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Nigeria – Status di rifugiata alla donna che si è sottratta ai riti della vedovanza e per appartenere a una categoria vulnerabile

Tribunale di Bari, decreto del 15 settembre 2022

Foto di ETAHT Benin City - Iniziativa informativa contro la tratta

Una recentissima pronuncia del Tribunale di Bari, successiva a riassunzione della causa dopo accoglimento in Cassazione del ricorso proposto dopo un primo rigetto sempre del Tribunale di Bari.

E’ un decreto interessante che sviscera la condizione delle donne vedove con figli in Nigeria; in particolare il Tribunale considera le dichiarazioni sulla vicenda personalecoerenti nelle diverse occasioni in cui sono state raccolte, ella non è incorsa in contraddizioni o incongruenze rilevabili, la sua esposizione appare lineare e trova riscontro anche nella relazione redatta dalla psicologa del C.A.S. di (…), ove la ricorrente era stata collocata. I precedenti dinieghi avevano compiuto una valutazione negativa in ordine alla credibilità delle dichiarazioni della ricorrente alla luce di COI inconferenti, se si tiene conto che il punto nodale del racconto della ricorrente è incentrato sulla morte del marito e sulla condizione vedovile, fonte della sua vulnerabilità e dell’allontanamento dal paese”.

Il Giudice cita altre sentenze nei quali sono evidenziate come essenziali le seguenti C.O.I. (Trib. Bologna 7 ottobre 2021): “Uno studio sui diritti delle vedove in Nigeria riporta: ‘la vedovanza in Nigeria non è solo percepita come uno stato dì essere, ma soprattutto come un’istituzione. Ordinariamente, si direbbe che la vedovanza “è lo stato o la condizione di essere una vedova o, raramente, di essere un vedovo (Webster’s Dictionary 1438), ma quando prendiamo in considerazione i molti rituali e pratiche insieme ai regolamenti e alle imposizioni che lo accompagnato, scopriremo che la vedovanza è, più o meno, un’istituzione. Questa istituzione è interpretata e compresa nel contesto della cultura e delle tradizioni del popolo che regolano il suo funzionamento. Per questo fine, ci si aspetta che ogni donna il cui marito muore aderisca rigorosamente alle regole non scritte e ai rituali della vedovanza che si sostiene siano imposti dalla cultura e dalla tradizione. Per essere sicuri, la vedovanza è esperienza che la maggior parte delle donne in Nigeria e forse in Africa teme dì vivere. Queste donne sono sottoposte a diversi trattamenti inumani come il rifiuto, l’abuso, la negazione, l’oppressione, la sottomissione e la profanazione, e per loro è meglio descritto come un incubo” (Austin Obinna Ezejiofor, Patriarchy, Marriage and the Rights of Widows in Nigeria, DOI).

Secondo un altro studio pubblicato nel 2019: “I rituali di vedovanza sono una forma dì violenza di genere e che la persistente prevalenza dei riti di vedovanza è creata dall’assenza di efficaci meccanismi di attuazione delle convenzioni esistenti relative ai diritti delle donne in Nigeria ed è quindi rilevante per il raggiungimento della giustizia sociale per le donne nell‘Africa Sub Saharìana attraverso il portare alla luce le sofferenze delle donne durante l’esecuzione di riti e pratiche di vedovanza.” (Lady Adaina Ajayi, Faith Osasumwen Olanrewaju, Adekunle Olanrewaju & Onwuli Nwannebuife (2019) Gendered violence and human rights: An evaluation of widowhood rites in Nigeria, Cogent Arts & Humanities, 6:1).

Coerentemente a quanto narrato dalla ricorrente, numerosi fonti riportano che ‘in alcune comunità tradizionali del sud, le vedove sono sospettate quando i loro mariti muoiono. Per provare la loro innocenza, sono costrette a bere l’acqua usata per pulire i corpi dei loro mariti defunti’ (USDOS — US Department of State: Country Report on Human Rights Practices 2019 – Nigeria, 11 March 2020 https://www.ecoi.net/en/document/2026341.html). Un report specifico dell‘IRB sui rituali vedovili riporta che: le fonti riferiscono che le vedove in Nigeria sono sottoposte a vari trattamenti o rituali “disumanizzanti” in seguito alla morte del marito. Tra questi rituali alcune vedove sono costrette a bere l’acqua usata per pulire il cadavere del loro defunto marito. Secondo alcune fonti, lo scopo di questo atto è dimostrare che le donne non sono responsabili della morte del marito. Le fonti indicano che i riti di lutto e di vedovanza differiscono tra le oltre 200 identità etniche della Nigeria. […] Circa le conseguenze del rifiuto, in passato, la vedova che rifiutava di eseguire il rituale era vista come “complice della morte del marito”, per esempio, usando la stregoneria; ma questi “atteggiamenti” sono più rari oggi. Tuttavia, una vedova che rifiuta il rito dovrà comunque affrontare lo stigma della sua comunità e della sua famiglia. Rischierà di essere aggredita, diseredata, cacciata, abbandonata, privata dei suoi figli, considerata come una “strega“ o come una moglie inadeguata, o addirittura accusata di disobbedire alle usanze prevalenti del patriarcato”. (IRB, Nigeria: Ritual in which a widow must drink the water used to clean her late husband‘s corpse; consequences for refusal to drink this water; whether a widow‘s refusal is interpreted as responsibility for her husband‘s death; state protection available (2016- November 2018) Research Directorate, Immigration and Refugee Board of Canada, Ottawa).

Nel caso di specie, la ricorrente descrive la famiglia del marito come compatta nell’osteggiarla, la suocera la faceva picchiare due volte dagli altri figli, mentre accenna alla madre che all’inizio pensava si trattasse d’uno scherzo e all’assenza d’una figura maschile di riferimento, per l’essere il padre morto quando aveva diciotto anni. A ciò deve aggiungersi il profilo della tratta di cui la ricorrente cadeva vittima, sotto la falsa promessa d’una vita migliore in Libia e la prospettiva di un lavoro in un ristorante. Da un punto di vista di credibilità esterna, tutte le COI disponibili riferiscono che la Nigeria (in particolare le aree di Edo State, Delta State e altri Stati come Ondo, Lagos e Abia) sia uno dei Paesi in cui è maggiormente diffuso il fenomeno della tratta di donne in condizioni di vulnerabilità socio-economiche o in condizioni familiari disagiate, da avviare ai mercati della prostituzione ed allo sfruttamento sessuale in Europa e che le modalità utilizzate dalle reti criminali dedite alla tratta sono compatibili e sovrapponibili con i fatti descritti dalla ricorrente in relazione al reclutamento ed al viaggio intrapreso.

Conclude il Tribunale: “Tenendo conto dei principi di cooperazione e di attenuazione dell’onere della prova che vengono in considerazione, i fatti rappresentati dalla ricorrente, integrano, un concreto fumus persecutionis ai sensi dell’art. 2 lett. g) d.lgs. n. 251/2007 e costituiscono circostanze tali da configurare un fondato timore di subire pregiudizio per uno dei motivi tutelati dalla Convenzione di Ginevra. La ricorrente è sottoposta a un rischio specifico derivante dal proprio vissuto personale e dal contesto sociale nigeriano, nel quale le donne costituiscono una categoria particolarmente vulnerabile; conformemente alla Direttiva Qualifiche, la persecuzione relativa al sesso costituisce infatti una forma distinta di persecuzione, che può propriamente ricadere all’interno della definizione di rifugiato ex Convenzione di Ginevra del 1951, qualificandosi le donne che rischiano di subire soprusi (legati al loro sesso) quale “gruppo sociale”. Pertanto, la domanda di protezione internazionale deve essere accolta e alla ricorrente può essere riconosciuto lo status di rifugiato in applicazione della art 1, comma 2, della Convenzione di Ginevra”.

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Si ringrazia l’Avv. Mariagrazia Stigliano per la segnalazione e il commento.


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