Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
Chaka Konate, artigiano ivoriano. Ph: Laura Cappon
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Cosa significa essere artisti quando si è stranieri in un Paese in crisi

La testimonianza di Chaka Konate e il crowdfunding per sostenere l'artista ivoriano

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Dalla Costa d’Avorio alla Libia, passando per due guerre civili.

Chaka Konate ha 41 anni e viene dalla Costa d’Avorio. Dall’inizio degli anni 2000, la Costa d’Avorio è immersa in una guerra civile. Figlio e fratello di combattenti uccisi durante gli scontri, Chaka (lui stesso combattente) era stato costretto a scappare come rifugiato in Ghana. A suo solo carico aveva di colpo la madre, la sorella piccola, la figlia e i tre bambini di suo fratello. 

Una volta proprietari terrieri e imprenditori edili, Chaka e i suoi familiari si erano così improvvisamente trovati immersi nelle difficoltà di una vita al margine in Ghana. Nel 2008, grazie a un contatto in Libia, Chaka vi si era trasferito per lavorare come meccanico per una compagnia petrolifera svizzera. Tutto sembrava andare per il meglio: la paga era sufficiente a mantenere i suoi familiari, rimasti in altre tappe del viaggio.

Ma nel 2011, la rivoluzione in Libia costringeva Chaka nella difficile posizione di dover scappare da un’altra guerra civile. Non poteva tornare in Costa d’Avorio, dove temeva di rimanere ucciso per la sua collaborazione con il sistema sotto assedio.  Allora, dove andare?

Promesse mancate: luci ed ombre sul diritto internazionale e l’UNHCR in Tunisia

Come molti nella sua situazione, Chaka aveva allora deciso di rivolgersi al Mar Mediterraneo. Lo racconta in un’intervista. «Abbiamo trascorso 5 giorni in mare per colpa della guardia costiera che non ci ha fatto ritornare verso le coste libiche. Il capitano aveva perso la rotta: siamo stati sul punto di affondare. Per fortuna ci hanno salvati e portati in Tunisia, al campo profughi di Choucha. Arrivati là, alcuni sono tornati in Libia per andare a prendere di nuovo il mare, ma io sono rimasto per portare avanti la procedura di riconoscimento dello status di rifugiato. UNHCR ci aveva promesso che lo avremmo ricevuto, insieme alle procedure di resettlement in un Paese terzo sicuro: eravamo profughi di guerra».

Le trasmissioni di Radio Melting Pot
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Tunisia, un «paese sicuro». Per chi?
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Quella promessa, oltre dieci anni dopo, non è stata mantenuta. Chaka vive ancora in Tunisia, e come lui, decine di ex abitanti di Choucha che sono rimasti fuori dagli “slot” di persone messi a disposizione dai Paesi terzi sicuri per il resettlement, come lui stesso ci spiega: «Ho anche fratelli ivoriani che hanno avuto lo status e l’installazione in Norvegia, Australia, Stati Uniti, Canada e altri Paesi sicuri. Hanno viaggiato, sono partiti, ma la maggior parte di loro hanno nomi Akan, non Malinke. Sono le due tribù principali in Costa d’Avorio. Quando ho chiesto perché non mi fosse stato riconosciuto lo status, UNHCR ha risposto che, visto che io sono della tribù malinke, che secondo loro era quella che aveva iniziato le sollevazioni e condotto alla guerra civile, non avrei avuto problemi a ritornare a casa. Ma la mia famiglia lavorava al servizio del vecchio governo. La politica in Costa d’Avorio è molto più complessa di quanto pensa UNHCR. Ci sono combinazioni molto diverse di appartenenza tribale, etnia e religione». 

Una storia che parla del carattere aleatorio del diritto internazionale sull’asilo. E del ruolo ambiguo giocato da UNHCR nella garanzia della protezione internazionale agli stranieri in Tunisia. La lente attraverso cui questa istituzione internazionale occidentale guarda alle guerre nel continente africano con la visione banalizzante (e razzista) di “conflitti tra tribù“, ha delle conseguenze dirette sul mancato riconoscimento dell’asilo a persone che ne hanno diritto, e viceversa. 

Sit-in davanti alla sede di UNHCH a Tunisi. Foto di Riccardo Biggi, Valentina Lomaglio e Luca Ramello

Creare per vivere

Per rendere fertile l’attesa dei tempi della burocrazia della migrazione, nel campo Choucha, Chaka aveva cominciato a dare vita a degli oggetti. Era cominciato tutto da delle lastre di legno, e dall’idea di una donna della vicina città di Tataouine. Anche se non lo aveva mai fatto in vita sua, in quell’angolo del deserto Chaka imparava a scolpire. Prima il legno, poi le pietre del deserto.

«Quando ho iniziato a scolpire le piccole pietre del deserto, la gente ha molto apprezzato. Mi hanno esortato a farne molte per poi mandarle in città. Le mandavo a prendere dalla stessa signora del legno, lei le rivendeva a Tataouine e poi persino a Tunisi. Fino a quando un’associazione italiana ha visto il mio lavoro nel campo e si è proposta di aiutarmi a stabilirmi in città, con l’intermediazione di un’associazione tunisina. Ho accettato, perché cercavo un’opportunità di lavoro. Hanno affittato una casa per me a Tataouine, mi davano tutti i materiali, io lavoravo, loro portavano i prodotti artistici in Italia e mi pagavano la mia parte. Ma dopo l’associazione tunisina ha voluto fare più soldi, cambiare le percentuali di guadagno sul mio lavoro. L’associazione italiana non ha gradito, hanno lasciato il contratto. Sono rimasto con l’associazione tunisina, ma hanno iniziato a sfruttarmi, hanno persino preso la mia casa. Ben presto non avevo più nemmeno i soldi per mangiare. Grazie all’aiuto di un’amica ho allora deciso di trasferirmi a Tunisi».

A quel punto Chaka era ormai un artigiano specializzato nella fabbricazione di accessori, ma anche capi d’abbigliamento e borse, realizzati con tessuti importati dalla Costa d’Avorio. A Tunisi, grazie anche a una rete di conoscenze, era riuscito a ricostruirsi un mercato florido, a mantenere se stesso, sua figlia e i nipoti lontani. 

Poi è stata la pandemia di Covid-19 a mandare di nuovo per aria le gambe del suo tavolo di lavoro. La pandemia ha infatti approfondito la gravità della crisi economica, politica e sociale tunisina. Una crisi da cui, non a caso, sfuggono ogni anno migliaia di cittadini e cittadine. Il lavoro qui manca prima di tutto per i cittadini. A questo dato strutturale si aggiunge quello delle discriminazioni razziali sistematiche che le persone straniere, soprattutto di colore, subiscono nel Paese maghrebino. Lo racconta così:

«Quando sei straniero e vuoi investire in qualche progetto in Tunisia, devi essere molto forte per avere successo. Quando le persone qui vedono che è un africano che produce, hanno sempre cose brutte da dire: è fatto male, non è originale… Se fossero opere di un tunisino, le comprerebbero senza discutere, anche se la qualità fosse più bassa. C’è troppa discriminazione e questo ci stanca molto, gli insulti per strada e tutto il resto. È davvero difficile». 

Mentre gli stessi cittadini e cittadine tunisine occupano le strade di diverse città per rivendicare i loro diritti di cittadinanza, dunque, l’elemento della discriminazione razziale rende ancor più vulnerabili gli stranieri, soprattutto provenienti da altri Paesi dell’Africa cosiddetta sub-sahariana. In questo limbo, gli sforzi creativi di Chaka non si fermano.

«I ragazzi stanno ancora studiando, anche l’anno scorso ho dovuto pagare per l’educazione di mia figlia. Non aspetterò che mi chiedano e io non abbia nulla da dargli, hanno sempre bisogno di qualcosa. Per questo ho voluto lanciare la campagna di crowdfunding, per comprare i tessuti e la macchina da cucire che ho dovuto vendere. Voglio ricominciare a lavorare, aiutare i miei ragazzi, fare le mie creazioni».

Per partecipare alla campagna di raccolta fondi: 

Sosteniamo Chaka ed i suoi progetti consapevoli che intervenire sulle questioni strutturali per il dossier tunisino richiede azioni politiche. Tra di loro, la sospensione degli accordi bilaterali con cui l’Italia foraggia le autorità tunisine, ostacolando il diritto di movimento delle persone che vogliono lasciare la Tunisia.

Valentina Lomaglio

Studio la mobilità umana nell'area mediterranea, ed in particolare nel contesto tunisino. Mi interessano le prospettive intersezionali, teoriche e militanti, alle questioni di genere, razza e classe. Sono laureata in Scienze Politiche, Sociali e Internazionali presso l'Università di Bologna, e sto frequentando il master in Mediazione Inter-Mediterranea delle Università Ca' Foscari di Venezia e Paul Valéry di Montpellier.