Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
/

Tanimar, Pantelleria, 26 settembre, primo giorno

Lat 36°, 49’ Nord, long 11°, 56’ Est

Start

Ascoltando le note e le parole che Davide Cangelosi ci ha donato per il nostro viaggio, non possiamo che misurare l’enorme distanza fra i diversi stare in mezzu a lu mari. Il nostro è quello privilegiato del racconto, del provare a essere occhi e testimoni civili in mare di quanto viene in modo altalenante invisibilizzato o trasformato in spettacolo.

Siamo la prima barca di ricercatori in mezzo a questo mare… Quello che si vorrebbe chiudere con i blocchi navali o la chiusura dei porti, quello che è già chiuso con i fermi amministravi delle navi dei soccorritori civili, i respingimenti delle guardie costiere libiche e tunisine, gli accordi bilaterali… quel mare che continua, lasciando una scia di sangue e morti dietro di sé, a rimanere comunque aperto e poroso, attraversato con ogni mezzo da quanti esercitano il diritto alla fuga.

Ieri notte ci aggiravamo nel porto di Pantelleria cercando un bar dove seguire i risultati elettorali. Non sembra essere un tema di interesse. Nessuno schermo è sintonizzato su questo canale. Nessuna attesa particolare. Un cameriere chiede a noi come stanno andando: “Non ho tempo per seguire, lavoro sempre, di corsa”. E la mattina dopo nel bar di fronte alle pescherie, quando i vincitori – quelli che in modo esplicito vogliono che il Mediterraneo continui ad essere un cimitero liquido – sono ormai seduti sul palco della vittoria, il loro vociare dagli schermi è annullato dalle discussioni della vita quotidiana: si parla del lavoro e della fatica, delle vendite del pesce, della casa perduta per un divorzio, del tempo, del mare.

Scendendo dalla barca che ci accoglie, Tanimar un ketch di 15 metri guidato da due skipper genovesi trapiantati da tempo a Lampedusa, un elicottero si alza in volo dall’altro lato del porto. Volteggia sopra le nostre teste e poi scompare. Due anziani seduti su una panchina ci dicono con indifferenza che “sorveglia i tunisini”. Più tardi un carabiniere ci racconterà che ogni giorno l’elicottero fa il giro dell’isola. Produrrà forse immagini che sono rilanciate e andranno a comporre lo sguardo condiviso di diverse agenzie di controllo. Il mare è permanentemente sorvegliato, tracciato, reso visibile, ascoltato, scandagliato… questa visione panottica va spesso a braccetto con il suo rovescio necropolitico, lasciar morire chi è protagonista di mobilità inopportune e indesiderate.

Abbiamo preparato la partenza entrando in relazione con altri che per lavoro o vocazione attraversano il canale di Sicilia. Ecco alcune di queste voci:

ieri al calar della sera, mentre stavo spostando una barca di 46 piedi, mi ha fermato una motovedetta della finanza. Hanno perquisito la barca in cerca di clandestini, poi hanno continuato a scassarmi l’anima per un paio d’ore con futili motivi, come si dice in tribunale, facendomi perdere la luce per atterrare in porto. A un certo punto la loro radio ha detto “è affondata”. “Ma chi è? Lampedusa??” ha chiesto uno. “Si si” ha risposto l’alto, annoiato. I morti annegati annoiano un poco tutti infatti. Oggi sulla cronaca zero news. Mondo di merda, se la rimesti spussa, se la pesti porta fortuna.

Sai… il mio terrore è imbattermi in un barcone, quelli con tanta gente, quando navigo. Che cazzo fai? Io sono piccolino con la mia barchetta a vela da charter, loro tanti e come fai a salvarli? L’unica cosa è restare vicini, in zona, e rilanciare in continuazione il may day, così quelli dello Stato o barche più grandi sono obbligati ad accorrere e portare i soccorsi e magari non li lasciano morire nel silenzio.

Quando siete in mare, usate sempre comunicazioni scritte. Magari con pescherecci e università ci vanno più leggeri. Ma a chi salva, non fanno mai sconti.

Come in altri luoghi di frontiera, si impone la progressiva naturalizzazione di uno spazio di morte: in modo tragico e paradossale, le persone in mare sono sorvegliate per un potenziale crimine di solidarietà mentre i naufragi, quelli dei migranti, divengono parte di uno scenario di accettabilità.

L’elicottero è scomparso dietro il porto. Il silenzio e la tracciabilità corrono insieme. Dopo il cimitero, dopo il campo da calcio abbandonato, dopo la centrale elettrica, dopo il canile, dopo i lavori non finiti di un lungomare, dopo l’installazione di una artista che mette in dissonanza turismo e migrazione, una vecchia caserma in disuso accoglie il cimitero delle barche di Pantelleria: gozzi e piccoli barchini, ma anche canoe, stile decathlon. Tutti segni di viaggi auto-organizzati, siamo a meno di 35 miglia dalle coste tunisine. Poco oltre, griglie di un centro dove chi arriva è rinchiuso, e materassi impilati e buttati per terra. Qui e là, un giubbotto di salvataggio sul cemento o una coperta termica dentro sacchi sporchi. È uno scenario di macerie, di scarti.

Domani avremo un giorno a terra di interviste a Pantelleria prima di andare verso Sud, verso Lampedusa, bordeggiando le acque territoriali tunisine. Incontreremo volontari anonimi, ma anche le istituzioni del mare e della terra. Un vecchio articolo di un giornale tunisino – La Dépeche Tunisienne – del 6 agosto 1947 ci fa da guida. Dice il titolo in francese su una carta ingiallita: “Tunisia, Terra di scelta. Le Cap Bon rimane luogo di atterraggio favorito dei clandestini che vengono dalla Sicilia. Sbarco massivo, trenta arresti”.

L'equipaggio della Tanimar

Siamo un gruppo di ricercatrici e ricercatori delle università di Genova e Parma. Per due settimane, dal 26 settembre all’11 ottobre, attraverseremo il Mediterraneo centrale facendo tappa nei principali snodi della mobilità migrante e del controllo confinario europeo: Pantelleria, Lampedusa, Linosa, Malta.