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Isola-confino, isola-cantiere, isola-resort?

Gozo/Malta, 6-7 ottobre, undicesimo/dodicesimo giorno

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36° 05’ N, 14° 17’ E

Oltre la splendida scogliera a picco sul mare, un albergo in costruzione. Accanto una gru. Sotto, un vecchio borgo di pescatori riconvertito interamente all’economia turistica. Questa prima immagine che si imprime nei nostri occhi nel primo mattino dopo la navigazione notturna da Linosa riflette solo uno degli innumerevoli nuovi alberghi sorti nottetempo sull’isola, accanto a un numero se possibile ancora maggiore di residence, grattacieli, condomini o scheletri di edifici e lotti in costruzione.

Malta cresce quotidianamente a un ritmo esorbitante, parossistico, seguendo il disegno speculativo di urban developers (itzviluppaturi, li chiamano qui) e mercato immobiliare, tempestata da gru, impalcature e cantieri rispettivamente manovrate, erette e occupate per lo più da altri lavoratori migranti: forza lavoro imbrigliata che, se verosimilmente si pensava in transito, to Europe, in realtà si riscopre al confino; e se di giorno affolla l’isola-cantiere, di notte risiede nell’ombra di edifici vecchi e abbandonati o in uno dei diversi centri di accoglienza/detenzione dell’isola-confino.

In mezzo, al sole, c’è l’isola-resort, la cartolina surreale veicolata da tourist operator e agenzie immobiliari per attrarre una galassia di ulteriori soggetti in transito: turisti ovviamente, ma anche studenti Erasmus, oligarchi extraeuropei a caccia di un passaporto EU, players del gambling e dell’azzardo, professionisti dell’industria del betting e del gaming, sviluppatori di blockchain, digital nomads attratti da sgravi fiscali e incentivi di ogni tipo. Nel giro di uno, forse due decenni, alimentata da scelte politiche spregiudicate, l’economia dell’isola si è trasformata affiancando a traffici tradizionali, leciti o meno, tutta una serie di nuovi asset finanziari e digitali che hanno fatto di un territorio poco più grande dell’isola d’Elba, ma con oltre 500.000 abitanti (più del 20% dei quali stranieri), una sorta di stato off-shore dentro l’Unione Europea e l’area euro. Potere della latitudine e dell’insularità, si potrebbe dire, che in questo caso coincide con un intero Paese.

Agli occhi di chi vi approda provenendo da sud e dal mare, dalle coste nordafricane (Tunisia e soprattutto Libia), eludendo blocchi e respingimenti preventivi o rotte per lo più incanalate altrove (a Lampedusa, in Sicilia o sulla costa Jonica), l’isola può apparire come un’enorme trappola, per quanto aggirabile – le uscite verso l’Italia e il continente, sebbene azzardate, sono comunque praticabili anche per i “dublinati” a Malta. Ma ad altri sguardi e sotto altre orbite si rivela uno snodo temporaneo attraente, un crocevia remunerativo. L’aspetto significativo, tuttavia, è che questo caleidoscopio di sguardi e questa costellazione di traiettorie sembrano in qualche modo convivere, per quanto sotto cieli diversi. Qui, infatti, turisti o temporary residents e migranti e richiedenti asilo non si incontrano quasi mai, pur sfiorandosi quotidianamente, come in un gioco di incastri, di orbite parallele.

A fine aprile 2020, nel pieno della prima ondata pandemica, 57 naufraghi salvati nel corso di un’operazione di rescue nell’area marittima maltese sono stati trattenuti per quattro settimane su un battello di sight-seeing della catena armatoriale Captain Morgan, riadibito per l’occasione a nave quarantena. Nonostante i reiterati ma timidi appelli delle agenzie internazionali (UNHCR, OIM, Commissione europea dei diritti dell’uomo), la decisione governativa di riconvertire a quarantine ship i natanti turistici non è stata revocata, perlomeno durante la bassa stagione. Come sottolineano DeBono e Mainwaring, nel corso del 2020 il governo «ha detenuto più di 400 persone su imbarcazioni turistiche, in alto mare all’interno delle acque territoriali maltesi, talvolta per quasi sei settimane», sbarrando l’accesso a ogni forma di assistenza legale e organizzazione non governativa e impedendo de facto di chiedere asilo a Malta: un modo per «bloccare efficacemente il diritto d’asilo delle persone detenute».

A questa forma di detenzione offshore, in cui gli stessi luoghi e le stesse strutture vengono utilizzati come sliding doors per diverse tipologie di presenze nomadi, su rotte diverse e diverse crociere, va aggiunto il fatto che, al di là dell’emergenza e dei confini sanitari da questa sovraimposti a quelli (bio)politici, per migranti e asylum seekers lo spazio dell’accoglienza resta per lo più relegato in luoghi riservati e tradizionali, in base a temporalità meno effimere e condizioni se possibile ancor meno garantite: «nel corso degli ultimi anni, migliaia di persone sono state detenute in maniera forzata in pessime condizioni» (Ibidem).

Del resto, Malta è l’unico paese europeo ad aver ufficialmente previsto la detenzione amministrativa e dirottato in appositi centri anche gli asylum seekers. In effetti l’irrefrenabile pulsione edilizia che investe l’isola sembra arrestarsi di fronte alle strutture di accoglienza e/o detenzione di migranti irregolari(zzati) e richiedenti asilo, ai quali al contrario sono riservati edifici per lo più fatiscenti, abbandonati e riconvertiti per l’occasione. È il caso di una ex scuola chiusa per amianto, a Marsa, a ridosso dei cantieri navali e del porto industriale, che una decina di anni prima un progetto co-gestito dalla Foundation for Shelter and Support to Migrants aveva trasformato in luogo di incontro, con un mercato, negozi e ristoranti improvvisati, e che oggi risulta ermeticamente sigillata, riconvertita in centro di prima accoglienza di richiedenti asilo in semi-cattività.

Come pure dell’ingente e rigorosamente interdetto reception center di Ħal Far, ufficialmente Ħal Far Tent Village, costituito da file di container seminascosti in mezzo a vecchi hangar abbandonati nei paraggi dell’aeroporto, che ospita centinaia di persone in attesa. O di diversi altri centri, quasi sempre riciclati da strutture preesistenti (tra cui un vecchio quartier generale cinese), oggi sovraffollati tanto di richiedenti asilo in attesa di una decisione e una forma di protezione quanto di unauthorized migrants in attesa di relocation, resettlement o rimpatrio (assistito o meno).

Ma la politica di detenzione non è solo amministrativa e può assumere risvolti anche penali. È successo a tre ragazzi, Abdalla, Amara and Kader, già detenuti per otto mesi in un braccio speciale, la Division 6 del carcere di La Valletta, e attualmente sotto processo con l’accusa di terrorismo per il “dirottamento”, nel marzo del 2019, della nave mercantile El Hiblu, dopo che un’operazione di soccorso li ha salvati insieme ad altre 106 persone alla deriva, in acque territoriali forse libiche.

I tre, all’epoca dei fatti contestati ancora minorenni, sono in realtà responsabili solo di aver mediato linguisticamente un acceso confronto avvenuto a bordo del El Hiblu in seguito alla decisione, surrettizia e non comunicata, di far rotta di nuovo verso la Libia riconsegnando le ignare persone in fuga agli stessi lager da cui tentavano di sottrarsi. Il confronto a bordo, presentato dall’accusa come ammutinamento, ha indotto il capitano della nave a scegliere di sbarcare a Malta le persone salvate, disobbedendo agli ordini della Capitaneria e della Guardia costiera locale e configurandosi semmai come ammutinamento collettivo, rispetto al quale Michel Foucault avrebbe forse fatto ricorso al termine “contro-condotta”, l’idea di condursi insieme in modo diverso.

La vicenda del processo agli “El Hiblu 3” – un caso politico e giudiziario che, a quasi due secoli di distanza e nel black Mediterranean del presente, sembra riattivare quello atlantico della Amistad – è verosimilmente l’evento che permette di gettare luce sulle politiche invisibili e invisibilizzate di respingimento e “rimpatrio” portate avanti da decenni sull’isola off-shore in deroga alle norme internazionali. Intorno all’esito del processo sembra quindi giocarsi una partita decisiva, l’affermazione o meno di un precedente che sancisca il diritto a “non essere respinti”, venendo riconsegnati nelle mani della famigerata “guardia costiera libica”.

Oggi gli El Hiblu 3 vivono a Malta, hanno un lavoro, alcuni hanno bambini, ma non sono liberi, devono ogni giorno firmare alla stazione di polizia. Per giunta sono costretti a tenersi, come tocca peraltro ad ogni imputato di cittadinanza maltese, a una “distanza di sicurezza” di almeno 50 metri dalla costa e dalle spiagge per non sottrarsi, fuggendo all’autorità giudiziaria, e forse anche per non mischiarsi con i turisti.

L’eco del processo ha dato vita a un’estesa rete di solidarietà, innescando una mobilitazione internazionale sollecitata anche da diverse realtà e movimenti locali, come nel caso della Aditus foundation o di Graffitti. Questi tuttavia sono costretti a misurarsi con situazioni quotidiane meno eclatanti e più intricate, che chiamano in causa la generale riconversione dell’isola in una sorta di stato offshore, e quindi con gli impatti ambientali, politici e sociali di un processo che trova nelle condizioni di vita e di lavoro dei migranti il suo ancoraggio materiale.

Quando non detenuta o “ospitata” in strutture controllate, la presenza di migranti sull’isola si concentra per lo più nell’ombra di una serie di quartieri popolari dell’estesa conurbazione insulare. Qui lo sguardo dei turisti non cade. Ma gli stessi turisti possono imbattersi quotidianamente in migranti assunti con contratti e permessi a tempo determinato, facendosi servire ai tavoli di un bar o un ristorante, così come nelle strutture ricettive da cui l’isola è invasa. O anche attendere che il lavoro di operai, sempre migranti, sui cantieri che popolano lo sprawl urbano sia portato a termine, per poi insediarsi nell’appartamento acquistato scommettendo su un progetto di urban development, leggasi speculazione immobiliare.

È il caso di G., digital nomad italiana proveniente dall’Olanda che, attratta da condizioni particolarmente favorevoli, ha deciso di trasferirsi a Malta lavorando in remoto per un’impresa di import/export e nel frattempo ha investito su un piano di sviluppo, in attesa che l’appartamento che dei lavoratori migranti stanno terminando le venga consegnato. G. non nasconde l’assurdità della situazione: i due assi orbitali incompatibili che regolano le diverse presenze nomadi sull’isola offshore sembrano sovrapporsi e incastrarsi, ma anche questo incastro si costruisce su un perentorio gioco di luci e ombre.

L’elenco di esempi purtroppo potrebbe proseguire, includendo anche Kamara, uno degli El Hiblu 3, che in attesa dell’esito del processo, una volta uscito dal carcere e riammesso alla vita civile e al suo sfruttamento, si è rotto una gamba cadendo da un’impalcatura. In tutti i casi evocati, e negli esiti tragicamente diversi che raccontano, non era prevista nessuna forma di assicurazione, nessuna “EuropAssistance” e nessun tipo di tutela sul lavoro e sulla vita per soccorrere, garantire e proteggere i nomadi non digitali che costruiscono nomad’s island.

(Parti di questo testo sono estratti dal libro in pubblicazione con Derive Approdi a cura di Jacopo Anderlini, Davide Filippi, Luca Giliberti dal titolo: Borderland Italia. Regime di frontiera e autonomia delle migrazioni nella pandemia. Jacopo e Luca sono imbarcati su Tanimar).


L'equipaggio della Tanimar

Siamo un gruppo di ricercatrici e ricercatori delle università di Genova e Parma. Per due settimane, dal 26 settembre all’11 ottobre, attraverseremo il Mediterraneo centrale facendo tappa nei principali snodi della mobilità migrante e del controllo confinario europeo: Pantelleria, Lampedusa, Linosa, Malta.