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PH: Giovanna Dimitolo

Etica e ospitalità

Una breve lettura di Lévinas

di Alba Verrecchia 1

Un «Certo» come colpo e come punto di partenza. Voglio osservare altri confini: quelli simbolici. Il linguaggio, l’etica. Accompagnata da Lévinas, cerco di riflettere sul senso di casa e su ciò che essa implica per la possibilità d’una politica dell’accoglienza.


È successo quasi un anno fa sul canale televisivo francese BFMTV durante un programma dedicato alla crisi migratoria tra Polonia e Bielorussia. Alle porte dell’Unione Europea, migliaia di migranti si ritrovano intrappolati sul confine nel freddo gelido dell’inverno, riaccendendo contemporaneamente i dibattiti sulla questione migratoria nell’Unione Europea. Quella sera di novembre, il giornalista interpellava l’ospite Julien Odoul, un portavoce del partito della Le Pen allora impegnato a difendere con le unghie e con i denti la chiusura dell’UE alle persone migranti. Alla domanda cinica «Quindi, li lasciamo morire di freddo?» il deputato rispondeva spontaneamente, con voce sicura, «Certo».

Saremmo ingenui sia nel negare che nell’edulcorare l’avversione di alcuni partiti e di alcuni discorsi politici nei confronti dei migranti. Eppure la solida affermazione, in prima serata, d’un portavoce – che assume pertanto una notevole responsabilità mediatica – che ci converrebbe, per interessi inerenti all’Unione Europea, lasciare migliaia di esseri umani perire sulla soglia di casa nostra ci appare come l’evoluzione terrificante d’una retorica già spregiativa in un’impudenza spregevole.

Da quell’intervento la situazione migratoria, tra invasione russa in Ucraina e catastrofi climatiche, non è del tutto migliorata. Anzi, aumenta ulteriormente l’urgenza di pensare una politica dell’ospitalità che esplori i significati e estenda le frontiere della parola ‘casa’.

Tali riflessioni etiche sull’accoglienza sono già state aperte e percorse dalla filosofia. C’è inoltre nel termine ‘casa’ una polisemia che rende il concetto complesso da afferrare. Interpretiamo come casa il tetto e le mura che ci ospitano, ci proteggono e ci hanno visto crescere. Vediamo anche casa come un sentimento impalpabile di appartenenza che ci conferisce sicurezza e affetto. La casa, infatti, sembra anche emotiva, e prima di erigersi con pietre e piastrelle si regge sui ricordi, sulla fiducia.

L’incontro con l’Altro necessiterebbe quindi un meccanismo di fraternalizzazione fatto d’incontri ripetuti che creino accordo, amicizia. Nel frattempo però, questo spazio di condivisione – quello del conoscersi – pur essendo quasi imposto all’Altro perché l’accoglienza e l’ospitalità gli vengano legittimate, gli viene anche antiteticamente negato, rifiutato. Così la violenza dei transit camps svela la sua essenza ossimorica: l’Altro sul confine è al confine tra l’essere fermo e l’essere in fuga, tra l’essere fisso e l’essere nomade, è contemporaneamente partito e arrivato, ma non partito veramente e non arrivato nemmeno. E mentre l’Altro è lì sospeso, intrappolato tra la sua urgenza e il nostro privilegio di aver tempo da perdere in dibattiti e domande, forse va pensata l’etica in un’altra sua possibile realtà. Forse l’etica non è un processo fluido di fratellanza e d’un tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili. Per pensare l’accoglienza, è forse necessario pensarla incondizionatamente senza aspettarsi che essa possa essere facile, senza poi gerarchizzare tra chi è semplice da accogliere e chi può morire di freddo, ma dando per scontato che l’incontro con l’Altro sia invece come l’aveva voluto teorizzare Lévinas: penoso, faticoso, doloroso e allo stesso tempo vulnerabile e responsabilizzante.

Ereditando un’influenza levinassiana, gli scritti di Derrida riprendono e stravolgono il senso di casa. Non c’è nulla di naturale nella casa, non ci sono fondamenti stabili, neanche radici. La casa di Derrida è un assioma, e la sua durata è condizionata a quella dell’accoglienza 2. C’è in Lévinas, che chiamava demeure ou chez-soi la relazione pacifica con l’Altro, l’idea che un territorio non possa essere sacralizzato, nemmeno posseduto. Casa è la risposta temporanea al vagabondaggio: non ha niente di assoluto, è solo ospitalità. E dunque, ‘è’ solo per un tempo.

L’incontro d’autrui – l’incontro dell’Altro – è il gesto filosofico per eccellenza. Con Lévinas, il punto di partenza del senso dell’essere non è più la soggettività, bensì l’Altro. L’Altro e il suo volto, il Volto dell’Altro che s’impone subito come il luogo di un’ingiunzione: appare nella sua vulnerabilità come un interdetto. Vi è in effetti una certa violenza della realtà etica di Lévinas: l’Altro è l’essere che si può davvero voler uccidere, e quindi il divieto più assoluto. È su questo imperativo che si fonda la sua etica: «è la prova di uno sconvolgimento radicale che viene con l’Altro e annulla i punti di riferimento, i significati istituiti 3», e interferisce con il mio sforzo di essere. Tra me e l’Altro, non c’è reciprocità, io soggetto sono responsabile di tutto nell’asimmetria d’un rapporto di sacrificio. L’Altro infatti è l’infinito aldilà della totalità, aldilà del controllo, non si può né afferrare né possedere. Nella nudità del volto e nella sua vulnerabilità, vi è una richiesta d’aiuto che non posso ignorare, per quanto penosa, per quanto difficile. Sono responsabile del male fatto all’Altro, sono responsabile dell’Altro 4. Nel faccia a faccia con l’Altro, vi è dunque un’esigenza di generosità. Nel faccia a faccia con più Altri, compare un’esigenza di giustizia: non posso gerarchizzare tra chi è semplice da accogliere e chi può morire di freddo.

Un particolare levinassiano sta infatti nel fatto che la singolarità dell’Altro giunge l’universale umano: ogni persona è tutta l’umanità. Allora io sono responsabile per tutta l’umanità: la stessa esperienza di responsabilità la fa il Dmitrij di Dostoevskij con la consapevolezza che «ciascuno di noi è senza dubbio colpevole per tutti e per tutto ciò che accade sulla terra, non solo per la comune colpa del genere umano, ma ciascuno personalmente è colpevole per tutta l’umanità e per ogni altro singolo uomo sulla terra 5.» Io sono ostaggio della vulnerabilità dell’Altro, della totale responsabilità che ho nei suoi confronti – perciò nella violenza, agisco dimenticandomi della questione dell’Altro.

Secondo Frédéric Worms 6, che accenna Foucault a riguardo, la devozione agli altri di Lévinas deve pertanto completarsi d’una critica ai poteri. Non vi è negazione, in Lévinas, della politica o delle istituzioni. Vi è però, dietro l’esigenza di giustizia, un rigetto della filosofia del neutro del rinchiudersi in sé stessi, dello stare al proprio posto; un rigetto di quel Certo e della negazione della responsabilità che mi lega all’Altro. Ci sono argomenti sociali e politici che hanno a che fare con la violenza. Precisamente perché tale violenza non è il fatto d’un singolo chiusosi su sé stesso, la riflessione su una possibile politica dell’accoglienza necessita di considerare criticamente il sistema che inquadra la possibilità d’un dominio sull’Altro e il diniego del fatto che i diritti umani sono in realtà e innanzitutto quelli degli Altri.


  1. Laureanda dell’Università degli Studi di Milano in filosofia e scienze politiche (Laurea magistrale Politics, Philosophy and Public Affairs)
  2. Derrida, J. Addio a Emmanuel Lévinas, 1998
  3. Worms F. Philosophie magazine, hors série n°40
  4. Lévinas, E. Totalità e Infinito, 1961
  5. Dostoevskij, F. I fratelli Karamazov, 1901
  6. Worms, F. Philosophie magazine, hors série n°40