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Photo credit: Valentina Belluno (Decolonize Your Eyes)
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Uno sguardo decoloniale sullo studio delle migrazioni

Le sfide ancora aperte della decolonizzazione

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Il dominio coloniale e la sua storia di sfruttamento, oppressione e crudeltà non sono mai terminati. Dalle condizioni in cui sono costrette a lavorare le donne in India nell’industria tessile, oppure costrette a farsi togliere l’utero per essere più produttive nelle piantagioni di canna da zucchero, fino ai braccianti costretti a lavorare in condizioni disumane nei campi di pomodori: gli esempi sono tanti.

Nonostante la decolonizzazione „formale“, ossia l’autonomia politica e in parte anche economica riconquistata a caro prezzo dai Paesi colonizzati, le strutture del colonialismo continuano a perpetuarsi, riproducendo pressoché le stesse, se non ancora più crudeli e spietate, logiche di sfruttamento e potere.

Per dirlo con le parole di Spivak, adesso quello stesso sistema di oppressione opera in remoto, generando la stessa sofferenza 1. Ufficialmente l’era storica del colonialismo è terminata, ma il capitalismo neoliberale continua a sfruttare una parte della popolazione mondiale a vantaggio dell’occidente bianco, riducendola a mero oggetto dei propri desideri e interessi.

Essendo il capitalismo un sistema che ingloba al proprio interno ogni sfera di azione dell’essere umano, anche il campo della ricerca non è escluso da tale logica. Nello studio «Decolonial Notes on How to do Research on International Migrations in the World System» 2, Yoan Molinero-Gerbeau e Gennaro Avallone, si soffermano esattamente su questo punto, mettendo in luce la prospettiva egemonica capitalista nello studio delle migrazioni e offrendo approcci di analisi in grado di sovvertire tale paradigma.

Lo studio delle migrazioni negli ultimi decenni è stato caratterizzato da un approccio stato-centrico, per cui gli interessi dello Stato ospitante prevalgono su quelli delle persone migranti, i quali, come affermano i due autori, dovrebbero, invece, occupare un posto centrale. I desideri, i bisogni, i sogni e le necessità materiali di chi migra vengono subordinati alle esigenze della società di arrivo. Gli altri, i/le migranti, non vengono considerati come delle personalità  autonome e indipendenti, ma solo in relazione allo scopo utilitaristico che possono ricoprire nella società ospitante. Per dirla in altro modo, anche nel campo della ricerca, spesso non si tenta di analizzare i motivi, le storie familiari o le esigenze personali di chi migra, quanto le loro prestazioni in funzione alle esigenze dello Stato: quanti migranti ci sono? Quanti sono integrati socialmente? Quanti economicamente?

La figura del/la migrante svolge un ruolo determinante per lo Stato. Attraverso la categoria di coloro che non appartengono alla nazione, lo Stato, infatti, legittima il proprio controllo sui confini e sulla popolazione interna. Nell’era della globalizzazione dell’economia di mercato, il/la migrante è inoltre necessario allo Stato per un altro motivo: manodopera a basso costo. Anche se in tal caso gli Stati rinneghino la propria responsabilità, incolpando le aziende e le multinazionali, di fatto però, non promuovono leggi in grado di tutelare a sufficienza le categorie vulnerabili dallo sfruttamento, favorendo così la riproduzione di logiche coloniali.

Sovvertendo i rapporti egemonici di potere, l’approccio decoloniale pone il/la migrante, e non gli interessi dello Stato, al centro dell’analisi, procedendo dal particolare verso l’universale e non viceversa. Un punto di vista decoloniale considera il/la migrante, citando Sayad, come un “fatto sociale totale3: una persona con una propria storia, modi di pensare e sentire. Questo significa riconoscere il/la migrante come soggetto attivo della storia, non come oggetto plasmabile alle esigenze della società ospitante.  

La retorica del migrante in quanto ricchezza e potenziale da sfruttare e in tal senso particolarmente stucchevole e frustrante. Prima di essere trasformato in „ricchezza“ per lo stato ospitante, l’atto di migrare è un atto di perdita e in quanto tale di povertà. Ancor prima che essere ricco di conoscenze, esperienze, il/la migrante è povero. È povero di affetti famigliari, di persone che non può più abbracciare, di sapori che non può più gustare e profumi che non può più odorare. In quanto tale, il/la migrante è un soggetto estremamente vulnerabile. La presenza fisica dei migranti, i loro corpi, rappresentano così una minaccia per l’egemonia occidentale. È per questo che devono essere nascosti, resi invisibili, collocati nell’area del „no-being4 oppure trasformati in ricchezza, integrati, assimilati.

Decolonizzare gli studi delle migrazioni internazionali significa dunque rendere visibile l’invisibile, trasformare l’oggetto in soggetto e soprattutto restituire a chi migra la dignità del proprio essere e del proprio esistere. Non solo: significa anche ripensare dove, da chi e per chi viene prodotto il sapere. Queste restano tutt’oggi le più grandi sfide della decolonizzazione.

  1. D. Landry, G. MacLean (a cura di), The Spivak Reader, Routlege, London, 1996, p. 292
  2. Consulta lo studio qui
  3. «La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato», un libro di Abdelmalek Sayad (Raffaello Cortina Editore, 2002)
  4. Fanon, F. (2009) in Avallone, G., Molinero Gerbeau, Y. (2021). Freeing Migration: The Contribution of Abdelmalek Sayad to a Migrant-Centric Epistemology. Migraciones internacionales, 12, rmiv1i11949. Epub October 25, 2021.

Liliya Chorna

Nata in Ucraina, cresciuta nel Sud Italia, da anni vivo in Germania, dove lavoro a diversi progetti nel campo della migrazione. Nel 2020 ho conseguito a Napoli la laurea in Comunicazione interculturale in area euro mediterranea con una tesi in Tutela internazionale dei migranti. Guardare alle migrazioni da diverse angolature, in particolare dalla prospettiva post coloniale, mi offre lo spazio per pensare e lavorare ad una collettività più giusta e solidale. Per me l'impossibile è reale.