Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
Ph: Giovanna Dimitolo

Esseri immobili

Quando l'attesa diventa una questione politica

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La prima immagine che ci viene in mente quando pensiamo alla migrazione è quella di una persona in movimento, di un individuo che, per i motivi più disparati, si sposta da un posto per raggiungerne un altro; l’esodo cui un fuggitivo è costretto ad affrontare. In Italia, soprattutto, l’immagine della migrazione è attualmente connessa alla parola, o più correttamente all’ormai complementare, emergenza. Masse di individui si riversano sulle “nostre” frontiere, da nord a sud, in modo incontrollato e imprevedibile: questa è la descrizione più accurata che rappresenta l’immaginario comune, il quale, ancorato alla paura dell’invasione riduce la Persona ad un mero oggetto in movimento senza, tuttavia, considerare tutto il corollario che caratterizza la vita del così definito “migrante”. Uno degli aspetti che saltuariamente vengono analizzati dell’immigrazione è l’esatto opposto del suo movimento, ovvero l’immobilità. Il che, ovviamente, sembra quasi contraddittorio: parliamo di migrazione, non del “non-spostamento”. Tuttavia, se si approfondisce di poco la tematica stessa, spostando lo sguardo non più sulle coste quanto più nelle nostre città, ci accorgeremo che, la vita di un richiedente, è tutto a parte che movimento.

Ecco, questa è la tematica che l’articolo vuole presentare, come incipit, o monito, a non dimenticarci quanto sul tema della migrazione c’è ancora, tanto da comprendere.

Immobilità differenziale

Tutti noi abbiamo passato o passiamo un momento della vita e della nostra quotidianità ad essere immobili. Davanti allo sportello di una posta, in coda al supermercato, ad aspettare qualcuno alla stazione o ad attendere il volo di un aereo. L’immobilità è una costante comune, ma perché, dunque, è un fattore tanto fondamentale nell’analisi dell’immigrazione? O più propriamente, cosa distingue l’attesa di un richiedente dalla mia? Ebbene, un esempio eclatante può essere quello del lock-down dovuto alla pandemia di Covid-19: tutti ci siamo trovati, comunemente, isolati e sospesi in una realtà quasi parallela.

Tuttavia, nonostante questo fato abbia colpito l’umanità intera, senza privilegiare un determinato sesso o una razza, il modo in cui abbiamo atteso e siamo stati immobilizzati è stata un’esperienza completamente differente da persona a persona: il cittadino, con tutte le sue difficoltà, si è trovato immobilizzato nella propria casa, in un ambiente per quanto complesso, familiare, mentre il richiedente asilo è rimasto immobilizzato, per esempio, in una “nave-quarantena”, in un CPR oppure in una struttura di accoglienza, sempre però in uno spazio in cui le regole venivano e vengono imposte da un terzo.

Da questo esempio, che di per sé può essere banale, è chiaro ciò che Khosravi (2021) sottolinea in “The Weight of Waiting” l’attesa non è mai stata una condizione neutrale ma il risultato di un intreccio complesso tra genere, razza e classe. Il legame tra immobilità e “politica” è strettamente dipendente da ciò che caratterizza la mobilità moderna, ovvero l’essere strettamente subordinata dal sistema politico dello stato-nazione il quale, piuttosto che permettere e legalizzare la mobilità per ogni individuo, preferisce bloccarne la libertà.

Tutto ciò riflette quello che Bauman (2004) definì “Frontierism”, ovvero la costituzione di barriere e confini come mezzo di difesa dal caos della globalizzazione e contro coloro che la rappresentano, per esempio i migranti. In “Wasted Lives” lo studioso sottolineò come la paura da parte dello stato di sopperire alla globalizzazione, e dunque di perdere la propria egemonia territoriale attraverso la “naturale” creazione di uno spazio extralegale, porta lo stato stesso a negare l’accesso a tutti coloro che rappresentano il caos di questo spazio anarchico e che dunque, potrebbero minare la coesione e la stabilità del potere politico stesso, i migranti.

Ma perché accade ciò? Ormai è evidente che la globalizzazione ha e sta mostrando il suo più grande fallimento: al posto di essere una macchina egualitaria ed egalitaria in grado di dare pari opportunità tramite la creazione di uno spazio di condivisione, è diventata un meccanismo di differenziazione e divisione; come Bauman (2004) stesso sottolineò, infatti, la capacità di poter muoversi e vivere in tale spazio, è, ovviamente per i pochi che hanno la possibilità di poter “provvedere autonomamente a se stessi”, all’élite, mentre coloro che non hanno le possibilità di rimanere nel proprio stato e, contemporaneamente, in questa realtà extralegale, devono cercare riparo laddove l’ordine è garantito: uno stato terzo. La mobilità, diviene così elitaria, garantita per coloro che hanno l’opportunità di giocare seguendo le regole della globalizzazione ma negata a coloro che non hanno i mezzi per seguirle. Dunque, come sottolinea Salazar (2013),

la possibilità di muoversi liberamente da uno stato all’altro e di poter superare i confini è l’eccezione e non la regola”

L’immobilità è regola

Diventa chiaro, sotto la prospettiva appena analizzata, come l’immobilità, l’esclusione e la stringente selezione siano diventati i principi cardini sui quali è stato fondato il sistema di mobilità internazionale. Ovviamente, l’“essere immobili” dipende da diversi fattori che sono inerenti allo stile di vita di ogni persona. Tutti noi facciamo esperienza di temporanea immobilità, come già in precedenza sottolineato, ma ciò che strutturalmente distingue l’immobilità “comune” da quella di un migrante, particolarmente di un richiedente asilo, è il fatto che se per “noi” è una condizione eccezionale, per quest’ultimo diviene la norma. Questa condizione è favorita dal processo burocratico che l’individuo è costretto a subire: dall’obbligo di rimanere all’interno dello stato in cui “approda” a tutto ciò che ne consegue per la sua regolarizzazione o irregolarizzazione, procedimento che dura mesi, se non anni. L’apparato statale, dunque, impone l’immobilità deprivando il soggetto dalla possibilità di essere un agente attivo, abile ad avere controllo sulla propria vita e prendere decisioni che condizioneranno il proprio presente e futuro.

“Il ritmo del richiedente si fonde con il ritmo delle tempistiche burocratiche.”

Dunque, ciò che distingue il nostro stato eccezionale da quello del richiedente asilo è il ruolo che il soggetto occupa nell’essere immobile: tra chi decide di essere immobile, dunque per esempio, di attendere alla cassa del supermercato, di aspettare in coda alle poste, e coloro a cui l’immobilità è imposta.

Lo stato d’essere di un richiedente asilo è quello dell’attesa” (Rozakou 2021)

Come sottolinea Kobelinsky (2014), il richiedente asilo trova sé stesso, per definizione, in una situazione di immobilità, attendendo una risposta da parte delle autorità che gli permetterà di entrare nella società. L’immobilità esclude, quindi, il soggetto stesso dall’opportunità di essere parte della comunità, di poterne comprenderne l’essenza, le sue caratteristiche migliori e peggiori, di poter vivere. L’immobilità è imposta, forzata e nell’imposizione da parte delle autorità diviene la costante per coloro la cui vita ed il cui ritmo sono scanditi dal ticchettio delle decisioni delle pubbliche amministrazioni.

L’essere umano diviene essere immobile.”

Aspettate qui, fermi.

Lunghe attese, file infinite, rimandi, ricerche, spaesamento, solo i termini che descrivono la vita della persona migrante. Come sottolinea Schwartz (1975), “mantenere una persona costantemente in attesa, solitamente per un lungo periodo di tempo, si basa sul principio secondo il quale il tempo di quest’ultima, così come la sua vita e la sua importanza sociale, hanno meno valore del tempo di coloro che impongono l’attesa”. Il rapporto che la persona migrante ha con gli enti statali non è, dunque, parallelo ma è gerarchico: l’attesa, infatti, ottiene un significato sempre più profondamente politico: dividendo coloro che attendono e coloro che si fanno attendere, l’immobilità impone una relazione di dipendenza da coloro che controllano la vita di chi aspetta.

Il richiedente aspetta e l’istituzione viene attesa.

In questa relazione di dipendenza è quest’ultima a decidere la cadenza del tempo della vita del migrante il quale, oltre a non riuscire il più delle volte a comunicare, si ritrova spettatore del proprio ritmo vitale e di un mondo fatto di incertezze ed imprevedibilità. Privato dalla possibilità di immaginare un futuro diverso dal presente, lo scopo del richiedente, le sue aspettative, si riducono alla volontà di “smettere di aspettare”: la persona migrante è quindi destinata ad un’“immobilità pietrificata” che diventa condizione esistenziale (Khosravi, 2010), il presente scivola via, ed il suo significato è racchiuso e ridotto nell’arrivo o non arrivo dell’oggetto dell’attesa, il risultato di una decisione burocratica.

Socialmente immobili

L’immobilità non riguarda solamente l’impossibilità di poter decidere concretamente come utilizzare e sfruttare al meglio il proprio tempo, in quanto costretti all’attesa, ma non permette il richiedente asilo di entrare, e dunque di muoversi verso la comunità. L’individuo rimane bloccato in uno spazio sospeso che stride in una melodia fuori sincronia rispetto al tempo e alla vita “nazionale” e si ritrova circondato da un forte senso di disconnessione con gli altri che rende difficile, se non impossibile, la relazione o l’integrazione. Fuori luogo e fuori tempo, il richiedente si muove come una bussola impazzita nelle catene burocratiche della società ospitante la quale, incancrenita già in sé stessa non è in grado di gestire e comprendere correttamente le necessità di ogni singolo individuo.

In un limbo tra l’essere definitivamente condannati e totalmente graziati, il migrante è imprigionato “al di fuori” in una paralisi sociale (Agier, 2005), vivendo in una dimensione parallela in cui il tempo scorre asincrono rispetto a quello sociale. Il motivo di questa esclusione è solitamente legato a una colpa che, come si è visto in precedenza, nel caso dei richiedenti asilo risiede proprio nel loro stato d’essere. In un’epoca in cui la globalizzazione sta raggiungendo il proprio apice ed in cui la migrazione di massa, il rifugiato e lo sfollato ne sono gli attori principali, l’ergere dei confini e l’esclusione della “minoranza” stanno diventando ovviamente la risposta più conveniente per un sistema che prova costantemente e crescente ansia per l’estraneità (Said E.W., 2001) ma meno funzionale per ritrovare il tanto agognato equilibrio prima citato.


Bibliografia

  • Agier M., On the Margins of the World. The Regugee Experience Today, (2005) 2008, Politiy press, UK.
  • Bauman Z., Wasted Life. Modernity and its Outcast, 2004 (1998), Cambridge, Polity Press in association with Blackwell Publishing Ltd.
  • Jacobsen C.M., Karlsen MA., Khosravi S., Waiting and temporalities of irregular migration, 2021, Routledge: London and New York
  • Khosravi, S., Prelude I. The Weight of Waiting. In Waiting-A Project in Conversation, 2021, Bielefeld: Transcript Verlag. 13-26
  • Khosravi S., Illegal Travelers an Auto-ethnography of Borders, 2010 Series Editor: Christien van den Anker, Reader, Department of Politics, University of the West of England, UK.
  • Kobelinsky C., Le Temps dilaté, l’Espace Rétréci: Le Quotidien des Demandeurs d’Asile, 2014, Terrain, 63, 22-37 DOI: 10.4000/terrain!15479.
  • Rozakou K., The violence of accelerated time: waiting and hasting during “the long summer of migration” in Greece, in Jacobsen C.M., Karlsen MA., Khosravi S., Waiting and temporalities of irregular migration, 2021, Routledge: London and New York
  • Said E. W.,, Reflections on Exile, in Roberson, Susan (ed.) Defining Travel: Diverse Visions, (1984) 2001, Jackson: University Press of Mississippi, 178-189.
  • Schiller G., Nina, and Noel B. Salazar, Regimes of Mobility Across the Globe, 2013 Journal of Ethnic and Migration Studies 39 (2): 183-200
  • Schwartz, Queueing and Waiting: Studies in the Social Organization of Access and Delay, 1975, Chicago, IL, The University of Chicago Press.

Monica Gaiani

Ho una laurea in Filosofia e sono una laureanda magistrale in “Philosophy, Politics and Public Affairs”. Ricercatrice e volontaria presso il Naga Har, mi occupo prevalentemente di ciò che concerne l’analisi socio-filosofica e strutturale di alcuni fenomeni legati all’immigrazione, come le dinamiche di oppressione e de-umanizzazione.