante, e non gli interessi dello Stato, al centro dell’analisi, procedendo dal particolare verso l’universale e non viceversa. Un punto di vista decoloniale considera il/la migrante, citando Sayad, come un “fatto sociale totale“ 3: una persona con una propria storia, modi di pensare e sentire. Questo significa riconoscere il/la migrante come soggetto attivo della storia, non come oggetto plasmabile alle esigenze della società ospitante.
La retorica del migrante in quanto ricchezza e potenziale da sfruttare e in tal senso particolarmente stucchevole e frustrante. Prima di essere trasformato in „ricchezza“ per lo stato ospitante, l’atto di migrare è un atto di perdita e in quanto tale di povertà. Ancor prima che essere ricco di conoscenze, esperienze, il/la migrante è povero. È povero di affetti famigliari, di persone che non può più abbracciare, di sapori che non può più gustare e profumi che non può più odorare. In quanto tale, il/la migrante è un soggetto estremamente vulnerabile. La presenza fisica dei migranti, i loro corpi, rappresentano così una minaccia per l’egemonia occidentale. È per questo che devono essere nascosti, resi invisibili, collocati nell’area del „no-being“ 4 oppure trasformati in ricchezza, integrati, assimilati.
Decolonizzare gli studi delle migrazioni internazionali significa dunque rendere visibile l’invisibile, trasformare l’oggetto in soggetto e soprattutto restituire a chi migra la dignità del proprio essere e del proprio esistere. Non solo: significa anche ripensare dove, da chi e per chi viene prodotto il sapere. Queste restano tutt’oggi le più grandi sfide della decolonizzazione.
- D. Landry, G. MacLean (a cura di), The Spivak Reader, Routlege, London, 1996, p. 292
- Consulta lo studio qui
- «La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato», un libro di Abdelmalek Sayad (Raffaello Cortina Editore, 2002)
- Fanon, F. (2009) in Avallone, G., Molinero Gerbeau, Y. (2021). Freeing Migration: The Contribution of Abdelmalek Sayad to a Migrant-Centric Epistemology. Migraciones internacionales, 12, rmiv1i11949. Epub October 25, 2021.