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L’insediamento presso l’Ex Cementificio a Campobello di Mazara

Oltre il caporalato. L’esempio dell’insediamento informale di Campobello di Mazara

Il supporto socio-legale del circolo ARCI Porco Rosso di Palermo

di Giulia Gianguzza, Maggie Neil e Alice Argento, attiviste dello sportello Sans-Papiers

La descrizione delle attività, l’approccio, il lavoro in rete e alcune riflessioni sulla natura degli insediamenti informali. Questo documento è stato pubblicato sul sito dell’associazione a inizi luglio del 2022, dopo più di un anno di impegno costante nel territorio di Campobello di Mazara. Qui è ancora attivo lo sportello mobile che garantisce supporto socio legale a braccianti stagionali e ad altre persone che si trovano nell’insediamento informale per svariate ragioni.
Le autrici sono un’operatrice sociale, un’antropologa e una legale dello Sportello Sans-Papiers.


Una delle attività che svolgiamo da tempo fuori dal nostro sportello Sans-Papiers e fuori dalla città di Palermo, è il supporto socio-legale negli insediamenti informali in tempo di raccolta e non solo. Negli anni passati siamo stati in alcune campagne della Sicilia Occidentale, tra cui Campobello di Mazara, Caltabellotta, Digerbato (Marsala) e Alcamo, anche se è a Campobello che abbiamo deciso di andare con regolarità.

Il nostro supporto si concretizza affiancando le persone nel percorso di consapevolezza dei loro diritti, fornendo un’informativa legale adeguata ai bisogni e, dove necessario, contatti con degli avvocati – o favorendo la ripresa dei contatti interrotti; inoltre, cerchiamo una soluzione abitativa insieme a chi manifesta tale necessità e facilitiamo l’accesso – spesso problematico – ai servizi territoriali attivi quali ospedali, ambulatori, SERT, uffici comunali, caf e patronati. Dal momento che molti insediamenti sono vissuti per lo più da braccianti stagionali che seguono le varie raccolte, cerchiamo di sostenere le persone incontrate anche quando si spostano al di fuori della Sicilia, grazie soprattutto al lavoro di rete con altre associazioni sul territorio nazionale. 

L’insediamento informale di Campobello di Mazara

E’ dai primi mesi del 2021 che abbiamo deciso di concentrare le nostre forze a Campobello di Mazara, nel supporto agli abitanti e alle abitanti dell’Ex Cementificio, una struttura abbandonata che un tempo era la “Calcestruzzi Selinunte”. La Calcestruzzi era un’azienda in contrada Bresciana Soprana, appena fuori dal Comune Campobello, poi finita al centro di un procedimento per mafia, la cui struttura negli anni è diventata un vero e proprio ghetto, con baracche costruite con mezzi di fortuna, senza accesso ad acqua corrente ed elettricità. Anche a causa di ciò, all’interno dell’Ex Cementificio, come in tanti insediamenti informali, si utilizzano bombole a gas e generatori a benzina per cucinare, illuminare, riscaldare acqua, ricaricare i cellulari – tutti servizi forniti da chi all’interno del ghetto lavora per mandare avanti la vita quotidiana della comunità e ne fa a suo modo un business, non di grande guadagno, ma di sussistenza. Da uno dei generatori qualche mese fa, nel cuore della notte tra il 29 e il 30 settembre 2021, è divampato un incendio che ha distrutto totalmente la baraccopoli e in cui è rimasto ucciso un bracciante di origini guineane, Omar Baldeh. Non è d’altronde la prima morte annunciata: il 22 ottobre del 2013 nel primo insediamento della zona, Erbe Bianche, baraccopoli situata suppergiù di fronte all’ex oleificio “Fontane d’oro” e più volte sgomberata, un incendio era divampato da un fornelletto da campo ed era rimasto ucciso Ousmane Ndjanne, bracciante di origini senegalesi.

Tetti del ghetto, autunno 2021

L’insediamento presso l’Ex Cementificio è sorto nel 2018, in seguito allo sgombero definitivo dello storico insediamento di Erbe Bianche, nell’omonima contrada vicina. Erbe Bianche a sua volta era sorta nel 2013, alle porte delle case popolari del Comune di Campobello di Mazara e lo sgombero definitivo del marzo 2018 doveva avere l’intento, apparentemente e secondo le istituzioni, di spingere i braccianti stagionali muniti di documenti a stabilirsi nella tendopoli istituzionale durante la stagione successiva, tendopoli usualmente allestita presso l’ex oleificio “Fontane d’oro” e gestita dalla Croce Rossa. La tendopoli antistante Fontane d’oro non è stata istituita nel 2020 per ragioni legate alla pandemia. Per quanto riguarda il 2021, sono stati messi su con grande lentezza 25 “moduli abitativi” donati da UNHCR solo a seguito dell’incendio, anche se la stagione di raccolta, a differenza degli anni precedenti, è stata segnata dall’esperienza di autogestione di Fontane d’oro e dalle manifestazioni a seguito della morte di Omar Badeh, come racconta Martina Lo Cascio nell’articolo La resistenza invisibile dei braccianti.

Negli anni passati, durante i mesi di settembre e ottobre, ovvero per la raccolta delle olive, all’Ex Cementificio arrivavano ad esserci anche 800 -1.000 persone, mentre un nucleo più o meno stabile di persone, circa una settantina di persone, rimaneva anche negli altri mesi dell’anno. Quest’anno, dopo l’incendio del 30 settembre, dunque in piena raccolta, sono rimaste all’incirca solo 200 persone e chi è rimasto ha ricominciato a ricostruire esattamente il giorno dopo l’incendio, mentre in molti si sono spostati in casolari e magazzini vicini o hanno lasciato il comune. È stata disposta per l’emergenza una soluzione abitativa da parte del Comune di Castelvetrano, ovvero una palestra fatiscente, lontano dai campi di lavoro, che a quanto sappiamo non aveva neanche l’agibilità. La notte in cui viene aperta ci comunicano che nessuno è andato, i custodi non sapevano se rimanere o meno. La soluzione abitativa predisposta dalle istituzioni è una soluzione ipocrita, non sicura e distaccata dalla realtà. E’ da anni che, ogni autunno, si parla della cosiddetta “emergenza dei braccianti stagionali”, un’emergenza strutturale a cadenza fissa, che porta un grosso introito in un’area che vive principalmente della raccolta delle olive della tipologia “Nocellara del Belice”, unica cultivar in Europa ad avere due DOP per la stessa varietà. E se da un lato le soluzioni abitative proposte sono ipocrite, d’altro canto non erano in pochi gli abitanti del ghetto che a ottobre rispondevano a chi chiedeva le motivazioni del loro restare lì, tra le macerie: “questa è casa nostra e qui ricostruiamo”. Tra i sedentari, tra l’altro, ci sono dei veri e propri costruttori che si occupano del reperimento dei materiali, della realizzazione delle baracche e dell’affitto di queste.

La mattina dell‘8 marzo 2022 si ripete l’incubo: veniamo svegliati da una telefonata che, esattamente come il 30 settembre, avverte che il ghetto brucia ancora. Parte il solito giro di telefonate per rintracciare le poche persone dell’Ex Cementificio che ancora possiedono un cellulare. Stanno tutti bene, a parte alcune contusioni, non è morto nessuno, non questa volta. Al nostro arrivo, troviamo più rassegnazione rispetto al primo incendio di settembre. Chi aveva da poco perso la casa, perso i documenti, ricostruito con determinazione senza aspettarsi risposta dalle istituzioni, ha perso nuovamente tutto, nel giro di sei mesi. Le denunce di smarrimento dei documenti bruciati, bruciate nuovamente anche quelle. Sono in molti a decidere di rimanere, solo alcuni decidono di andare via. 

Il nostro approccio e le azioni intraprese

In questo articolo cercheremo di raccontare e spiegare perché è proprio l’Ex Cementificio il luogo in cui andiamo con costanza e regolarità una volta a settimana, facendo sportello mobile in una piccola formazione di equipe composta da un’operatrice sociale, una legale, un’antropologa e dei mediatori a chiamata; a volte con noi vengono anche dei ragazzi che mesi fa abbiamo supportato nella fuoriuscita dal ghetto, per incontrare e mostrare vicinanza agli amici rimasti. Andare una volta a settimana, con regolarità e costanza, per oltre un anno, ci ha permesso di far un lavoro con le persone stanziali, ovvero chi non lascia il ghetto a fine raccolta, un gruppo di un centinaio di persone di origine soprattutto gambiana e senegalese, ma non solo. Inoltre, a differenza degli altri anni, quello che abbiamo osservato sin dall’estate scorsa è un forte aggravarsi di una condizione socio-sanitaria già chiaramente precaria di per sé, come non è difficile immaginare. Ad aggravarsi sono state in primis le dipendenze in generale, ma in alcuni casi le tossicodipendenze da droghe pesanti, fatto che non riguarda solamente una parte minoritaria delle persone che abitano il ghetto ma anche chi lo frequenta, spesso giovanissimi e giovanissime della zona di Mazara del Vallo, Castelvetrano e dei paesi vicini. 

Il ghetto dopo l’incendio di 30 settembre 2021

Non è facile parlare dell’insediamento informale di Campobello di Mazara e del nostro agire all’interno di questo contesto senza correre il rischio di dare un’immagine fuorviante, di evocare indirettamente soluzioni repressive o di aumentare lo stereotipo già di per sé molto radicato nei confronti di questo tipo di insediamenti e di chi li vive. È tuttavia necessario darne un nostro racconto: è nostra convinzione che bisogna tentare di focalizzare nel complesso questa realtà stratificata, per poter comprendere davvero il contesto a livello micro e a livello macro. Il ghetto di Campobello è infatti un luogo di abbandono con delle dinamiche difficili da comprendere a pieno, e non è l’unico in Italia: gli insediamenti informali disseminati nelle campagne del Sud – e non solo – sono la geografia di un sistema che imbriglia e rende più invisibili persone già precarizzate da un punto di vista lavorativo e, in primis, giuridico.

Come sottolinea il medico e antropologo Paul Farmer (2004), l’approccio antropologico, in particolare nel sottocampo medico, a volte banalizzato, è in realtà cruciale nella comprensione del prodursi dell’ineguaglianza sociale e di quella che definisce “violenza strutturale”, riferendosi con questa espressione a quelle indirette forme di violenza che deriverebbero la loro natura processuale dall’essere esercitate dalle forme dell’organizzazione sociale informate da profonde disuguaglianze. Il concetto di violenza strutturale è fondamentale nel nostro approccio: il ghetto prima di ogni altra cosa è, infatti, una sorta di buco nero che ingoia le persone soggette ai processi di criminalizzazione e precarizzazione operati in primis dal legislatore, rendendole ancora più invisibili.

Inoltre, siamo convinti che la cura necessaria per svolgere delle attività di supporto passi non solo dall’ascolto e dall’empatia ma anche dalla capacità di comprensione dei contesti, della connessione tra locale e globale e delle dinamiche di potere. Dunque, oltre a cercare di comprenderne la complessità, i luoghi di abbandono di cui parlavamo hanno bisogno di essere vissuti, con delicatezza e forza insieme, per cercare di capire per quali motivi si finisce lì, cosa comporta vivere lì e perché è così difficile uscirne, per immaginare nuovi percorsi e soluzioni abitative, per rispettare chi vuole continuare a vivere lì, per non lasciare indietro nessuno.

Per quanto riguarda i maggiori bisogni delle persone incontrate e supportate in questo ultimo anno al ghetto di Campobello, sono tanti e diversi. I nostri tentativi di dare una risposta a tali bisogni, mettendo in connessione con i servizi territoriali presenti, dicono tanto non solo sulle condizioni di vita all’interno del ghetto, ma anche sulle maggiori criticità di un territorio spesso impreparato e non sempre accogliente nei confronti delle persone migranti e in particolare delle donne. Di seguito le principali attività da noi svolte negli insediamenti, connesse ai maggiori bisogni riscontrati:

  • Sfera legale: informativa legale, soprattutto in merito ai rinnovi permessi di soggiorno; richieste appuntamenti in Commissariato o Questura per rinnovi/duplicati pds; ripresa dei contatti e mediazione con i legali nominati, ricerca documentazione perduta, anche tramite contatti con i vecchi centri di accoglienza; supporto nella compilazione di kit per il rinnovo del permesso di soggiorno e accompagnamento/mediazione alle Poste; informativa sulla dichiarazione di ospitalità, necessaria in molti casi per rinnovare il permesso di soggiorno, nonché sulla richiesta di residenze virtuali al Comune di Campobello di Mazara e relativi accompagnamenti con mediazione.
  • Sfera sanitaria: informativa sul diritto alle cure e orientamento ai servizi sanitari territoriali, in particolare in merito a rilascio codice STP e iscrizione al SSN; richiesta di certificati di buona salute per l’ingresso nei centri di accoglienza, richieste di visite specialistiche per chi non ha il medico di base, richieste di esenzione; accompagnamenti al Pronto Soccorso di Castelvetrano per incidenti/infortuni – non sempre difatti l’ambulanza viene alla prima chiamata e non ci sono mezzi pubblici di collegamento. Per i servizi elencati, tutti forniti dall’Ospedale di Castelvetrano (PPI, Pronto soccorso e direzione amministrativa) c’è stato bisogno di accompagnamento e mediazione. Informativa sui vaccini e sui documenti necessari; accompagnamenti al vicino hub vaccinale di Campobello (Mocar) per somministrazione del vaccino anti-covid (prima e seconda dose); informativa sui tamponi e accompagnamenti in farmacia ove necessario; supporto per rilascio di greenpass e informativa in merito a greenpass e spostamenti; informativa sui SERT e orientamento al SERT di Castelvetrano.
  • Sfera abitativa: necessità di soluzioni abitative e profilassi di percorsi di fuoriuscita dal ghetto, orientamento ai servizi e informativa sull’accoglienza: richieste di ingresso in dormitorio a Palermo, richieste di ingresso in centri SAI nella provincia di Trapani o nel Comune di Palermo e relativi accompagnamenti, richieste di inserimento in comunità di recupero.

Riguardo all’ultimo punto, è bene specificare che i percorsi di fuoriuscita dal ghetto avvengono se e quando le persone comunicano che vogliono andarsene e quando si trovano dei percorsi adeguati alla loro situazione particolare. Senza romanticizzare il contesto, è ovvio che il ghetto è anche un luogo di vita, di amicizie e legami o di un certo conforto, e la fuoriuscita non è né semplice né priva di emozioni forti e contraddittorie, anche per chi non vuole – o non può – abitarlo più. Per alcune persone, inoltre, vivere nel ghetto è una sorta rivendicazione: si resta perché non si hanno alternative migliori, perchè si ha libertà e una comunità di appartenenza; in un posto dove non ci sono ferree regole di orario che impongono, ad esempio, di uscire alle 8.00 e tornare alle 22.00 come avviene nei dormitori, senza quella sensazione di dover ringraziare qualcuno per l’ospitalità, lontano dagli occhi di operatori del sistema d’accoglienza, forse ben intenzionati o forse no, forse ben formati o forse no, forse anche paternalistici. Lungi dal fare di tutta l’erba un fascio, è anche questo un tema. 

Coordinamento e lavoro di rete

Dallo scorso settembre, abbiamo cercato di lavorare maggiormente in rete con le altre realtà che operano in diversa maniera nell’insediamento informale di Campobello. Il coordinamento è composto da associazioni e gruppi eterogenei tra di loro, tra i quali la lista campobellese: Cento Passi, Intersos, Progetto Maddalena, Contadinazioni/Fuori Mercato e Reagire. Ogni realtà è molto diversa per approccio, obiettivi e politica, ma è proprio l’eterogeneità del gruppo il suo punto forte.

Assemblea con i residenti e Yvan Sagnet, 2021

L’obiettivo del lavoro di rete è soprattutto quello di coordinarsi sull’advocacy e sulle richieste da avanzare alle istituzioni a livello comunale e regionale, per cercare soprattutto di non sostituirci ad un settore pubblico che, sebbene in questi anni si sia dimostrato assente, è il primo attore da chiamare in causa e anche da supportare, a suo modo, al fine di creare e rinforzare quei servizi territoriali mancanti o insufficienti, anche per la popolazione locale.  

Al momento, stiamo lavorando alla creazione di un gruppo o di una “Commissione studio per gli stagionali”, una sorta di tavolo tecnico che permetterebbe ai membri del coordinamento di avere un meccanismo di interlocuzione formalizzata e diretta con le varie istituzioni locali. Anche se è difficile che le nostre osservazioni e richieste vengano ascoltate, un tavolo tecnico ci permetterebbe di avere un dialogo più costante e diretto con le istituzioni, e di amplificare le richieste ed i bisogni, differenti e variegati, degli abitanti e delle abitanti del ghetto – evitando in ogni modo tuttavia di sostituirci ai corpi e alle voci di questi ultimi, cercando anzi di coinvolgere direttamente chi voglia all’interno del coordinamento, lavoro non facile per tante ragioni. 

Riflessioni e prospettive

Lo scorso ottobre, l’intera equipe del nostro Sportello Sans-Papiers si è recata a Lecce per partecipare al Sabir, il Festival diffuso delle culture mediterranee organizzato ogni anno dall’ARCI Nazionale. Tra le diverse conferenze,  abbiamo trovato rincuorante un incontro tenuto da Erminia Rizzi e Amarilda Lici dal titolo “La condizione delle donne migranti in agricoltura e nel lavoro domestico: quali strumenti per un’effettiva fuoriuscita dallo sfruttamento e dalla violenza?”. Durante l’incontro, Erminia Rizzi, socia A.S.G.I. e operatrice legale in diritto dell’immigrazione ed asilo che da anni opera negli insediamenti in Puglia, in particolare nella provincia di Foggia, ha evidenziato i punti principali per cui, a livello sistemico e politico, non sembrano esserci né gli strumenti né le volontà per combattere davvero il fenomeno del caporalato e lo sfruttamento lavorativo in agricoltura.

La relatrice, innanzitutto, prende in esame il riconoscimento della protezione in base all’art. 18 del T.U. Imm., una forma di tutela dello straniero vittima di violenze o grave sfruttamento, al quale viene rilasciato un permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale, che in teoria abilita alla partecipazione a un progetto di assistenza e di integrazione sociale. Evidenzia come la norma non preveda la cooperazione giudiziaria obbligatoria, ovvero la denuncia dello sfruttatore al fine del rilascio del permesso di soggiorno, a fronte della discrezionalità di molte questure che richiedono la denuncia come “prova” dello sfruttamento, segno evidente della discrasia tra la norma e l’effettiva attuazione. Riflette, inoltre, sulla dicitura del permesso rilasciato per “casi speciali” e al generale impianto della protezione che rimanda alla condizione, ancora una volta, di “vittima degna”, condizione necessaria – non solo in questo caso – ai fini della regolarizzazione, soprattutto per quanto riguarda le donne migranti. Questi due elementi di per sé, afferma, costituiscono un’ulteriore forma di violenza nei confronti della persona sfruttata.

Una casa in costruzione

Concordiamo appieno sulla riflessione di Erminia Rizzi sulla natura degli insediamenti informali, che in realtà restituiscono i limiti del sistema e che sono stabili, nella misura in cui non sono legati al sistema di domanda e offerta del lavoro ma ad una disfunzione sistemica e che, allo stesso tempo, raccontano di un controllo dei corpi su cui il sistema non riesce più a intervenire. Questa disfunzione sistemica, a sua volta, contribuisce a frammentare il lavoro già precarizzato dei braccianti e fa sì che in molti non sappiano neanche per quali aziende si lavora di giorno in giorno. Inoltre, riteniamo necessaria l’analisi sulla natura delle tipologie di sfruttamento all’interno dei ghetti che comporta, ad esempio, che le donne abbiano spesso un doppio legame con l’abusante, l’intermediario o lo sfruttatore – figura che può incarnare anche l’amico o l’amante. 

Le riflessioni su queste realtà portano ad affermare che parlare esclusivamente di caporalato è errato e che lo sfruttamento è del sistema.

Si giunge alla fatidica domanda: che fare allora? L’unica risposta di senso secondo la relatrice è una risposta articolata su più livelli, che tenga insieme la complessità del contesto, osservato nei suoi vasti ambiti, che preveda un lavoro a lungo termine sulla formazione e sulla sensibilizzazione in primis delle istituzioni – come le Commissioni Territoriali – sul cambiamento delle politiche sul lavoro, sull’incentivazione delle politiche di genere e su una maggiore attivazione delle reti agricole di qualità.

Considerando la complessità del contesto di Campobello, ci sembra chiaro che non ci sia una sola ‘soluzione’, quanto più tante misure stratificate da mettere in campo. L’esistenza del ghetto all’ex-Calcestruzzi è inaccettabile in quanto diretta conseguenza di violenze sistematiche e politiche istituzionali. Rispettiamo tuttavia anche le molteplicità di idee e desideri, percorsi di vita, metodi di guadagno e sopravvivenza, sfide burocratiche e legali di chi ci vive. Dunque, ovviamente, ripudiamo anche certe retoriche istituzionali che mirano punitivamente ad uno sgombero poliziesco, che finirebbe solo per ricreare un altro ghetto. Considerando ciò, chiediamo che nel prossimo futuro i fondi destinati alla lotta al caporalato e allo sfruttamento lavorativo, esistenti e sempre in aumento, abbraccino davvero la complessità che qui si è cercato di rendere, che le politiche sociali si sentano responsabili dell’istituzione di soluzioni abitative per gli stagionali e della presa in carico dei senza fissa dimora e che si concentrino sull’ascolto dei bisogni individualizzata. Non è chiedere la luna con ingenuità, è la base. 

A tal proposito, proponiamo che le istituzioni progettino e utilizzino i fondi per mettere in campo determinate azioni, quali ad esempio: 

  • Formare e aggiornare il personale degli uffici e delle amministrazioni pubbliche, quali il Commissariato e il Centro per l’impiego di Castelvetrano, che spesso rendono difficoltoso il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno, richiedendo la produzione di documentazione in maniera del tutto discrezionale e arbitraria ai fini dell’acquisizione delle istanze. L’assenza di trasparenza nei procedimenti amministrativi, incrementa il rischio di “’irregolarità” dello status giuridico di molte persone che, dunque, non potranno lavorare con regolare contratto di lavoro, saranno più sfruttabili, né tantomeno potranno affittare una casa con regolare contratto di affitto.
  • Istituire dormitori, cohousing e in generale delle soluzioni abitative alternative al livello comunale e provinciale. Finora, le istituzioni comunali hanno puntato soprattutto su ‘soluzioni’ di emergenza, spesso tardive e temporanee – per citarne una i moduli abitativi dell’UNHCR arrivati a metà stagione e smontati appena la stagione era finita. Mentre nulla è in progetto per la raccolta del 2022, sembra che ci sia in progetto per il 2023 la costruzione di non specificate casette di fronte all’ex-oleificio di Fontane d’Oro, per qualche centinaia di lavoratori durante la stagione. Potrebbe anche andare bene per alcuni, soprattutto se si pensa di togliere come requisito di accesso il possesso del permesso di soggiorno e del contratto di lavoro in corso di validità e se verrà rilasciata una dichiarazione di ospitalità per permettere il rinnovo dei documenti. In ogni caso, non basterà come ‘soluzione’ perché tante persone rimarranno fuori per un motivo o un altro. E’ stato inoltre intelligentemente proposto da alcune realtà di fare una mappatura delle case sfitte da anni a Campobello, in visione di una possibile co-gestione comunale volta all’affitto ai lavoratori o anche a chi vive nella zona tutto l’anno e ha difficoltà a trovare casa.
  • Attivazione e apertura al territorio dei servizi sociali, per la ricerca di soluzioni abitative alternative. Coordinamento con il SERT locale e aumento del numero di posti in comunità di recupero, togliendo  come requisito di accesso la residenza anagrafica. Difatti, in alcuni dei casi da noi segnalati e presi in carico dal SERT, solo dopo aver trovato una soluzione abitativa alternativa la risposta è stata ottimale, mai prima. 
  • Strutturare dei servizi di medicina di prossimità volti proprio all’informativa sanitaria, al diritto alle cure e alla riduzione del danno per persone con forti tossicodipendenze. 
  • Garantire la presenza di mediatori linguistici e culturali all’Ospedale di Castelvetrano.
  • Favorire l’apertura di un consultorio familiare nel Comune di Campobello di Mazara.

Ribadiamo infine la necessità, nei lavori di cura rispettosi e lontani da approcci assistenzialisti, di essere consapevoli che questo “sistema”, che nominiamo senza il rischio di astrazioni, sia il prodotto di un insieme di politiche (realizzate sì da persone), leggi e anche discrezionalità operate dalle istituzioni e dalle autorità, che sono troppo spesso discriminanti, stigmatizzanti, criminalizzanti, razziste e patriarcali. Se non teniamo sempre a mente, nel nostro nel lavoro di cura quotidiano, l’esistenza e la natura di queste dinamiche di potere all’interno delle nostre società, non saremmo capaci di leggere la realtà in cui operiamo e in cui siamo immersi: difficilmente si può cambiare ciò che non si comprende a fondo, nelle sue sfaccettature. È un processo faticoso ma anche rivoluzionario.

Giulia Gianguzza, Maggie Neil e Alice Argento