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Franca contro il sistema. Secondo giorno

Pantelleria. 36°49’ N - 11°56’ E

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27.09.2022

“Accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde” (Alessandro Baricco)

L’evento che segna l’ingresso di Pantelleria nello scenario migratorio mediterraneo è un naufragio. All’alba del 13 aprile 2011, un peschereccio proveniente dalla Libia finito fuori rotta, si incaglia sugli scogli, poco lontano dall’imboccatura del porto. L’imbarcazione era stata soccorsa da un’unità della Guardia Costiera che la stava accompagnando in porto, quando, probabilmente per una manovra sbagliata, si è arenata su un fondale basso. A bordo c’erano poco meno di duecento persone e, nel panico che ne è scaturito, molti degli uomini e delle donne a bordo si sono lanciati in mare. Tre di loro, due donne e un uomo, non ce la fanno.

Quel giorno tutta la popolazione di Pantelleria si mobilita. La Capitaneria e le forze dell’ordine intervengono con i loro mezzi, i diving cercano di aiutare a stabilizzare la barca, ma anche singoli cittadini partecipano ai soccorsi e si prodigano nell’offrire un’assistenza immediata.

Questo evento si incide nella memoria collettiva di una piccola comunità arroccata su uno scoglio più vicino alle coste tunisine che a quelle italiane. Tutti si ricordano dov’erano e cosa facevano quel giorno e non è raro, nelle sedi delle istituzioni o nei locali aperti al pubblico, imbattersi in foto che ricordano quel momento. Poi, su Pantelleria, cala il silenzio. Nonostante gli arrivi, negli anni, continuino, non si registrano più casi di sbarchi così numerosi. Negli ultimi due anni, tuttavia, i numeri crescono e da poche centinaia si passa alle migliaia (2555 nel 2021; 1858 nel 2020).

L’istituzione di un insediamento Frontex è del 2020 e quest’anno, il 4 agosto, è stato aperto un Punto-crisi.

Franca è anziana, ma è ancora appassionata. Da sempre “anima” del volontariato pantesco, ci dice che non sa collocare con esattezza i suoi ricordi su una linea temporale, ma per lei è molto chiaro che c’è un “prima” e c’è un “dopo”.

Prima” l’accoglienza era “artigianale”: ognuno faceva quello che poteva. E si stabiliva un contatto umano con le persone che arrivavano sull’isola. Chi sbarcava era preso in consegna dai Carabinieri, che tenevano i migranti nelle celle della caserma. Però era possibile entrare, portare dei vestiti o una parola di conforto. “Prima si lavorava in modo casereccio e si arrivava al “povero”, alla persona che aveva bisogno, ora è tutta burocrazia. Io sono sempre stata quella dei vestiti, se c’era qualcuno che aveva bisogno chiedevano a me e glieli facevo avere e se non ne avevo chiedevo a chi poteva darne – e gli facevo aprire le porte delle celle. Che potessero avere almeno un po’ d’aria”.

Nel “dopo” che, in realtà è adesso, un diaframma istituzionale – fatto da procedure burocratiche, divise (Carabinieri, Guardia di Finanza, Frontex), cancelli chiusi ermeticamente e moduli abitativi – si è inserito tra i migranti e le persone che “facevano l’accoglienza”.

Così, al nuovo “Punto crisi”, Franca non può accedere. Perché è solo Franca; ovvero non è registrata come volontaria di una delle organizzazioni che hanno un ruolo formale nella gestione del centro. E’ una donna delusa e mortificata – “Non si possono fare certi lavori se non si è motivati (…) io vedo come lavorano quelli: gli gettano i vestiti lì per terra, senza neanche guardarli in faccia” – che nonostante una mitezza disarmante non nasconde una critica radicale all’organizzazione del sistema di accoglienza.

Franca decide di accompagnarci al Punto crisi. L’appuntamento è in un luogo generico: “Pochi passi dopo l’Enel”.

Dopo circa un chilometro dal porto, in direzione sud-ovest, in una terra di nessuno segnata dal degrado – una passeggiata che non si capisce se sia in costruzione o sia in abbandono, un cimitero, un campo da pallone circondato da un muro diroccato, e un impianto industriale che avvolge tutta l’area in una sorta di rumore bianco – notiamo una garitta arrugginita che si affaccia dall’angolo di un edificio in rovina e, poco distante, la sagoma bianco-azzurra di una barca che spunta sopra il muro di cinta.

Ci affacciamo in un cortile in abbandono, senza insegna se non quelle di un vecchio cantiere edile. Alla nostra destra cintato da una rete metallica coperta da un telo verde si rivela il cimitero delle barche di Pantelleria. Accatastate le une sulle altre, qualche decina di imbarcazioni di varie dimensioni e anche delle canoe gonfiabili modello “Decathlon” sono ammassate in un piazzale chiuso. Più avanti si nota un salvagente abbandonato per terra, un’ambulanza, dei sacchi gialli semitrasparenti pieni di salvagenti. Poi dietro l’angolo, un cancello nuovissimo, in metallo, un’autovettura bianca senza insegne e un container ancora lucido, brandizzato con il logo di Frontex e la scritta “Debriefers” sulla porta.

Lontano dagli sguardi, al di là di una sorta di terrain vague periurbano, ai nostri sguardi si presenta uno spazio diverso, controllato militarmente. Dietro il cancello sotto un tendone bianco pile di materassi ammassati per terra, uno sull’altro, sembrano giacere in attesa di trovare un utilizzatore. Alla nostra sinistra da un capannone alcune teste si sporgono oltre il muro. Ci guardano.

Il nostro curiosare è interrotto dall’arrivo di un uomo in motociclo che si fa aprire e richiama l’attenzione del personale della Guardia di Finanza su di noi. Mentre Franca ci raggiunge, due militari escono e ci impongono di lasciare l’area. Torniamo sui passi, riflettendo sul fatto che alla fine veramente “lontano dagli occhi” è “lontano dal cuore”.

Il cancello chiuso e il volto dolce di Franca sono le ultime immagini che ci lascia Pantelleria.

Domani dobbiamo affrontare 85 miglia di navigazione e tra noi serpeggia un leggero nervosismo. Qualcuno sdrammatizza, lasciando trasparire una certa agitazione. Alcuni vorrebbero fermarsi ancora qualche giorno per cercare di comprendere meglio quest’isola ma la data della partenza è imposta dal meteo. Altri, infine, sono contenti di partire e sono fiduciosi negli skipper. Ma nessuno di noi sa bene cosa aspettarsi.

L'equipaggio della Tanimar

Siamo un gruppo di ricercatrici e ricercatori delle università di Genova e Parma. Per due settimane, dal 26 settembre all’11 ottobre, attraverseremo il Mediterraneo centrale facendo tappa nei principali snodi della mobilità migrante e del controllo confinario europeo: Pantelleria, Lampedusa, Linosa, Malta.