Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
Ph: Siyâvash Shahabi

Zhen, Zhian, Azadi! (Donna, vita e libertà)

Mahsa Amini, l’hijab e le rivolte in Iran viste da Siyâvash Shahabi, attivista e giornalista iraniano in esilio

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Da più di dieci giorni l’Iran è in rivolta, e c’è chi inizia a parlare di rivoluzione. Sono migliaia le manifestantə arrestatə e almeno 41 quellə mortə negli scontri, ma sicuramente moltə di più. L’assassinio di Mahsa Amini è stata scintilla di un fuoco che ora ha incendiato gran parte del paese, chiedendo la fine delll’apartheid di genere e del regime islamofascista, e pane, e lavoro. A scendere nelle strade sono ora anche le studentə, le insegnantə in sciopero, anzianə che avevano combattuto per la rivoluzione marxista del ‘79, subito tradita.  Le parole della rivolta sono ‘Zhen, Zhian, Azadi’, ovvero ‘donna, vita, libertà’, parole urlate per la prima volta il giorno del funerale di Mehsa Amini a Saqqez da una folla inferocita. Le donne si toglievano l’hijab e si tagliavano i capelli, facendo immediatamente capire che la rivoluzione sarà donna (o non sarà). Ma nelle strade si urla anche ‘combattiamo, moriamo, ci riprendiamo il nostro Iran’, ‘morte a Khamenei, morte alla dittatura’, e le giovanə cantano le canzoni rivoluzionarie degli anni ‘70, che più di  quarant’anni di regime non sono riusciti a far dimenticare. Il popolo attacca i commissariati di polizia e del governo per prendere il controllo delle città, come successo a Oshnavieh, ma le forze speciali di polizia non esitano a sparare a vista, con i loro fucili calibro 12. Così la ventenne Hadith Najafi, altro simbolo della rivolta, è morta colpita al volto da più di 20 proiettili. Il governo minaccia di mettere in campo l’esercito, e intanto organizza marce pro regime che invocano l’esecuzione degli infedeli, mentre costruisce la propaganda cospirazionista del nemico esterno e diabolico, etichettando le manifestantə come ‘soldati di Israele’ organizzati dagli USA. Con lo stesso obiettivo è stato già portato un attacco con artiglieria e droni anche oltre confine, contro una base di curdi separatisti iracheni, accusati di fornire armi alle manifestantə. 

Come scrive Siyâvash Shahabi, in esilio in Grecia da 5 anni, “la lotta contro l’Islam politico è l’obiettivo principale di questa rivoluzione”, perchè “l’Islam è diventato il principale strumento di oppressione e tirannia dei fascisti al potere.” Le parole e le fonti di Siyâvash, in quanto attivista politico iraniano oppositore del regime, sono per noi particolarmente preziose per capire quello che sta succedendo, soprattutto ora che internet è oscurato e comunicare all’esterno del paese risulta sempre più difficile. Siyâvash sottolinea la necessità di andare oltre alla narrazione delle rivolte come appare nei media mainstream occidentali, per comprendere la radicalità delle proteste: “Il motivo per cui le donne iraniane scendono in piazza e cercano di rovesciare il regime al potere, piuttosto che chiedere a gran voce l’abolizione dell’hijab obbligatorio o la fine della violenza fisica contro le donne, non può essere spiegato senza un’analisi e una critica approfondita del funzionamento della religione e del capitale in Iran.” Pertanto, “Un’analisi non di classe dei diritti delle donne, insieme alla narrazione degli eventi da parte dei media di destra, contribuiscono a una comprensione incompleta di questa rivolta.” 

Negli ultimi dieci giorni, dalla morte di Mahsa Amini, sono scoppiate 133 proteste in 93 città di 30 province. E ancora, gli studenti hanno protestato in 18 università e hanno indetto ieri uno sciopero generale e il boicottaggio delle lezioni online

Per non cadere nelle visioni semplicistiche e razziste che ieri orientalizzavano la società iraniana e oggi occidentalizzano le rivolte, abbiamo tradotto un articolo di Siyâvash apparso il 27 settembre sul suo blog. Ma prima, prendendo ancora in prestito le parole dello stesso autore, è necessario chiarire la natura del regime islamofascista iraniano per chiarire la natura delle lotte a cui ci troviamo di fronte. “Islamofascismo non è un termine contro la fede individuale. È un termine politico contro una struttura politica che viola non solo i diritti delle donne, ma i diritti di ogni essere umano diverso da quello in cui si crede. L’islamofascismo è un termine politico basato sul sangue e sulla religione, simboleggiato dalla Repubblica islamica e dalla sua bandiera, l’hijab islamico. Il contenuto politico di questo regime non è diverso da quello dei regimi della junta [greca], di Pinochet e di Mussolini. Non si tratta di una discussione sulle scelte individuali in materia di fede e di credo in Dio. Si tratta di secolarismo e di anticapitalismo.” Infatti, la società iraniana non è una società islamica e non lo è mai stata, perché “non esiste una cosa del genere nel mondo, ma solo nei libri degli orientalisti razzisti. Il regime dispotico al potere in Iran è un regime islamico, che nonostante tutta la sua coercizione non è ancora riuscito a costringere la popolazione nella sola identità islamica.” Oggi che la lotta delle donne è diventata la lotta di tutta la società iraniana e il volto di Mehsa è il volto di tuttə le oppressə, l’islamofascimo e le sue élite stanno tremando. Di seguito l’articolo tradotto.

Mahsa, l’hijab e l’Iran

Mahsa Amini, una donna di 22 anni che era in coma dopo essere stata arrestata e picchiata dalla polizia morale (la polizia dell’hijab) di Teheran, è morta a causa della gravità delle ferite riportate. La settimana scorsa, Mahsa stava camminando per le strade di Teheran come qualsiasi altra persona quando è stata arrestata per il suo hijab ‘inappropriato’. Il fratello di Mahsa ha raccontato ai media che la polizia l’ha arrestata con violenza e in quel momento le ha spruzzato del gas in faccia.

I funzionari di polizia iraniani hanno immediatamente affermato che Mahsa aveva avuto un attacco di cuore, ma la famiglia ha negato qualsiasi ipotesi di malattia cardiaca. Secondo l’ospedale dove Mahsa è stata ricoverata, al suo arrivo era già “senza segni vitali e in stato di morte cerebrale“. Il fratello di Mahsa ha pubblicato una sua foto scattata un’ora prima del suo arresto. In quella foto Mahsa sorrideva.

La Guida Suprema Khamenei durante un incontro con i veterani e comandanti dell’esercito, in cui si è concentrato sulle minacce e sulle crisi esterne, secondo la classica dottrina dell’accerchiamento promossa dalle élite nei momenti di crisi interna

L’hijab obbligatorio

Dal 1980 in poi, l’hijab islamico è diventato legge per ordine di Khomeini, successivamente del governo, infine del parlamento. In un discorso, Khomeini aveva affermato: “Le donne musulmane devono uscire con l’hijab islamico“. Fu l’inizio della pressione legale sulla vita delle donne in Iran.

L’hijab islamico fu reso obbligatorio prima nell’esercito, poi negli uffici amministrativi e nei centri educativi, infine nell’intera società. Fin dall’inizio ci fu ampia opposizione a questa legge, opposizione accolta con una repressione generalizzata , imprigionamenti e uccisioni. Negli ultimi quarant’anni la questione è rimasta largamente discussa e criticata nella società.

Homa Darabi è una delle più famose donne che hanno lottano contro l’hijab. Era una pediatra, accademica e attivista politica iraniana. Fu licenziata a causa del suo ‘hijab inappropriato’, e il suo studio medico fu chiuso per ordine delle autorità. È nota per la sua auto-immolazione contro l’obbligo dell’hijab, che l’ha portata alla morte.

Tra gli arresti e le torture più recenti per le oppositrici dell’hijab islamico c’è il caso di Sepideh Reshno. È stata arrestata dopo essersi tolta il velo sull’autobus e aver discusso con una donna velata. La televisione di Stato iraniana ha pubblicato pochi giorni dopo un’intervistata in cui Sepideh dichiarava di essere stata influenzata da media stranieri. A queste dichiarazioni sono seguite molte critiche perchè questo tipo di interviste vengono rilasciate dopo lunghe torture e detenzioni. La trasmissione di questa intervista ha suscitato un’ampia reazione. Sul volto di Sepideh erano chiaramente visibili dei lividi.

Le proteste a Teheran, 19 settembre

La polizia morale

La polizia morale è uno degli strumenti più antichi utilizzati dal governo per controllare le donne nella società. È utilizzata nelle strade e nei luoghi pubblici dal governo della Repubblica islamica per mantenere la società senza peccato, guidando le donne verso l’abbigliamento desiderato dai governanti. Sebbene le autorità iraniane affermino che l’hijab sia una scelta delle donne, esse obbligano apertamente e praticamente tutte ad indossarlo.

Anche le persone che credono nei principi islamici, pur indossando loro stesse l’hijab, sono state spinte ad aderire alla campagna contro l’hijab obbligatorio dalla violenza poliziesca contro le donne. I sostenitori del governo non hanno gradito questa campagna e, attaccandola, l’hanno attribuita a gruppi stranieri e agli storici oppositori degli sciiti.

Secondo la visione religiosa dei governanti iraniani, le donne che non osservano l’hijab islamico sono causa di siccità, terremoti, prezzi elevati e povertà. Gli imam del venerdì hanno dichiarato più volte questo problema.

Come risultato più profondo della segregazione femminile, le donne hanno avuto meno opportunità di entrare nel mercato del lavoro e la loro posizione nella produzione e nell’economia è stata limitata. Silvia Federici chiama questo fenomeno “svalutazione del lavoro femminile“, che avviene durante l’accumulazione primitiva, attraverso il quale il capitalismo islamico iraniano vuole mantenere la “maternità” come parte maggioritaria delle responsabilità sociali della donna. Persino la vendita di dispositivi anticoncezionali è stata criminalizzata. Come risultato di queste politiche, i salari sono diminuiti a causa dell’aumento della domanda di lavoro, con un conseguente aumento del divario tra i salari degli uomini e delle donne e un ulteriore sfruttamento delle donne. Da questo punto di vista, il ruolo della polizia morale va ben oltre il controllo dell’abbigliamento e dell’hijab. (Nel video la sorella di Javad Haydari, ucciso durante le proteste, si taglia i capelli sulla bara del fratello)

L’hijab e il movimento femminile

Il fiorire del movimento islamico negli anni ottanta, in particolare con l’ascesa degli islamisti in Iran e la legge sull’hijab obbligatorio, ha dato vita ad un movimento anti-islamico e per la libertà delle donne in Iran, e la questione dell’hijab è diventata subito una parte centrale del dibattito internazionale sui diritti delle donne.

In seguito alla politica occidentale della guerra al terrorismo, la questione dell’hijab islamico è diventata ancora più controversa. L’hijab è diventato un’importante questione politica non solo nel movimento per i diritti delle donne, ma anche nei movimenti “anti-imperialisti“, “anti-razzisti” e “laicisti” di destra e di sinistra. Lo status dell’hijab islamico è stato praticamente cambiato: da uno tra i tanti riti dell’Islam al suo simbolo più importante e bandiera del movimento islamico.

In Iran, il movimento di liberazione delle donne ha preso di mira l’hijab islamico come simbolo dell’inferiorità e dell’esclusione delle donne. In Occidente, il movimento laicista ha sottolineato la necessità di abolire l’obbligo di osservare l’hijab islamico; negli ultimi due decenni, tuttavia, sotto il dominio della politica della guerra al terrorismo, il razzismo contro i musulmani è cresciuto, rendendo l’hijab islamico l’obiettivo principale degli attacchi razzisti, sostenuti anche dai movimenti di destra.

D’altra parte, il confronto con le politiche militariste e il terrorismo di Stato ha portato molte donne a indossare l’hijab contro “l’imperialismo“, l’Occidente, e a protestare contro le politiche militariste della guerra americana al terrorismo, anche difendendo i diritti del popolo palestinese. Pertanto, l’hijab è diventato una questione politica importante e controversa, non solo nei Paesi islamici ma anche nel mondo.

La Repubblica islamica è stata uno dei maggiori vincitori e propagandisti di questa politica “anti-imperialista” inversa. È stata infatti la Repubblica islamica a giocare un ruolo significativo nel governare la questione del relativismo culturale e dell’islamofobia, creando un movimento di lobby, spendendo milioni di dollari per la propaganda islamica e impegnandosi in una continua e accorta attività politica.

I tentativi del regime islamico e del movimento islamico di tenere in ostaggio le persone antirazziste che si opponevano agli attacchi razzisti contro i musulmani hanno avuto successo. Perciò, l’hijab islamico  non solo si è affermato come strumento di oppressione delle donne, oltre che di allontanamento e di soffocamento di tutta la società, ma è diventato anche un simbolo di protesta e di ribellione.

Bandar Abbas, 25 settembre. Un gruppo di donne balla cantando canzoni rivoluzionarie e bruciando gli hijab

L’hijab islamico e la Repubblica islamica

La Repubblica islamica è salita al potere in seguito al fallimento di un’importante rivoluzione politica. Pertanto, il ruolo dell’ideologia islamica è stato fondamentale per mantenere il potere. Come ho già detto, il regime islamico ha iniziato un attacco politico-ideologico a tutto campo contro la società dal momento in cui è salito al potere. L’attacco alle donne era al primo posto di questa strategia.

L’apartheid di genere è diventato un forte pilastro della governance sotto il regime, che ha usato l’hijab islamico come bandiera politica. Negli ultimi quattro decenni, la lotta per l’hijab islamico è stata un aspetto costante della politica nella società. L’hijab islamico e l’apartheid di genere sono diventati perciò le due principali rivendicazioni del movimento di liberazione delle donne e del movimento di liberazione culturale. Il principale pilastro della repressione e del soffocamento di questo regime è l’attacco alle donne senza hijab o che indossano un “hijab inappropriato“. Tuttavia, il discorso critico sull’hijab non è mai stato del tutto emarginato nella società iraniana.

Giovanni Marenda

Studente magistrale di Sociologia e Ricerca Sociale all'Università di Trento. Ho trascorso la maggior parte del 2020 ad Atene, in Grecia, impegnato nel lavoro di solidarietà. Sono un attivista del Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino, che promuove la libertà di movimento e supporta le persone migranti lungo le rotte balcaniche e sui confini italiani.